Il mercato libero
e globale può offrire un grande contributo
alla creazione
di un meccanismo redistributivo,
una volta risolti
i problemi
della concorrenza, del cambio,
del Welfare.
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Il problema distributivo è uno dei temi più controversi
e meno assestati degli studi di economia. Esso può avere
diverse letture, da quella della distribuzione come smercio dei
prodotti a quella, più conflittuale, della ripartizione dei
benefici della produzione. Queste letture hanno ricevuto un nuovo
e differente impulso nelle nuove condizioni globali politiche (crollo
del comunismo) ed economiche (Ict, new economy). Cogliamo i principali
aspetti di questa novità.
Produzione e distribuzione dei prodotti (beni e servizi) sono due
aspetti inscindibili dellattività produttiva che rispondono
a due logiche economiche diverse, quella dellofferta e quella
della domanda. Volendo forzare i concetti in una versione semplice
(nella pratica, infatti, si presentano in maniera assai più
complessa) la logica della produzione è servire gli interessi
dellimprenditore-capitalista, mentre quella della distribuzione
è servire gli interessi del consumatore intermedio o finale.
E del tutto ovvio che non si fanno bene gli interessi dei
primi se non si soddisfano quelli dei secondi, e, in ultima analisi,
le due istanze devono essere in equilibrio. Il tema è ben
noto in teoria, dove si parla di equilibrio tra domanda e offerta,
ma è stato anche esaminato prendendo in considerazione gli
effetti collaterali di un loro disequilibrio, una condizione più
facile da trovare nella pratica quotidiana.
Sempre forzando alla semplificazione concetti complessi, si può
sostenere che, nella new economy, produrre è facile, smerciare
è difficile. La disponibilità di informazioni e di
tecnici capaci di organizzare una produzione tende a creare condizioni
di potenziale eccesso di offerta in ogni settore, mentre organizzare
un mercato di sbocco è molto più difficile e il risultato
sempre aleatorio.
Uno dei tratti caratteristici della new economy è il processo
di globalizzazione, ossia lallargamento del campo di scelta
produttiva e di smercio dai mercati nazionali o da quelli di mera
esportazione a un mercato globale, ossia un unico mercato di investimento,
produzione e smercio. Non siamo ancora a questo stadio dellevoluzione
delleconomia mondiale, ma il sistema preme in questo senso
e lingresso della Cina nella Wto (lOrganizzazione mondiale
del commercio), avvenuto nel novembre 2001, è stato un salto
di qualità e di quantità nella stessa direzione.
Si è detto che la globalizzazione tocca sia lofferta
che la domanda, ma la realtà è che la seconda è
più coinvolta della prima perché lampliamento
degli investimenti produttivi nelle aree in via di sviluppo (non
solo arretrate, si pensi ai casi dellIrlanda e della Spagna
nellUe) amplia i redditi dei Paesi dove si attuano, per cui
la domanda riceve, in ultima istanza, un duplice impulso: dallampliamento
del potere di acquisto interno laddove si realizzano investimenti
esteri e dallampliamento della domanda (veramente) globale
che si determina nel complesso delleconomia mondiale.
Restando nel campo della distribuzione intesa come smercio di prodotti,
le nuove condizioni del mercato internazionale pongono due principali
problemi: le relazioni tra ampiezza della competizione globale e
stabilità monetaria; le forme che assume lattività
internazionale nel mercato globale.
E noto che i produttori possono trovarsi di fronte al mercato
in posizione di price maker o price taker,
possono cioè essere in regime di concorrenza, nel quale il
prezzo lo fa il mercato (ossia la domanda), o in regime di monopolio-oligopolio,
nel quale il prezzo lo fa in tutto o in parte il produttore (ossia
lofferta). Nella prima fattispecie il caso dei tessili di
largo consumo e nella seconda quello dei Paesi produttori di petrolio
riuniti nellOpec possono considerarsi i riferimenti da
manuale. Il quesito è se la globalizzazione è
in condizione di ridurre larea dei price makers
e, quindi, dellinflazione in modo strutturale.
Una caratteristica della new economy è la continua innovazione
tecnologica che consente a chi la realizza di fissare il prezzo,
almeno finché altri concorrenti non mettono a punto prodotti
simili. Chi innova nei prodotti è quindi price maker.
Questo segmento della produzione ha però un peso modesto
sul totale della produzione globale, dove domina laspetto
competitivo, ossia i produttori sono price takers.

