Marzo 2003

DOPO COPENAGHEN

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Guado d’Europa
Aldo Bello
 
 

 

 

Il confine che si cerca non è solo geografico,
religioso, culturale. E’ quello della
“sovranità” che
si sta tracciando attraverso
la redazione
di una comune
Costituzione.

 

Ultimo progetto europeo, l’allargamento a Venticinque, con l’ingresso dei Paesi emersi dal crollo sovietico. Dunque, Copenaghen ha rappresentato per la geografia europea quel che Bruxelles, nel ‘98, rappresentò per la moneta europea. Da questo momento in poi, ha scritto Padoa-Schioppa, la parola ripassa alla politica europea. I cantieri di lavoro sono riaperti, perché l’Europa sia fattore di storia.
Ipotesi futuribile: l’Unione politica, perché il Vecchio Continente si dia sicurezza ai confini, contribuisca a un ordine mondiale di giustizia e di pace, abbia proprie forze militari pronte a intervenire, se necessario, parli e voti all’Onu. Da tutto questo, la prospettiva dell’elezione di un Presidente, anzi, di un Grande Presidente: Grande, perché presiederebbe il Consiglio europeo, nel quale si riuniscono Capi di Stato e di governo, dei quali dovrebbe attuare le decisioni. Solo così si potrà rispondere alla domanda posta anni fa da Henry Kissinger: qual è il numero di telefono dell’Europa?
Sembra tutto logico. E semplice. Ed è tutto logico, ma complesso. Innanzitutto, in fatto di moneta, di commercio, di concorrenza, quest’ Europa c’ è e sa farsi sentire anche senza il Grande Presidente, come ha dimostrato in più occasioni, opponendosi ad esempio alla fusione tra General Electric e Honeywell, e ribattendo colpo su colpo al protezionismo americano sull’acciaio. Poi, il Presidente (della Commissione) è democraticamente legittimato come qualunque primo ministro, è nominato anche lui da un organo superiore (Capo dello Stato, Consiglio europeo), governa solo se sorretto dalla fiducia di un Parlamento emerso da libere elezioni. Se ha meno poteri di un Presidente del Consiglio non è per difetto d’investitura, ma perché quei poteri mancano all’Unione. E infine, i poteri mancanti (politica estera, sicurezza) non glieli può dare il Grande Presidente, il quale, senza quei poteri, appunto, sarebbe solo un Presidente d’argilla.

Dunque, per essere fattore di storia, l’Europa deve disporre di due sponde portanti: capacità di decidere, mezzi per agire. Specifica Padoa-Schioppa: capacità di decidere significa deliberazioni a maggioranza.
E’ evidente che l’unione nasce solo con l’eliminazione della paralizzante condizione dell’umanità per decidere. Con l’esercizio del veto si blocca non solo una particolare decisione, ma il fatto stesso dell’Unione. E poiché ci sarà sempre qualcuno pronto a ricorrere all’arma del veto, all’Unione praticamente si impedisce di esistere. Mezzi per agire, poi, significa strumenti propri non presi a prestito. L’Unione passa dal mondo delle idee a quello degli atti solo con la disponibilità di quegli strumenti: risorse di bilancio, apparati militari, ambasciate, seggio alle Nazioni Unite... Una decisione priva di esecuzione, messa in atto, non è una decisione: è auspicio, raccomandazione, mugugno, fantasia. Illusione.
Un Grande Presidente, senza questi strumenti, non fa forte l’Europa; ne è, al contrario, indebolito, e a sua volta contribuisce a indebolire l’Unione.
Scrive argutamente Il Riformista che, parlando in tempi catacombali di allargamento dell’Europa ad Est, un giornalista della Bbc si prese la briga di predisporre tre collages, con le Europe a Sei, a Quindici e a Venticinque (con l’inclusione di mezza Turchia). Volendone poi stabilire il centro, dimostrò che per i Sei doveva fissare l’indice nel cuore della Francia, per i Quindici dalle parti di Maastricht, per i Venticinque nell’estremo oriente tedesco, dalle parti della frontiera polacca dell’Oder-Neisse.
Con il che si dimostra, non solo didascalicamente, che è la Francia, l’ex centro geografico e politico, che dopo la caduta dell’Urss ha perso la propria stella polare, che De Gaulle aveva fissato così: a che cosa serve l’Europa, se non ad evitare la dominazione americana e quella sovietica?
Altro che l’isolazionismo (antieuropeista) inglese. Chiunque abbia seguito la storia della costruzione europea «sa che la Francia è stata ed è il limite di ogni processo di integrazione [...]. Parigi ha dettato il passo della marcia, ed è in buona parte a lei che si deve la tanto deprecata assenza di una politica estera comune». Col suo potere di veto, che le serve al Palazzo di Vetro di New York e a quello di vetrocemento di Bruxelles per arrogarsi un diritto (un’illusione) di potenza superiore al suo peso e alla sua caratura effettiva; e le serve per gabbare il mondo, spacciando per interessi europei gli interessi francesi. Non per niente la Francia è stata cupamente contraria all’allargamento ad Est, e ora è contraria all’ingresso della Turchia. Tutto quel che riduce la sua centralità, infatti, abbatte quote della sua valenza nel mondo, e acutizza l’istinto di difesa dei suoi interessi nazionali. Contagiati dall’antiamericanismo gallico, tutti abbiamo attribuito alla statunitense Texaco la decisione di far fuori quel gentiluomo di Saddam Hussein, e nessuno si è preso la briga di dare un’occhiata ai bilanci della francese Total-Fina-Elf per capire come mai Parigi non voleva che a Baghdad cambiasse regime! De Gaulle è morto e sepolto, ma l’ésprit de grandeur continua a passare attraverso un immarcescibile gollismo.

