Il confine che si cerca non è solo geografico,
religioso, culturale. E quello della
sovranità che
si sta tracciando attraverso
la redazione
di una comune
Costituzione.
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Ultimo progetto europeo, lallargamento a Venticinque, con
lingresso dei Paesi emersi dal crollo sovietico. Dunque, Copenaghen
ha rappresentato per la geografia europea quel che Bruxelles, nel
98, rappresentò per la moneta europea. Da questo momento
in poi, ha scritto Padoa-Schioppa, la parola ripassa alla politica
europea. I cantieri di lavoro sono riaperti, perché lEuropa
sia fattore di storia.
Ipotesi futuribile: lUnione politica, perché il Vecchio
Continente si dia sicurezza ai confini, contribuisca a un ordine
mondiale di giustizia e di pace, abbia proprie forze militari pronte
a intervenire, se necessario, parli e voti allOnu. Da tutto
questo, la prospettiva dellelezione di un Presidente, anzi,
di un Grande Presidente: Grande, perché presiederebbe il
Consiglio europeo, nel quale si riuniscono Capi di Stato e di governo,
dei quali dovrebbe attuare le decisioni. Solo così si potrà
rispondere alla domanda posta anni fa da Henry Kissinger: qual è
il numero di telefono dellEuropa?
Sembra tutto logico. E semplice. Ed è tutto logico, ma complesso.
Innanzitutto, in fatto di moneta, di commercio, di concorrenza,
quest Europa c è e sa farsi sentire anche senza
il Grande Presidente, come ha dimostrato in più occasioni,
opponendosi ad esempio alla fusione tra General Electric e Honeywell,
e ribattendo colpo su colpo al protezionismo americano sullacciaio.
Poi, il Presidente (della Commissione) è democraticamente
legittimato come qualunque primo ministro, è nominato anche
lui da un organo superiore (Capo dello Stato, Consiglio europeo),
governa solo se sorretto dalla fiducia di un Parlamento emerso da
libere elezioni. Se ha meno poteri di un Presidente del Consiglio
non è per difetto dinvestitura, ma perché quei
poteri mancano allUnione. E infine, i poteri mancanti (politica
estera, sicurezza) non glieli può dare il Grande Presidente,
il quale, senza quei poteri, appunto, sarebbe solo un Presidente
dargilla.

Dunque, per essere fattore di storia, lEuropa deve disporre
di due sponde portanti: capacità di decidere, mezzi per agire.
Specifica Padoa-Schioppa: capacità di decidere significa
deliberazioni a maggioranza.
E evidente che lunione nasce solo con leliminazione
della paralizzante condizione dellumanità per decidere.
Con lesercizio del veto si blocca non solo una particolare
decisione, ma il fatto stesso dellUnione. E poiché
ci sarà sempre qualcuno pronto a ricorrere allarma
del veto, allUnione praticamente si impedisce di esistere.
Mezzi per agire, poi, significa strumenti propri non presi a prestito.
LUnione passa dal mondo delle idee a quello degli atti solo
con la disponibilità di quegli strumenti: risorse di bilancio,
apparati militari, ambasciate, seggio alle Nazioni Unite... Una
decisione priva di esecuzione, messa in atto, non è una decisione:
è auspicio, raccomandazione, mugugno, fantasia. Illusione.
Un Grande Presidente, senza questi strumenti, non fa forte lEuropa;
ne è, al contrario, indebolito, e a sua volta contribuisce
a indebolire lUnione.
Scrive argutamente Il Riformista che, parlando in tempi catacombali
di allargamento dellEuropa ad Est, un giornalista della Bbc
si prese la briga di predisporre tre collages, con le Europe a Sei,
a Quindici e a Venticinque (con linclusione di mezza Turchia).
Volendone poi stabilire il centro, dimostrò che per i Sei
doveva fissare lindice nel cuore della Francia, per i Quindici
dalle parti di Maastricht, per i Venticinque nellestremo oriente
tedesco, dalle parti della frontiera polacca dellOder-Neisse.
Con il che si dimostra, non solo didascalicamente, che è
la Francia, lex centro geografico e politico, che dopo la
caduta dellUrss ha perso la propria stella polare, che De
Gaulle aveva fissato così: a che cosa serve lEuropa,
se non ad evitare la dominazione americana e quella sovietica?