Diversa è la situazione della distribuzione. Qui si sono
affermate tecniche innovative, soprattutto nella grande distribuzione,
ma esse non hanno modificato in modo sostanziale il connotato competitivo
del settore, che beneficia di forti rendite di posizione. Una conferma
empirica di queste riflessioni teoriche è data dallandamento
comparato dei prezzi dei prodotti industriali rispetto a quello
dei beni di consumo. In Italia, lindice generale dei prezzi
alla produzione fa registrare un rallentamento della crescita dallottobre
2001, mentre continua a rimanere in crescita per i prezzi al consumo.
Lo stesso andamento si riscontra nellarea euro.
Gli effetti di queste diversità nei gradi di controllo dei
prezzi trovano un immediato riflesso nella produttività;
laddove il produttore può influenzare i prezzi, preferisce
agire su questi piuttosto che ricercare un miglioramento nelle combinazioni
produttive, sovente sorretto dai lavoratori; se, invece, non può
farlo, si impegna per ottenere guadagni in termini di produttività,
sovente con tensioni con il mondo del lavoro. Infatti, nei settori
esposti alla concorrenza la produttività è permanentemente
più elevata rispetto ai non esposti, come pure accade per
i profitti. In Italia, ad esempio, il rapporto tra settori esposti
e non esposti alla concorrenza è di 1 a 5, con un riflesso
netto proporzionale sui profitti di impresa.
Queste sono caratteristiche di sistema accertabili in via permanente.
Una delle attese conseguenti alla creazione di un mercato unico
con moneta unica nellUnione europea era che le diversità
di prezzo sarebbero dovute scomparire; si riscontra invece una ripresa
della divergenza tra tassi dellinflazione intra-area, dopo
una convergenza registrata durante le fasi preparatorie dellavvio
delleuro.
E inutile aggiungere che la diversa dinamica inflazionistica
tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo e la divergenza dei
tassi di inflazione pone seri problemi per la gestione della politica
monetaria, in particolare di quella europea, data lassenza
di ununione politica democratica.
Questo induce a sostenere che linflazione si debella accrescendo
il grado di concorrenza nei diversi mercati, non solo con una gestione
monetaria stabile e credibile e inducendo le imprese ad aggiustamenti
nella produttività e non nei prezzi. Se esistono differenziali
di concorrenza come quelli tra prezzi alla produzione e prezzi al
consumo, le strette monetarie creano gravi problemi di stabilità
finanziaria e bancaria.
La concorrenza resta il fulcro dello sviluppo non inflazionistico,
ossia di quella condizione che legittima il ricorso al mercato come
luogo di gestione ottimale (economica) delle risorse scarse.
Chi opera nel settore della distribuzione non può puntare
sulle posizioni naturali di rendita come strategia di
impresa, perché credo (e spero) che il problema della concorrenza,
forse lunico in cui la Commissione di Bruxelles ha poteri
incisivi, si affermerà sempre più tra gli obiettivi
politici dellUnione e anche le imprese (o le strategie) commerciali
debbano scontare oggi una forte concorrenza o prepararsi a fronteggiarla.
Nella precedente fase di sviluppo, quella ad elevate dosi di protezionismo,
lo strumento principale di ampliamento dei mercati nazionali era
rappresentato dalle esportazioni. Alcuni modelli di sviluppo, come
quelli italiano, giapponese e tedesco, erano connotati dalla dinamica
delle vendite allestero (in letteratura vengono ricordati
come export-led model). Lorganizzazione dei mercati di sbocco
era il principale problema da risolvere.
Nellattuale fase, quella appunto della globalizzazione, le
imprese di qualsiasi dimensione hanno la scelta tra esportare o
produrre in loco e la decisione diviene sempre più spesso
la seconda. La libertà di insediamento completa la libertà
dei traffici e rappresenta unoccasione importante di crescita
economica e di integrazione tra economie. Infatti, nel precedente
sistema, le retaliations contro le esportazioni erano
sempre possibili e rappresentavano la debolezza del modello di sviluppo
export-led, mentre nel sistema attuale le produzioni in loco, pur
presentando altri problemi (svalutazioni della moneta nazionale,
difficoltà nel rimpatrio dei profitti, ecc.), offrono minori
occasioni di discontinuità perché si saldano con linteresse
dei lavoratori nazionali a stabilizzare i propri posti di lavoro.
