Marzo 2003

L’EUROPA UTILE

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Erasmus
verso il terzo milione
Mario Pinzauti
 
 

 

 

 

 

E’ una prospettiva che può far mutare la decisione
di rimettere il sogno nel cassetto,
di rinunciare
a diventare un “Erasmus’s boy”.

 

Partì a modesta velocità e in punta di piedi. Ora corre. Per il prossimo avvenire promette di volare.
Parliamo di Erasmus, uno dei fiori all’occhiello di quell’“Europa utile” – impegnata cioè a migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini – di cui ci stiamo occupando in questa rubrica della nostra Rivista. E’ il programma che offre agli studenti universitari di 31 Paesi – i 15 dell’Unione, i 13 candidati all’allargamento, i 3 (Islanda, Liechtenstein, Norvegia) dello Spazio Economico Europeo – la possibilità di fare un’esperienza di studio e di vita oltre frontiera: esattamente in un Paese europeo diverso da quello di normale residenza.
Al suo debutto, nel 1987, ebbe soltanto 3 mila adesioni (di cui appena 220 in Italia). Adesso gli studenti che partecipano annualmente all’iniziativa sono in media 120 mila (di cui 12.421 italiani). E presto dovrebbero essere molti di più. Qualche mese fa, lo scorso ottobre, nel festeggiare il milionesimo studente di Erasmus, Viviane Reding, il commissario europeo per l’istruzione e per la cultura, ha previsto che entro il 2010, in circa otto anni, il numero complessivo dei giovani che hanno aderito al programma dovrebbe salire a 3 milioni, avere dunque una crescita media annua di poco meno di 300 mila giovani. Il che vuol dire moltiplicare per cento i numeri del 1987 e raddoppiare abbondantemente quelli di oggi. Un bel successo: che potrebbe essere anche maggiore se si eliminassero o si riducessero i problemi che continuano a tenere lontani da Erasmus un certo numero di studenti europei. Vedremo tra poco quali sono questi problemi.
Prima, però, completiamo il quadro di successi di Erasmus aggiungendo un altro dato: sono arrivate a 1.800 le università europee che collaborano al programma. E’ – assieme a quella degli studenti partecipanti – davvero una bella cifra. E dà un solido argomento in più alle istituzioni dell’Unione per proclamare Erasmus un grande successo della politica dell’“Europa utile”.
E’ un giudizio che trova noi, e assieme a noi molti altri, pienamente consenzienti. Ma che deve essere completato da una considerazione: si poteva e si può ancora oggi fare molto di più.

Nel 1987 erano pochissimi gli studenti universitari europei che conoscevano Erasmus per nome e cognome. In buona parte delle università le circolari e gli opuscoli su questo programma spesso e volentieri finivano negli archivi delle segreterie – se non nei cestini! – senza essere portati all’attenzione degli studenti. I mezzi di comunicazione davano sull’argomento rare, scarse e talvolta poco chiare informazioni. Da qualche anno non è più così. Le università che collaborano all’iniziativa sono ora – lo abbiamo visto – un numero imponente. Qualche notizia su Erasmus comincia a far breccia nel silenzio dei giornali sull’argomento. E i giovani che navigano su Internet trovano, su questo programma, un’ampissima informazione (soprattutto sui siti della Commissione Europea e delle maggiori università).

Nonostante questi rilevanti progressi, non si può però ancora dire che la possibilità di conoscere bene Erasmus e quindi di apprezzarlo sia a disposizione di tutti gli studenti europei. In qualche università le informazioni sul programma sono ancora insufficienti. Oppure non sono sostenute con valutazioni incoraggianti da parte dei docenti: con la conseguenza – quando questo accade – che tra gli stessi giovani che, con qualche difficoltà, riescono a mettere insieme un’adeguata quantità di notizie, non pochi finiscono con il dare attenzione e interesse più ai sacrifici che ai vantaggi e si tirano indietro dopo aver fatto somme e sottrazioni e aver visto – o creduto di vedere – un totale in rosso.
E’ una reazione comprensibile dato che, realisticamente, Erasmus non è fatto per gli stomaci delicati. Al programma si accede per concorso. Sull’esito della prova pesano il rendimento scolastico e le attitudini dei candidati: quindi i somari e gli scansafatiche sono esclusi a priori. Chi è ammesso deve addestrarsi a spaccare il centesimo in quattro per tutta la durata della trasferta (da un minimo di tre mesi a un massimo di un anno), salvo che non abbia parenti o amici con conti in banca di tutto rispetto.
Accade perché Erasmus non offre una paga ma una paghetta. Nel 2002 è stata di 140 euro (271 mila vecchie lire) al mese. A tale modestissima somma – data in effetti solo per pagare i viaggi e le piccole spese – si aggiungono contributi da parte dell’università da cui il giovane proviene e facilitazioni varie da parte dell’università che lo ospita (tra le altre, l’esenzione dal pagamento delle tasse di frequenza, la mensa, in qualche caso l’alloggio). Un’associazione, costituita da giovani che in passato hanno partecipato a Erasmus, è pronta, in ogni Paese, ad assistere chi si trova in difficoltà, dandogli ad esempio indirizzi di negozi, ristoranti e ostelli dove è possibile ottenere sconti, aiutandolo eventualmente a trovare un lavoro part time, eccetera eccetera.
Tutto questo permette allo studente di rimpolpare, con qualche altro soldo o benefici vari, la paghetta di Erasmus. Non gli dà però la possibilità di nuotare nell’oro. Coloro che non possono contare su un adeguato soccorso da parenti o amici devono rassegnarsi a stringere la cinghia. E se, per caso, non conoscono o conoscono maluccio la lingua del Paese che li ospita rischiano anche di andare incontro a limitate possibilità di apprendimento. E’ una prospettiva che a molti sembra scoraggiante e che può far maturare la decisione di rimettere il sogno nel cassetto, di rinunciare a diventare un “Erasmus’s boy” (o “girl”).
A meno che non si guardi in profondità nel pacchetto del programma e non si scopra che oltre agli svantaggi esistono i vantaggi e che questi ultimi sono notevoli. E’ quanto ha fatto, fa o si appresta a fare un numero consistente di giovani: 1 milione finora, 3 milioni – secondo la previsione di Viviane Reding – entro il 2010.

