Marzo 2003

CRESCITA E DISTRIBUZIONE GLOBALE

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Il ruolo del mercato
e della politica
Paolo Savona
 
 

 

 

 

Il mercato libero
e globale può offrire un grande contributo
alla creazione
di un meccanismo redistributivo,
una volta risolti
i problemi
della concorrenza, del cambio,
del Welfare.

 

Il problema distributivo è uno dei temi più controversi e meno assestati degli studi di economia. Esso può avere diverse letture, da quella della distribuzione come smercio dei prodotti a quella, più conflittuale, della ripartizione dei benefici della produzione. Queste letture hanno ricevuto un nuovo e differente impulso nelle nuove condizioni globali politiche (crollo del comunismo) ed economiche (Ict, new economy). Cogliamo i principali aspetti di questa novità.
Produzione e distribuzione dei prodotti (beni e servizi) sono due aspetti inscindibili dell’attività produttiva che rispondono a due logiche economiche diverse, quella dell’offerta e quella della domanda. Volendo forzare i concetti in una versione semplice (nella pratica, infatti, si presentano in maniera assai più complessa) la logica della produzione è servire gli interessi dell’imprenditore-capitalista, mentre quella della distribuzione è servire gli interessi del consumatore intermedio o finale.

E’ del tutto ovvio che non si fanno bene gli interessi dei primi se non si soddisfano quelli dei secondi, e, in ultima analisi, le due istanze devono essere in equilibrio. Il tema è ben noto in teoria, dove si parla di equilibrio tra domanda e offerta, ma è stato anche esaminato prendendo in considerazione gli effetti collaterali di un loro disequilibrio, una condizione più facile da trovare nella pratica quotidiana.
Sempre forzando alla semplificazione concetti complessi, si può sostenere che, nella new economy, produrre è facile, smerciare è difficile. La disponibilità di informazioni e di tecnici capaci di organizzare una produzione tende a creare condizioni di potenziale eccesso di offerta in ogni settore, mentre organizzare un mercato di sbocco è molto più difficile e il risultato sempre aleatorio.

Uno dei tratti caratteristici della new economy è il processo di globalizzazione, ossia l’allargamento del campo di scelta produttiva e di smercio dai mercati nazionali o da quelli di mera esportazione a un mercato globale, ossia un unico mercato di investimento, produzione e smercio. Non siamo ancora a questo stadio dell’evoluzione dell’economia mondiale, ma il sistema preme in questo senso e l’ingresso della Cina nella Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio), avvenuto nel novembre 2001, è stato un salto di qualità e di quantità nella stessa direzione.
Si è detto che la globalizzazione tocca sia l’offerta che la domanda, ma la realtà è che la seconda è più coinvolta della prima perché l’ampliamento degli investimenti produttivi nelle aree in via di sviluppo (non solo arretrate, si pensi ai casi dell’Irlanda e della Spagna nell’Ue) amplia i redditi dei Paesi dove si attuano, per cui la domanda riceve, in ultima istanza, un duplice impulso: dall’ampliamento del potere di acquisto interno laddove si realizzano investimenti esteri e dall’ampliamento della domanda (veramente) globale che si determina nel complesso dell’economia mondiale.
Restando nel campo della distribuzione intesa come smercio di prodotti, le nuove condizioni del mercato internazionale pongono due principali problemi: le relazioni tra ampiezza della competizione globale e stabilità monetaria; le forme che assume l’attività internazionale nel mercato globale.

E’ noto che i produttori possono trovarsi di fronte al mercato in posizione di “price maker” o “price taker”, possono cioè essere in regime di concorrenza, nel quale il prezzo lo fa il mercato (ossia la domanda), o in regime di monopolio-oligopolio, nel quale il prezzo lo fa in tutto o in parte il produttore (ossia l’offerta). Nella prima fattispecie il caso dei tessili di largo consumo e nella seconda quello dei Paesi produttori di petrolio riuniti nell’Opec possono considerarsi i riferimenti “da manuale”. Il quesito è se la globalizzazione è in condizione di ridurre l’area dei “price makers” e, quindi, dell’inflazione in modo strutturale.
Una caratteristica della new economy è la continua innovazione tecnologica che consente a chi la realizza di fissare il prezzo, almeno finché altri concorrenti non mettono a punto prodotti simili. Chi innova nei prodotti è quindi “price maker”. Questo segmento della produzione ha però un peso modesto sul totale della produzione globale, dove domina l’aspetto competitivo, ossia i produttori sono “price takers”.