Altro che lisolazionismo (antieuropeista) inglese. Chiunque
abbia seguito la storia della costruzione europea «sa che
la Francia è stata ed è il limite di ogni processo
di integrazione [...]. Parigi ha dettato il passo della marcia,
ed è in buona parte a lei che si deve la tanto deprecata
assenza di una politica estera comune». Col suo potere di
veto, che le serve al Palazzo di Vetro di New York e a quello di
vetrocemento di Bruxelles per arrogarsi un diritto (unillusione)
di potenza superiore al suo peso e alla sua caratura effettiva;
e le serve per gabbare il mondo, spacciando per interessi europei
gli interessi francesi. Non per niente la Francia è stata
cupamente contraria allallargamento ad Est, e ora è
contraria allingresso della Turchia. Tutto quel che riduce
la sua centralità, infatti, abbatte quote della sua valenza
nel mondo, e acutizza listinto di difesa dei suoi interessi
nazionali. Contagiati dallantiamericanismo gallico, tutti
abbiamo attribuito alla statunitense Texaco la decisione di far
fuori quel gentiluomo di Saddam Hussein, e nessuno si è preso
la briga di dare unocchiata ai bilanci della francese Total-Fina-Elf
per capire come mai Parigi non voleva che a Baghdad cambiasse regime!
De Gaulle è morto e sepolto, ma lésprit de grandeur
continua a passare attraverso un immarcescibile gollismo.
Copenaghen aveva avuto un preludio: Praga, nel novembre 2002. Qui
si era ricomposta la frattura militare europea: il nucleo del Patto
di Varsavia ad eccezione di Mosca sera disciolto
nella Nato e aveva ritrovato sotto il Castello della capitale ceca
la naturale collocazione in quello che, un tempo, la geopolitica
definiva Occidente. In un mese, per ben due volte era
stato stracciato quel che restava di Yalta.
Uomo di Praga: Václav Havel. Questo drammaturgo aveva avuto
molto tempo per sognare nelle galere del regime, nei tempi vuoti
di unesistenza scandita dai ritmi della censura comunista,
nei giorni dellesilio, nelle ore in ospedale a lottare contro
il male che gli macerava un polmone. Eppure, non aveva mai osato
immaginare di poter realizzare quanto è riuscito poi ad ottenere.
Con lui, eccezione alla regola, la realtà si è presa
una libertà rara: ha travalicato il sogno.
Havel era stato il solo statista, dagli anni bui dei samizdat
e di Charta 77, ad aver pensato e guidato linsurrezione,
ad averne gestito la transizione, ad aver guadagnato il sostegno
popolare. Lech Walesa fu il simbolo imbattuto della ribellione di
un popolo, ma Havel, ancor più delluomo di Danzica,
è stato emblema di un processo completo che nella sua fase
finale mosse dalla Rivoluzione di velluto praghese,
fino a giungere alla bandiera stellata dellUe stesa sulle
democrazie dellEuropa centro-orientale.
Giunto alla fine di questo percorso, ha lasciato la vita politica.
Con una popolarità forse in calo, perché ha pagato
la scarsa aggressività demagogica che abbonda dappertutto,
altrove: paga, cioè, il prezzo di una politica radicata nelletica.
Di moralità politica, o meglio, di gestione della cosa pubblica
come suprema espressione di una vita morale, era stato il profeta:
«Il nostro Paese disse nel 90 potrà
diffondere amore e comprensione, intelletto e idee. Questo potrà
essere il nostro contributo specifico alla politica internazionale.
Masaryk basò la sua politica sulla moralità».
Di Thomás Masaryk, il presidente-intellettuale padre della
prima Repubblica cecoslovacca fatta a pezzi da Monaco e dai nazisti,
Havel si era sentito il naturale continuatore in tutti gli anni
di bassa congiuntura della storia. A lui si era ispirato, ogni volta
che ha riportato la politica alla sua essenza dimenticata: «Impariamo
e insegniamo agli altri che la politica deve essere il desiderio
di contribuire al benessere della comunità, piuttosto che
il bisogno di mentire, tradire, violentare la comunità. La
politica non è solo larte del possibile, soprattutto
se il possibile significa speculazione, calcolo, intrigo,
ma può anche essere larte dellimpossibile, ovvero
larte di essere capaci di migliorare se stessi e il mondo».
Sullesigenza di una suprema dimensione morale volle porre
laccento per indicare il cambiamento dalla decadenza del regime
marxiano e per frenare le intemperanze cui un popolo liberato alla
prova di un mercato senza regole sarebbe incorso. Era un monito
anche per la classe dirigente ventura, che avrebbe gestito spesso
oltre i limiti del codice penale la prima fase dellapertura
ceca al sistema occidentale.
Fra laltro, Havel avrebbe avuto il suo annus horribilis,
quando diede laddio alla presidenza per sei mesi, mentre si
consumava la frattura fra cechi e slovacchi. Non volle cavalcare
una storia imbizzarrita dalla voglia di divisione suggerita da un
nazionalismo figlio di una rincorsa al passato, elemento perverso
della liberazione dalla dittatura. Di quella separazione Havel non
volle essere, nel 92, il notaio.