Copenaghen aveva avuto un preludio: Praga, nel novembre 2002. Qui si era ricomposta la frattura militare europea: il nucleo del Patto di Varsavia – ad eccezione di Mosca – s’era disciolto nella Nato e aveva ritrovato sotto il Castello della capitale ceca la naturale collocazione in quello che, un tempo, la geopolitica definiva “Occidente”. In un mese, per ben due volte era stato stracciato quel che restava di Yalta.
Uomo di Praga: Václav Havel. Questo drammaturgo aveva avuto molto tempo per sognare nelle galere del regime, nei tempi vuoti di un’esistenza scandita dai ritmi della censura comunista, nei giorni dell’esilio, nelle ore in ospedale a lottare contro il male che gli macerava un polmone. Eppure, non aveva mai osato immaginare di poter realizzare quanto è riuscito poi ad ottenere.

Con lui, eccezione alla regola, la realtà si è presa una libertà rara: ha travalicato il sogno.
Havel era stato il solo statista, dagli anni bui dei “samizdat” e di “Charta ‘77”, ad aver pensato e guidato l’insurrezione, ad averne gestito la transizione, ad aver guadagnato il sostegno popolare. Lech Walesa fu il simbolo imbattuto della ribellione di un popolo, ma Havel, ancor più dell’uomo di Danzica, è stato emblema di un processo completo che nella sua fase finale mosse dalla “Rivoluzione di velluto” praghese, fino a giungere alla bandiera stellata dell’Ue stesa sulle democrazie dell’Europa centro-orientale.

Giunto alla fine di questo percorso, ha lasciato la vita politica. Con una popolarità forse in calo, perché ha pagato la scarsa aggressività demagogica che abbonda dappertutto, altrove: paga, cioè, il prezzo di una politica radicata nell’etica. Di moralità politica, o meglio, di gestione della cosa pubblica come suprema espressione di una vita morale, era stato il profeta: «Il nostro Paese – disse nel ‘90 – potrà diffondere amore e comprensione, intelletto e idee. Questo potrà essere il nostro contributo specifico alla politica internazionale. Masaryk basò la sua politica sulla moralità».

Di Thomás Masaryk, il presidente-intellettuale padre della prima Repubblica cecoslovacca fatta a pezzi da Monaco e dai nazisti, Havel si era sentito il naturale continuatore in tutti gli anni di bassa congiuntura della storia. A lui si era ispirato, ogni volta che ha riportato la politica alla sua essenza dimenticata: «Impariamo e insegniamo agli altri che la politica deve essere il desiderio di contribuire al benessere della comunità, piuttosto che il bisogno di mentire, tradire, violentare la comunità. La politica non è solo l’arte del possibile, soprattutto se il “possibile” significa speculazione, calcolo, intrigo, ma può anche essere l’arte dell’impossibile, ovvero l’arte di essere capaci di migliorare se stessi e il mondo».
Sull’esigenza di una suprema dimensione morale volle porre l’accento per indicare il cambiamento dalla decadenza del regime marxiano e per frenare le intemperanze cui un popolo liberato alla prova di un mercato senza regole sarebbe incorso. Era un monito anche per la classe dirigente ventura, che avrebbe gestito spesso oltre i limiti del codice penale la prima fase dell’apertura ceca al sistema occidentale.
Fra l’altro, Havel avrebbe avuto il suo “annus horribilis”, quando diede l’addio alla presidenza per sei mesi, mentre si consumava la frattura fra cechi e slovacchi. Non volle cavalcare una storia imbizzarrita dalla voglia di divisione suggerita da un nazionalismo figlio di una rincorsa al passato, elemento perverso della liberazione dalla dittatura. Di quella separazione Havel non volle essere, nel ‘92, il notaio.
Tornò sei mesi più tardi alla presidenza della sola Repubblica ceca, reggendola per dieci anni, dopo aver traghettato la sua terra verso l’Ue e la Nato. Paradossalmente riscattando lo scacco della scissione, perché la forza del suo carisma ha sospinto Bratislava e la Slovacchia, anche se zoppicanti, verso Bruxelles.
Questo è l’uomo che i giornali franco-tedeschi, e in parte anche olandesi, hanno definito, per il suo appoggio agli Usa, «vassallo degli americani». Nessuna replica di Havel a questo linguaggio barbaro. Si è ritirato nell’Algarve, in Portogallo, a riprendere il suo lavoro di drammaturgo, a scrivere, come ha promesso, qualcosa che sta fra Henry Kissinger e Charles Bukowski. A ricominciare la sua terza vita.