Diversa è la situazione della distribuzione. Qui si sono affermate tecniche innovative, soprattutto nella grande distribuzione, ma esse non hanno modificato in modo sostanziale il connotato competitivo del settore, che beneficia di forti rendite di posizione. Una conferma empirica di queste riflessioni teoriche è data dall’andamento comparato dei prezzi dei prodotti industriali rispetto a quello dei beni di consumo. In Italia, l’indice generale dei prezzi alla produzione fa registrare un rallentamento della crescita dall’ottobre 2001, mentre continua a rimanere in crescita per i prezzi al consumo. Lo stesso andamento si riscontra nell’area euro.
Gli effetti di queste diversità nei gradi di controllo dei prezzi trovano un immediato riflesso nella produttività; laddove il produttore può influenzare i prezzi, preferisce agire su questi piuttosto che ricercare un miglioramento nelle combinazioni produttive, sovente sorretto dai lavoratori; se, invece, non può farlo, si impegna per ottenere guadagni in termini di produttività, sovente con tensioni con il mondo del lavoro. Infatti, nei settori esposti alla concorrenza la produttività è permanentemente più elevata rispetto ai non esposti, come pure accade per i profitti. In Italia, ad esempio, il rapporto tra settori esposti e non esposti alla concorrenza è di 1 a 5, con un riflesso netto proporzionale sui profitti di impresa.
Queste sono caratteristiche di sistema accertabili in via permanente. Una delle attese conseguenti alla creazione di un mercato unico con moneta unica nell’Unione europea era che le diversità di prezzo sarebbero dovute scomparire; si riscontra invece una ripresa della divergenza tra tassi dell’inflazione intra-area, dopo una convergenza registrata durante le fasi preparatorie dell’avvio dell’euro.
E’ inutile aggiungere che la diversa dinamica inflazionistica tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo e la divergenza dei tassi di inflazione pone seri problemi per la gestione della politica monetaria, in particolare di quella europea, data l’assenza di un’unione politica democratica.
Questo induce a sostenere che l’inflazione si debella accrescendo il grado di concorrenza nei diversi mercati, non solo con una gestione monetaria stabile e credibile e inducendo le imprese ad aggiustamenti nella produttività e non nei prezzi. Se esistono differenziali di concorrenza come quelli tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo, le strette monetarie creano gravi problemi di stabilità finanziaria e bancaria.
La concorrenza resta il fulcro dello sviluppo non inflazionistico, ossia di quella condizione che legittima il ricorso al mercato come luogo di gestione ottimale (economica) delle risorse scarse.
Chi opera nel settore della distribuzione non può puntare sulle posizioni “naturali” di rendita come strategia di impresa, perché credo (e spero) che il problema della concorrenza, forse l’unico in cui la Commissione di Bruxelles ha poteri incisivi, si affermerà sempre più tra gli obiettivi politici dell’Unione e anche le imprese (o le strategie) commerciali debbano scontare oggi una forte concorrenza o prepararsi a fronteggiarla.