Questo mutamento di regime economico dalle esportazioni alla produzione
in loco comporta due conseguenze di grande importanza: la prima,
che le produzioni locali possono a loro volta divenire esportazioni
nel Paese dorigine dellinvestimento o in Paesi terzi,
ossia si esportano esportazioni; la seconda, che la stabilità
dei cambi diviene ancora più importante di quanto non lo
fosse nello sviluppo propiziato dal regime di cambi fissi deciso
a Bretton Woods.
La prima conseguenza potrebbe essere considerata un salutare
stimolo alla gestione economica delle risorse del pianeta (come
in effetti è), se non esistessero differenze profonde nel
grado di organizzazione sociale dei Paesi del mondo. Se nei Paesi
dove si insediano le nuove imprese non esiste un sistema sanitario
o pensionistico obbligatorio, né le consuete provvidenze
sociali (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione, istruzione
obbligatoria, asili nido, ecc.) che comè noto
incidono intorno al 40 per cento del costo del lavoro si
determinano condizioni di un unfair competition o di
social dumping nella competizione internazionale.
Ancora più grave è lhandicap competitivo se
mancano le infrastrutture. Nella sua meritevole azione di stimolo
al libero commercio internazionale, la Wto ha già posto vincoli
al lavoro minorile, ha cioè accolto alcune istanze sociali.
Il quesito ovvio è che non si vede motivo per cui i minori
debbano essere protetti e non i maggiori; i vecchi innanzitutto,
ma anche i malati o chi non trova lavoro.
Questo non è certo un problema di facile soluzione, ma la
fissazione di standard sociali minimi per chi intende commerciare
internazionalmente mi sembra un modo per raggiungere due obiettivi:
innalzare il grado di civiltà del pianeta attraverso la via
economica, e impedire che questa abbassi il grado di civiltà
di chi lo ha già elevato.

La seconda conseguenza, quella della stabilità dei cambi,
richiede un trattamento del problema da parte dei governi e delle
Banche centrali migliore del recente passato. Come lUe ha
ben capito, non può esservi mercato unico senza moneta unica.
La possibilità di variazioni nei rapporti di cambio (che
non sono mai minime e, quindi, disturbano gli scambi e gli investimenti
esteri) è fonte di maggior rischio di investimento e di vendita.
Le tecniche di copertura di questi rischi sono notevolmente migliorate
ma, con esse, si sono anche potenziate le possibilità di
speculare senza vincoli derivanti dai fondamentali delleconomia.
Si afferma che ciò accade nel breve periodo, mentre non dovrebbe
nel più lungo (dove, con ironia, Keynes disse che saremo
tutti morti...): la realtà è che i rapporti di cambio
mutano i fondamentali e, quindi, non si recupera mai la posizione
precedente.
Gli effetti delle variazioni di cambio sono sempre di tipo protezionistico.
Non a caso gli Stati Uniti hanno denunciato unilateralmente laccordo
di Bretton Woods (nellagosto 1971) per proteggersi dal resto
del mondo (anche se essi hanno dichiarato che lo facevano contro
i cattivi comportamenti degli altri).
Se veramente si vuole creare un mercato globale, con tutti i vantaggi
che esso offre ai Paesi del mondo che intendono seguirne le regole
(gli altri andranno incontro a un progressivo degrado), occorre
avere una moneta unica o, nellimpossibilità (altamente
probabile) di averla, una maggiore stabilità dei cambi rispetto
a quella registrata nellultimo quarto di secolo.
Laltro aspetto distributivo, quello della divisione internazionale
del lavoro (o della distribuzione del reddito), è argomento
difficile da trattare sul piano scientifico, poiché coinvolge
ogni aspetto della convivenza umana e si sottrae a una trattazione
unitaria.
Levoluzione globalista della politica internazionale ha affrontato
molti problemi, dallequilibrio militare mondiale alla nuova
architettura del sistema finanziario mondiale, ma non ha preso in
pari considerazione il problema dellequità distributiva.
Nel XX secolo si è fatta strada lidea che il sistema
di libertà non è completo se non si è liberi
dal bisogno, ignorando il problema, che legittima lesistenza
della scienza economica, della scarsità dei beni e della
necessità di un loro utilizzo razionale.
Uno dei canoni del liberalismo, a cui dovrebbe ispirarsi leconomia
di mercato, è che lo Stato operi per garantire lunicità
dei punti di partenza, lasciando alla responsabilità degli
individui la scelta di quelli di arrivo, ossia del benessere materiale
e culturale conseguito con le proprie forze e il proprio impegno.