(Verrebbe da chiedersi se la Francia avrebbe mai vinto l’ultimo conflitto mondiale, nettandosi poi mani e coscienza sporcate dal regime collaborazionista di Vichy: e se la Germania esisterebbe oggi come Stato, senza l’intervento americano nella guerra calda e in quella fredda.
Verrebbe da chiedersi se siano state vassalle anch’esse dal giorno in cui il fiato rovente del nazismo arrugginì l’Ovest europeo, e dai tempi in cui una storia violenta di stragi, di distruzioni e di saccheggi, coronata dallo stupro di due milioni di tedesche, comprese molte bambine e altrettante superstiti ebree nei lager, contrassegnò l’avanzata annichilente dell’Armata Rossa in Germania, fino alla capitale. Si legga in proposito il rizzoliano Berlino, di Antony Beever. Discorso, questo, che ci porterebbe lontano dal tema. Ma sul quale promettiamo di ritornare.
La domanda, adesso, è: – Siamo alla vigilia di una guerra fredda inter-europea, e magari simultaneamente euro-americana? E chi, e perché, potrà determinarne l’avvio?).
C’è, all’origine, un problema di “assi”. L’asse franco-tedesco è stato quello sul quale avevano puntato Parigi e Bonn (al tempo della Repubblica federale tedesca), e in seguito Parigi e Berlino, come struttura portante dell’Unione già quando l’Europa era a Sei, e fino all’Europa dei Quindici. Entrato in Ue il Regno Unito, si creò il secondo asse, Inghilterra-Italia-Spagna, con l’obiettivo di riequilibrare in qualche modo il peso politico del blocco del Nord.
Con una differenza: il primo asse sottintendeva una supremazia franco-tedesca in Ue affrancata da Mosca e da Washington, con la Francia influente nell’Europa del Sud e dell’Ovest e la Germania in quella del Centro e dell’Est; il secondo, con l’Italia influente nel Sud mediterraneo, e con l’Inghilterra sbilanciata non casualmente verso gli Stati Uniti. Tutto questo era visibile, ma tutti fingevano di ignorarlo, giocando sulle tattiche dei rinvii delle decisioni e dei chiarimenti.
A rimettere in ballo la questione sono stati l’allargamento a Venticinque e il dibattito aperto sull’ingresso della Turchia in Ue. I nuovi Dieci giungono in Europa con un carico di nazionalismo che, venuto dal passato e alimentato dagli schematici nozionismi politici della scuola marxiana, a differenza di quel che aveva subito intuito Havel, non ha recepito i due elementi fondamentali che sono stati alla base dell’Europa comunitaria: la memoria (tradotta in una sorta di decalogo delle proibizioni, cioè di ciò che è vietato fare nell’Ue, dal totalitarismo al colonialismo, dalla pianificazione dell’economia alla negazione dei diritti umani) e l’oblio (che è all’origine del principio di chiusura definitiva di istanze territoriali, etniche, identitarie, ecc.). Perciò il lavoro di allineamento dei nuovi Paesi ai princìpi fondatori dell’Ue richiederà tempi non brevi di osservazione, di controllo e di indirizzo.
A tutto questo si collega il problema della Turchia, della quale (e questo è il nodo gordiano) gli Stati Uniti hanno chiesto, addirittura con toni perentori, l’immediata confluenza in Ue.
La pretesa dell’ingresso di un Paese nel quale, dopo la rivoluzione laica di Atatürk, per la prima volta ha vinto le elezioni il partito musulmano, smarrisce profondamente Bruxelles, perché mette finalmente l’Unione di fronte al grande e grave compito della propria storia: proprio la questione turca chiama i Venticinque a dire a breve termine “chi sono” e “che cosa vogliono divenire”, quale istituzione collettiva vogliono creare, quale tipo di comune statualità e sovranità intendono edificare.
Nel momento in cui non c’è più posto per le ambiguità, gli europei sono costretti a “volere” quel che “dicono” sul loro futuro. E’ a quest’Europa in divenire che la Turchia dovrà dare il proprio assenso e il proprio rifiuto. Ed è quest’Europa in divenire che gli Stati Uniti vogliono influenzare, e addirittura predeterminare, decidendo al suo posto non solo quali debbano essere i suoi confini, ma anche quale debba essere la sua natura politica, quale debba essere la sua sovranità.
L’Europa non ha un autentico confine, perché ha una statualità ancora in formazione: ne stanno discutendo da oltre un anno i “Convenzionali” 104 deputati nazionali ed europei, insieme con rappresentanti dei governi e della Commissione. Il confine che si cerca non è solo geografico, religioso, culturale. E’ quello della “sovranità” che si stà tracciando, attraverso la redazione di una comune Costituzione. Entro questo spazio la sovranità sarà esercitata secondo modi che ogni futuro candidato, entrando in Ue, dovrà accettare.
Lo smarrimento degli europei di fronte alla domanda di Ankara è in realtà lo smarrimento degli europei di fronte a se stessi: essi esitano a dare risposte perché non sanno come vogliono distribuire le future sovranità nazionali ed europee, perché non hanno deciso l’istituzione che vogliono divenire. Non la Turchia, ma se stessi debbono interrogare. Tutti sono chiamati a venir fuori dall’equivoco: quelli che intendono percorrere la via politica (Italia), quelli che si guardano dal varcarla e tuttavia la tengono aperta (Francia), quelli che vogliono chiuderla (Inghilterra).
In questo quadro, il problema turco apre due prospettive. Se la risposta ad Ankara sarà subito positiva, vuol dire che l’Europa vuol restare più o meno quella che è: un’Unione di Stati non più sovrani, ma che tuttavia esitano e sono contrari a creare nuove sovranità condivise accanto a quella della moneta. E’ ciò che desidera Londra, spalleggiata da Roma, Madrid e Atene.
Il settimanale Economist è stato chiaro: si devono schiudere le porte alla Turchia, perché il Regno Unito vuole un’Unione “loose”, che tradotto nobilmente significa “sconnessa”, ma tradotto più realisticamente vuol dire “scalcagnata”. Esattamente ciò cui mirano gli Stati Uniti: non ad un’Europa politica forte e autonoma, ma ad una zona informe di libero scambio, un’area dove le sovranità già perdute dagli Stati membri non si ricostituiscono a livello sovrannazionale, ma sono di fatto affidate alle amministrazioni americane.
Seconda prospettiva. L’ingresso della Turchia aprirebbe all’Ue spazi di azione cruciali. Ankara vive parte in Europa e parte in Asia, e il peso che ha è imponente nel Caucaso, in Medio Oriente e nelle regioni turcofone dell’Asia Centrale.