Nella precedente fase di sviluppo, quella ad elevate dosi di protezionismo, lo strumento principale di ampliamento dei mercati nazionali era rappresentato dalle esportazioni. Alcuni modelli di sviluppo, come quelli italiano, giapponese e tedesco, erano connotati dalla dinamica delle vendite all’estero (in letteratura vengono ricordati come export-led model). L’organizzazione dei mercati di sbocco era il principale problema da risolvere.
Nell’attuale fase, quella appunto della globalizzazione, le imprese di qualsiasi dimensione hanno la scelta tra esportare o produrre in loco e la decisione diviene sempre più spesso la seconda. La libertà di insediamento completa la libertà dei traffici e rappresenta un’occasione importante di crescita economica e di integrazione tra economie. Infatti, nel precedente sistema, le “retaliations” contro le esportazioni erano sempre possibili e rappresentavano la debolezza del modello di sviluppo export-led, mentre nel sistema attuale le produzioni in loco, pur presentando altri problemi (svalutazioni della moneta nazionale, difficoltà nel rimpatrio dei profitti, ecc.), offrono minori occasioni di discontinuità perché si saldano con l’interesse dei lavoratori nazionali a stabilizzare i propri posti di lavoro.
Questo mutamento di regime economico dalle esportazioni alla produzione in loco comporta due conseguenze di grande importanza: la prima, che le produzioni locali possono a loro volta divenire esportazioni nel Paese d’origine dell’investimento o in Paesi terzi, ossia si esportano esportazioni; la seconda, che la stabilità dei cambi diviene ancora più importante di quanto non lo fosse nello sviluppo propiziato dal regime di cambi fissi deciso a Bretton Woods.
La prima conseguenza potrebbe essere considerata un “salutare” stimolo alla gestione economica delle risorse del pianeta (come in effetti è), se non esistessero differenze profonde nel grado di organizzazione sociale dei Paesi del mondo. Se nei Paesi dove si insediano le nuove imprese non esiste un sistema sanitario o pensionistico obbligatorio, né le consuete provvidenze sociali (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione, istruzione obbligatoria, asili nido, ecc.) – che com’è noto incidono intorno al 40 per cento del costo del lavoro – si determinano condizioni di un “unfair competition” o di “social dumping” nella competizione internazionale.
Ancora più grave è l’handicap competitivo se mancano le infrastrutture. Nella sua meritevole azione di stimolo al libero commercio internazionale, la Wto ha già posto vincoli al lavoro minorile, ha cioè accolto alcune istanze sociali. Il quesito ovvio è che non si vede motivo per cui i minori debbano essere protetti e non i “maggiori”; i vecchi innanzitutto, ma anche i malati o chi non trova lavoro.
Questo non è certo un problema di facile soluzione, ma la fissazione di standard sociali minimi per chi intende commerciare internazionalmente mi sembra un modo per raggiungere due obiettivi: innalzare il grado di civiltà del pianeta attraverso la via economica, e impedire che questa abbassi il grado di civiltà di chi lo ha già elevato.

La seconda conseguenza, quella della stabilità dei cambi, richiede un trattamento del problema da parte dei governi e delle Banche centrali migliore del recente passato. Come l’Ue ha ben capito, non può esservi mercato unico senza moneta unica. La possibilità di variazioni nei rapporti di cambio (che non sono mai minime e, quindi, disturbano gli scambi e gli investimenti esteri) è fonte di maggior rischio di investimento e di vendita. Le tecniche di copertura di questi rischi sono notevolmente migliorate ma, con esse, si sono anche potenziate le possibilità di speculare senza vincoli derivanti dai “fondamentali” dell’economia. Si afferma che ciò accade nel breve periodo, mentre non dovrebbe nel più lungo (dove, con ironia, Keynes disse che saremo tutti morti...): la realtà è che i rapporti di cambio mutano i fondamentali e, quindi, non si recupera mai la posizione precedente.
Gli effetti delle variazioni di cambio sono sempre di tipo protezionistico. Non a caso gli Stati Uniti hanno denunciato unilateralmente l’accordo di Bretton Woods (nell’agosto 1971) per proteggersi dal resto del mondo (anche se essi hanno dichiarato che lo facevano contro i “cattivi comportamenti” degli altri).
Se veramente si vuole creare un mercato globale, con tutti i vantaggi che esso offre ai Paesi del mondo che intendono seguirne le regole (gli altri andranno incontro a un progressivo degrado), occorre avere una moneta unica o, nell’impossibilità (altamente probabile) di averla, una maggiore stabilità dei cambi rispetto a quella registrata nell’ultimo quarto di secolo.