Tornò sei mesi più tardi alla presidenza della sola
Repubblica ceca, reggendola per dieci anni, dopo aver traghettato
la sua terra verso lUe e la Nato. Paradossalmente riscattando
lo scacco della scissione, perché la forza del suo carisma
ha sospinto Bratislava e la Slovacchia, anche se zoppicanti, verso
Bruxelles.
Questo è luomo che i giornali franco-tedeschi, e in
parte anche olandesi, hanno definito, per il suo appoggio agli Usa,
«vassallo degli americani». Nessuna replica di Havel
a questo linguaggio barbaro. Si è ritirato nellAlgarve,
in Portogallo, a riprendere il suo lavoro di drammaturgo, a scrivere,
come ha promesso, qualcosa che sta fra Henry Kissinger e Charles
Bukowski. A ricominciare la sua terza vita.
(Verrebbe da chiedersi se la Francia avrebbe mai vinto lultimo
conflitto mondiale, nettandosi poi mani e coscienza sporcate dal
regime collaborazionista di Vichy: e se la Germania esisterebbe
oggi come Stato, senza lintervento americano nella guerra
calda e in quella fredda.
Verrebbe da chiedersi se siano state vassalle anchesse dal
giorno in cui il fiato rovente del nazismo arrugginì lOvest
europeo, e dai tempi in cui una storia violenta di stragi, di distruzioni
e di saccheggi, coronata dallo stupro di due milioni di tedesche,
comprese molte bambine e altrettante superstiti ebree nei lager,
contrassegnò lavanzata annichilente dellArmata
Rossa in Germania, fino alla capitale. Si legga in proposito il
rizzoliano Berlino, di Antony Beever. Discorso, questo, che ci porterebbe
lontano dal tema. Ma sul quale promettiamo di ritornare.
La domanda, adesso, è: Siamo alla vigilia di una guerra
fredda inter-europea, e magari simultaneamente euro-americana? E
chi, e perché, potrà determinarne lavvio?).
Cè, allorigine, un problema di assi.
Lasse franco-tedesco è stato quello sul quale avevano
puntato Parigi e Bonn (al tempo della Repubblica federale tedesca),
e in seguito Parigi e Berlino, come struttura portante dellUnione
già quando lEuropa era a Sei, e fino allEuropa
dei Quindici. Entrato in Ue il Regno Unito, si creò il secondo
asse, Inghilterra-Italia-Spagna, con lobiettivo di riequilibrare
in qualche modo il peso politico del blocco del Nord.
Con una differenza: il primo asse sottintendeva una supremazia franco-tedesca
in Ue affrancata da Mosca e da Washington, con la Francia influente
nellEuropa del Sud e dellOvest e la Germania in quella
del Centro e dellEst; il secondo, con lItalia influente
nel Sud mediterraneo, e con lInghilterra sbilanciata non casualmente
verso gli Stati Uniti. Tutto questo era visibile, ma tutti fingevano
di ignorarlo, giocando sulle tattiche dei rinvii delle decisioni
e dei chiarimenti.
A rimettere in ballo la questione sono stati lallargamento
a Venticinque e il dibattito aperto sullingresso della Turchia
in Ue. I nuovi Dieci giungono in Europa con un carico di nazionalismo
che, venuto dal passato e alimentato dagli schematici nozionismi
politici della scuola marxiana, a differenza di quel che aveva subito
intuito Havel, non ha recepito i due elementi fondamentali che sono
stati alla base dellEuropa comunitaria: la memoria (tradotta
in una sorta di decalogo delle proibizioni, cioè di ciò
che è vietato fare nellUe, dal totalitarismo al colonialismo,
dalla pianificazione delleconomia alla negazione dei diritti
umani) e loblio (che è allorigine del principio
di chiusura definitiva di istanze territoriali, etniche, identitarie,
ecc.). Perciò il lavoro di allineamento dei nuovi Paesi ai
princìpi fondatori dellUe richiederà tempi non
brevi di osservazione, di controllo e di indirizzo.
A tutto questo si collega il problema della Turchia, della quale
(e questo è il nodo gordiano) gli Stati Uniti hanno chiesto,
addirittura con toni perentori, limmediata confluenza in Ue.
La pretesa dellingresso di un Paese nel quale, dopo la rivoluzione
laica di Atatürk, per la prima volta ha vinto le elezioni il
partito musulmano, smarrisce profondamente Bruxelles, perché
mette finalmente lUnione di fronte al grande e grave compito
della propria storia: proprio la questione turca chiama i Venticinque
a dire a breve termine chi sono e che cosa vogliono
divenire, quale istituzione collettiva vogliono creare, quale
tipo di comune statualità e sovranità intendono edificare.