Una mitigazione di questo principio è stata introdotta con
il Welfare, che riconosceva lesistenza di diritti minimi per
tutti i cittadini, anche se i punti di partenza fossero stati unici
(o, se si preferisce una diversa interpretazione, a compensazione
del fatto che non lo erano).
Sotto la spinta di Parlamenti eletti a suffragio universale e partiti
disposti ad assecondare anche le spinte allequità espresse
in eccesso alle risorse, i minimi si sono innalzati troppo fino
a entrare in conflitto con la scarsità delle risorse stesse
e, oggi, ci troviamo di fronte a un problema di difficile rientro
nella normalità.
Non possiamo certo affermare che il mondo goda in questo momento,
né mai abbia goduto in passato, della unicità dei
punti di partenza tra Paesi o tra concorrenti sul mercato globale;
né, ancor peggio, che stia operando per perseguirla. Lattività
della Banca mondiale, della Fao e di altre istituzioni con compiti
analoghi è certamente meritevole, ma è una goccia
in un mare di bisogni. La cancellazione dei debiti o gli interventi
sanitari disposti o in via di decisione equivalgono, con qualche
eccezione, (forse è tale la lotta allHIV, come lo fu
quella alla malaria in Italia da parte della Fondazione Rockefeller),
a tentare di curare il cancro con unaspirina.
La diffusione della conoscenza, i vantaggi alimentari e sanitari
ottenibili con le biotecnologie, la globalizzazione, sono viatici
per la crescita di tutte le popolazioni del pianeta migliori delle
politiche keynesiane e degli aiuti pubblici allo sviluppo usati
nella precedente fase delleconomia mondiale. Tuttavia, laccettabilità
del mercato globale richiede non solo che la politica si dia carico
dei due problemi trattati, concorrenza leale e stabilità
monetaria, ma anche di unequa distribuzione delle risorse.
Fin dai summit di Genova e di Kananakis i Grandi del mondo hanno
chiuso con le politiche del passato, accettando la Russia nel loro
ambito, si sono aperti ai problemi della povertà e delle
malattie nel mondo e hanno deciso di consultarsi con i Paesi non
appartenenti al club di quelli altamente sviluppati.
Ma tutto ciò non basta. Iscrivere allordine del giorno
il problema della povertà non significa affrontare il problema
della divisione del lavoro o della distribuzione internazionale
del reddito e della ricchezza. Occorre mettere a fuoco il problema
già affrontato da tutti i Paesi democratici quello
della no taxation without representation e darne una
soluzione. Questo principio non riguarda solo i più noti
problemi della tassazione e dellinflazione (la tassa
occulta), ma anche quelli dellistruzione, della tutela
ambientale, della criminalità e via di seguito.

Il mercato libero e globale può offrire un grande contributo
alla creazione di un meccanismo redistributivo, una volta risolti
i problemi della concorrenza, del cambio, del Welfare. Esso tuttavia
non è delegato a ricercare il punto di equilibrio tra istanze
sociali ed economiche, ma solo a soddisfare al meglio le seconde
per fornire le basi materiali alla soluzione dei problemi sociali
e dare una base etica solida allaccettabilità del sistema
capitalistico. Questo onere ricade sulla politica che, in un habitat
globale, non può se non esprimersi attraverso una forte cooperazione
fra Stati.
Tra gli economisti non vi è concordanza di idee sulla superiorità
del metodo competitivo e prevalgono i fautori del primo, non a caso
domiciliati prevalentemente nel Paese leader della competizione
globale, gli Stati Uniti. E chiaro che, per questi, levidenza
empirica è a favore della competizione, almeno nelle forme
in cui oggi si esprime e che abbiamo prima ricordato. Tuttavia aumenta
la coscienza che i problemi mondiali non siano più risolvibili
a livello nazionale e che, quindi, occorre cooperare. La situazione
è tale che i Paesi si dibattono in una condizione simile
a quella analizzata da John Nash nel Teorema del prigioniero secondo
cui, seguendo i princìpi delle scelte basate sulla teoria
dei giochi, conviene cooperare invece di procedere ciascuno per
la propria strada.
In questo compito gli studiosi o, se si preferisce, gli intellettuali
svolgono un ruolo molto importante che non è quello di reggere
lo strascico del re, ma di portare la lanterna avanti a lui per
illuminare la strada. Perciò non credo che la soluzione verrà
dalla forza dei poteri costituiti, come non di rado si crede, ma
dalla forza della ragione.
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