L’altro aspetto distributivo, quello della divisione internazionale del lavoro (o della distribuzione del reddito), è argomento difficile da trattare sul piano scientifico, poiché coinvolge ogni aspetto della convivenza umana e si sottrae a una trattazione unitaria.
L’evoluzione globalista della politica internazionale ha affrontato molti problemi, dall’equilibrio militare mondiale alla nuova architettura del sistema finanziario mondiale, ma non ha preso in pari considerazione il problema dell’equità distributiva.
Nel XX secolo si è fatta strada l’idea che il sistema di libertà non è completo se non si è liberi dal bisogno, ignorando il problema, che legittima l’esistenza della scienza economica, della scarsità dei beni e della necessità di un loro utilizzo “razionale”.
Uno dei canoni del liberalismo, a cui dovrebbe ispirarsi l’economia di mercato, è che lo Stato operi per garantire l’unicità dei punti di partenza, lasciando alla responsabilità degli individui la scelta di quelli di arrivo, ossia del benessere materiale e culturale conseguito con le proprie forze e il proprio impegno.
Una mitigazione di questo principio è stata introdotta con il Welfare, che riconosceva l’esistenza di diritti minimi per tutti i cittadini, anche se i punti di partenza fossero stati unici (o, se si preferisce una diversa interpretazione, a compensazione del fatto che non lo erano).
Sotto la spinta di Parlamenti eletti a suffragio universale e partiti disposti ad assecondare anche le spinte all’equità espresse in eccesso alle risorse, i minimi si sono innalzati troppo fino a entrare in conflitto con la scarsità delle risorse stesse e, oggi, ci troviamo di fronte a un problema di difficile rientro nella normalità.
Non possiamo certo affermare che il mondo goda in questo momento, né mai abbia goduto in passato, della unicità dei punti di partenza tra Paesi o tra concorrenti sul mercato globale; né, ancor peggio, che stia operando per perseguirla. L’attività della Banca mondiale, della Fao e di altre istituzioni con compiti analoghi è certamente meritevole, ma è una goccia in un mare di bisogni. La cancellazione dei debiti o gli interventi sanitari disposti o in via di decisione equivalgono, con qualche eccezione, (forse è tale la lotta all’HIV, come lo fu quella alla malaria in Italia da parte della Fondazione Rockefeller), a tentare di curare il cancro con un’aspirina.
La diffusione della conoscenza, i vantaggi alimentari e sanitari ottenibili con le biotecnologie, la globalizzazione, sono viatici per la crescita di tutte le popolazioni del pianeta migliori delle politiche keynesiane e degli aiuti pubblici allo sviluppo usati nella precedente fase dell’economia mondiale. Tuttavia, l’accettabilità del mercato globale richiede non solo che la politica si dia carico dei due problemi trattati, concorrenza leale e stabilità monetaria, ma anche di un’equa distribuzione delle risorse.
Fin dai summit di Genova e di Kananakis i Grandi del mondo hanno chiuso con le politiche del passato, accettando la Russia nel loro ambito, si sono aperti ai problemi della povertà e delle malattie nel mondo e hanno deciso di consultarsi con i Paesi non appartenenti al club di quelli altamente sviluppati.
Ma tutto ciò non basta. Iscrivere all’ordine del giorno il problema della povertà non significa affrontare il problema della divisione del lavoro o della distribuzione internazionale del reddito e della ricchezza. Occorre mettere a fuoco il problema già affrontato da tutti i Paesi democratici – quello della “no taxation without representation – e darne una soluzione. Questo principio non riguarda solo i più noti problemi della tassazione e dell’inflazione (la “tassa occulta”), ma anche quelli dell’istruzione, della tutela ambientale, della criminalità e via di seguito.

Il mercato libero e globale può offrire un grande contributo alla creazione di un meccanismo redistributivo, una volta risolti i problemi della concorrenza, del cambio, del Welfare. Esso tuttavia non è delegato a ricercare il punto di equilibrio tra istanze sociali ed economiche, ma solo a soddisfare al meglio le seconde per fornire le basi materiali alla soluzione dei problemi sociali e dare una base etica solida all’accettabilità del sistema capitalistico. Questo onere ricade sulla politica che, in un habitat globale, non può se non esprimersi attraverso una forte cooperazione fra Stati.
Tra gli economisti non vi è concordanza di idee sulla superiorità del metodo competitivo e prevalgono i fautori del primo, non a caso domiciliati prevalentemente nel Paese leader della competizione globale, gli Stati Uniti. E’ chiaro che, per questi, l’evidenza empirica è a favore della competizione, almeno nelle forme in cui oggi si esprime e che abbiamo prima ricordato. Tuttavia aumenta la coscienza che i problemi mondiali non siano più risolvibili a livello nazionale e che, quindi, occorre cooperare. La situazione è tale che i Paesi si dibattono in una condizione simile a quella analizzata da John Nash nel Teorema del prigioniero secondo cui, seguendo i princìpi delle scelte basate sulla teoria dei giochi, conviene cooperare invece di procedere ciascuno per la propria strada.
In questo compito gli studiosi o, se si preferisce, gli intellettuali svolgono un ruolo molto importante che non è quello di reggere lo strascico del re, ma di portare la lanterna avanti a lui per illuminare la strada. Perciò non credo che la soluzione verrà dalla forza dei poteri costituiti, come non di rado si crede, ma dalla forza della ragione.

   
   
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