Nel momento in cui non cè più posto per le ambiguità,
gli europei sono costretti a volere quel che dicono
sul loro futuro. E a questEuropa in divenire che la
Turchia dovrà dare il proprio assenso e il proprio rifiuto.
Ed è questEuropa in divenire che gli Stati Uniti vogliono
influenzare, e addirittura predeterminare, decidendo al suo posto
non solo quali debbano essere i suoi confini, ma anche quale debba
essere la sua natura politica, quale debba essere la sua sovranità.
LEuropa non ha un autentico confine, perché ha una
statualità ancora in formazione: ne stanno discutendo da
oltre un anno i Convenzionali 104 deputati nazionali
ed europei, insieme con rappresentanti dei governi e della Commissione.
Il confine che si cerca non è solo geografico, religioso,
culturale. E quello della sovranità che
si stà tracciando, attraverso la redazione di una comune
Costituzione. Entro questo spazio la sovranità sarà
esercitata secondo modi che ogni futuro candidato, entrando in Ue,
dovrà accettare.
Lo smarrimento degli europei di fronte alla domanda di Ankara è
in realtà lo smarrimento degli europei di fronte a se stessi:
essi esitano a dare risposte perché non sanno come vogliono
distribuire le future sovranità nazionali ed europee, perché
non hanno deciso listituzione che vogliono divenire. Non la
Turchia, ma se stessi debbono interrogare. Tutti sono chiamati a
venir fuori dallequivoco: quelli che intendono percorrere
la via politica (Italia), quelli che si guardano dal varcarla e
tuttavia la tengono aperta (Francia), quelli che vogliono chiuderla
(Inghilterra).
In questo quadro, il problema turco apre due prospettive. Se la
risposta ad Ankara sarà subito positiva, vuol dire che lEuropa
vuol restare più o meno quella che è: unUnione
di Stati non più sovrani, ma che tuttavia esitano e sono
contrari a creare nuove sovranità condivise accanto a quella
della moneta. E ciò che desidera Londra, spalleggiata
da Roma, Madrid e Atene.
Il settimanale Economist è stato chiaro: si devono schiudere
le porte alla Turchia, perché il Regno Unito vuole unUnione
loose, che tradotto nobilmente significa sconnessa,
ma tradotto più realisticamente vuol dire scalcagnata.
Esattamente ciò cui mirano gli Stati Uniti: non ad unEuropa
politica forte e autonoma, ma ad una zona informe di libero scambio,
unarea dove le sovranità già perdute dagli Stati
membri non si ricostituiscono a livello sovrannazionale, ma sono
di fatto affidate alle amministrazioni americane.
Seconda prospettiva. Lingresso della Turchia aprirebbe allUe
spazi di azione cruciali. Ankara vive parte in Europa e parte in
Asia, e il peso che ha è imponente nel Caucaso, in Medio
Oriente e nelle regioni turcofone dellAsia Centrale.
UnEuropa che voglia contare nel mondo potrebbe avvalersi
di questa formidabile marca di confine, e da questo punto di vista
hanno ragione i fautori delladesione: includendo Ankara, lEuropa
potrà fare quel che lAmerica non fa verso il mondo
musulmano: rafforzare e patrocinare lIslam moderato, per isolare
quello integralista, scongiurando il conflitto di civiltà
tra mondo islamico e mondo cristiano, che la politica statunitense
sta rischiando.
La risposta spetta ai turchi: sono disposti a sacrificare una parte
della loro sovranità, una parte consistente, condividendola
con gli europei? Oppure si comporterà come una seconda Inghilterra,
sempre gelosa delle proprie prerogative nazionali e del proprio
speciale legame con lAmerica?
Europa al guado, in ogni senso. Politico, per leventuale apertura
al mondo turcofono, che penetra in profondità nellAsia;
religioso, perché può accogliere un Islam che sia
disposto a realizzare la separazione dei poteri; economico, perché
apre spazi e abbatte frontiere, e mette a disposizione cospicue
potenzialità commerciali e altrettanto cospicue materie prime;
culturale, perché lintero scacchiere è una miniera
formidabile di arte, di storia, di civiltà. Sarà una
suggestione personale, ma è il caso di ricordare che Europa,
figlia del re fenicio Agénore, fu rapita da Giove, tramutatosi
in bue, che la portò a Creta, dove le si rivelò, avendone
i figli Minosse, Radamante e Sarpedonte. Il trasferimento verso
lisola comportò un transito tra continenti attraverso
lHalic, cioè il Bosforo: e Halic significa guado della
giovenca, passaggio della vergine principessa e del toro-Giove,
punto dincontro e di confronto, e in ultima analisi di fusione
tra civiltà. Che futuro ci riserva il guado del terzo millennio?
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