Un’Europa che voglia contare nel mondo potrebbe avvalersi di questa formidabile marca di confine, e da questo punto di vista hanno ragione i fautori dell’adesione: includendo Ankara, l’Europa potrà fare quel che l’America non fa verso il mondo musulmano: rafforzare e patrocinare l’Islam moderato, per isolare quello integralista, scongiurando il conflitto di civiltà tra mondo islamico e mondo cristiano, che la politica statunitense sta rischiando.

La risposta spetta ai turchi: sono disposti a sacrificare una parte della loro sovranità, una parte consistente, condividendola con gli europei? Oppure si comporterà come una seconda Inghilterra, sempre gelosa delle proprie prerogative nazionali e del proprio speciale legame con l’America?
Europa al guado, in ogni senso. Politico, per l’eventuale apertura al mondo turcofono, che penetra in profondità nell’Asia; religioso, perché può accogliere un Islam che sia disposto a realizzare la separazione dei poteri; economico, perché apre spazi e abbatte frontiere, e mette a disposizione cospicue potenzialità commerciali e altrettanto cospicue materie prime; culturale, perché l’intero scacchiere è una miniera formidabile di arte, di storia, di civiltà. Sarà una suggestione personale, ma è il caso di ricordare che Europa, figlia del re fenicio Agénore, fu rapita da Giove, tramutatosi in bue, che la portò a Creta, dove le si rivelò, avendone i figli Minosse, Radamante e Sarpedonte. Il trasferimento verso l’isola comportò un transito tra continenti attraverso l’Halic, cioè il Bosforo: e Halic significa guado della giovenca, passaggio della vergine principessa e del toro-Giove, punto d’incontro e di confronto, e in ultima analisi di fusione tra civiltà. Che futuro ci riserva il guado del terzo millennio?

   
   
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