A prezzo di sacrifici notevoli, affrontando difficoltà di vario genere, superando le proprie stesse perplessità e anche qualche inevitabile momento di delusione e scoraggiamento, questi giovani, studiando e vivendo per alcuni mesi a Londra, Parigi, Berlino, Amsterdam, Copenaghen, o in altre città europee, fanno esperienze scolastiche che, al ritorno al proprio Paese, sono accreditate nei loro curricula e, in molti casi, influiscono positivamente sui giudizi finali dei docenti. Acquisiscono una conoscenza, dal di dentro, della cultura e della società dell’Unione. Infine hanno accesso a una sorta di corsia preferenziale verso il mondo del lavoro.
In una ricerca sui primi anni di Erasmus pubblicata in Gran Bretagna nel 1996 si affermava che, specie tra gli studenti che avevano preso parte al programma per periodi medio-lunghi (da sei mesi a un anno), il numero di coloro che avevano trovato un’occupazione era nettamente superiore a quello dei ragazzi e delle ragazze che non erano stati coinvolti dall’iniziativa. Questo, secondo la stessa ricerca, grazie alle conoscenze e competenze internazionali acquisite partecipando a Erasmus.
Alcuni dati raccolti nel corso della stessa indagine (basata essenzialmente su interviste fatte a studenti) permettevano di capire meglio perché il programma europeo avesse creato molte occasioni di lavoro. Un terzo degli ex studenti di Erasmus aveva ricevuto offerte di occupazione dall’estero, metà tra costoro erano stati contattati da imprese del Paese che li aveva ospitati durante la trasferta di studio. Il 71 per cento infine era stato assunto da aziende impegnate a diffondere i loro prodotti o servizi in campo internazionale.
Da tali dati – nella sostanza confermati da altri riferiti al periodo più recente di Erasmus – esce il più positivo e il più importante dei verdetti sul programma europeo, presentandolo come una chiave che può aprire con una certa facilità, per chi la sa usare, le porte del mondo del lavoro, chiuse inesorabilmente invece per milioni e milioni di altri giovani.
Secondo Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione, la disoccupazione sta diminuendo, sia pure di pochissimo, nell’Europa comunitaria. Ma non per i giovani. Tra chi ha un’età tra i 15 e i 25 anni, ed è dunque nel momento della vita in cui si entra o si è appena entrati nel mercato del lavoro, i disoccupati residenti nei 12 Paesi dell’euro sono aumentati, nell’ultimo anno, dal 15,6 al 16,1 per cento, mentre nel complesso dei 15 Paesi dell’Unione Europea, nello stesso periodo, i giovani senza lavoro sono saliti dal 14,6 al 15,1 per cento.
Siamo di fronte alla conferma di una brutta, preoccupante tendenza: la crescita della disoccupazione giovanile. Ma lo scopriamo mentre ci troviamo davanti ad altri dati, secondo i quali questa tendenza risparmia i giovani di Erasmus o, come minimo, rispetto ai loro coetanei, li coinvolge in misura minore.
Dovrebbe bastare questo per far aumentare i consensi al programma europeo, per rendere credibile la veloce e spettacolare crescita delle partecipazioni che Viviane Reding ha previsto quando ha detto che, entro il 2010, gli “Erasmus’s boys and girls” arriveranno a tre milioni.
Certo, il risultato sarebbe facilitato e potrebbe addirittura superare gli odierni preventivi se qualche difetto di cui oggi soffre il programma venisse eliminato o almeno ridotto.
Non si tratta di dare libero ed entusiastico accesso ai somari e agli svogliati che, comunque, con o senza partecipazione a Erasmus, dovranno fare salti mortali doppi o tripli per trovare un lavoro dopo la conclusione degli studi.
Si tratta di rendere meno accidentata la strada a beneficio di chi ha volontà e attitudini. Ad esempio, come suggerisce il commissario Reding, sarebbe opportuno e giusto che i governi nazionali e le grandi imprese private provvedessero a far crescere, con propri contributi, i modestissimi e inadeguati fondi europei destinati alle spese di trasferta dei giovani partecipanti. E sarebbe utile, come ancora la signora Reding propone, un numero di gemellaggi tra università europee superiore all’attuale.
Essenziale, anzi decisiva, sia a livello europeo sia nei singoli Stati, appare infine un insieme di iniziative che permetta di ampliare e migliorare, almeno tra i giovani, la conoscenza di più lingue: come è stato chiesto, reclamato in centinaia e migliaia di convegni (ad esempio, quelli svoltisi nel 2001, “Anno europeo delle lingue”) senza tuttavia, finora, ottenere su questa materia risultati apprezzabili.
E’ un insieme di imprese non facili. Ma erano e non sono imprese facili neppure l’istituzione dell’euro, la creazione di un Mercato Unico, l’allargamento progressivo dell’Unione dai 6 Paesi del ‘58 ai 15 di oggi, ai 25 di domani e ai 28 di dopodomani. Tuttavia, questi e altri traguardi sono stati o saranno raggiunti. Accadrà lo stesso per la crescita di Erasmus, uno dei capolavori dell’ “Europa utile”? Uniamo realismo e ottimismo: e diciamo che ci sono molti elementi per rispondere sì.

   
   
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