Segue la crisi:
la prima potenza economica
del Trecento
diviene uno degli ultimi Paesi
del Settecento.
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Trenta milioni di ore di sciopero nel 2002. E, di queste, solo
tre milioni relative al rinnovo di contratti di lavoro. Una crescita
di oltre il 400 per cento rispetto allanno precedente. Lideologia
entra, o meglio, rientra di prepotenza nellarengo sindacale.
Eppure, il Paese ha tenuto, il PIL non è colato a picco,
il debito pubblico è leggermente calato, loccupazione
è cresciuta. I problemi non mancano, simboli dellindustria
privata sono entrati in crisi, trascinando lindotto,
il Sud è più che mai a pelle di leopardo, Puglia e
Sicilia orientale avanzano, il resto non arretra, ma stagna, il
lavoro nero continua a diffondersi: il titolo di merito dellItalia
dovrebbe includere la schizofrenia. Ma, allo stato delle cose, chi
siamo, e come siamo?
Ce ne parlano una serie di indagini che tracciano il ritratto del
Paese, scritte da Sabino Cassese, Pasquale Pasquino, Andrea Manzella,
Marcello De Cecco, Massimo Livi Bacci, Tullio De Mauro, Paul Ginsborg;
e ne fa una sintesi statistica Alessandro Natalini. Questo il quadro
che ne emerge. I successi economici italiani sono confermati da
quelli civili e sociali. Nelle classifiche internazionali, lItalia
è il secondo Paese per performance del sistema sanitario
e il primo per minor numero di abitanti per medico; è al
ventesimo posto nella graduatoria fatta in base allindicatore
di sviluppo umano (che combina speranza di vita, tasse di alfabetizzazione
degli adulti, iscrizioni scolastiche e reddito pro-capite); al sedicesimo,
al trentesimo e al ventunesimo per numero di giovani iscritti ai
corsi di istruzione primaria, secondaria e terziaria; al diciottesimo
per spese di ricerca e sviluppo, al diciottesimo, ventiduesimo e
ventiquattresimo per diffusione rispettivamente di telefoni cellulari,
computer e telefoni fissi.

Se dalleconomia e dalla società si passa alle organizzazioni
pubbliche e collettive, il quadro cambia e si registra uno slittamento
su posizioni molto inferiori nelle classifiche. Lindice di
libertà economica, calcolata sulla base di dieci indicatori
quali il sistema di tassazione, le politiche di regolazione, i controlli
su stipendi e prezzi, le norme sugli investimenti stranieri, e via
dicendo, colloca lItalia al ventottesimo posto. Lindice
di competitività, a sua volta, ci colloca al trentesimo e
al trentacinquesimo posto, a seconda dei criteri di calcolo.
Ma lindice di competitività è composto, a sua
volta, da molti indicatori. Se si valuta la misura in cui le politiche
e pratiche pubbliche sono funzionali alla competizione, calcolando
il peso delle imposte sulle persone fisiche e sulle persone giuridiche,
i contributi delle imprese per la protezione sociale, la spesa e
il debito pubblico, la burocrazia e il sistema politico, scendiamo
al quarantaseiesimo o al cinquantasettesimo posto, sempre a seconda
dei criteri di calcolo.

E, oltre che per le cattive performance pubbliche, lItalia
è in basso nelle classifiche per il costo di taluni servizi,
lincompletezza del suo Welfare e laggressività
dei suoi sindacati: basti dire che, sempre nelle classifiche, è
al trentottesimo posto per costo del trasporto aereo per chilometro,
al trentanovesimo per giorni lavorativi perduti per scioperi e al
quarantaseiesimo per tasso di disoccupazione.
Secondo Cassese, un più analitico esame di alcuni indicatori
economici, sociali e civili per lItalia e per i Paesi con
i quali essa normalmente è posta a confronto (Francia, Germania
e Regno Unito), sia perché parte della stessa area del mondo
e della stessa tradizione, sia perché di dimensioni simili
o confrontabili quanto a popolazione, consente di notare alcune
tipiche debolezze del nostro Paese.
La sua popolazione attiva è di 25 milioni, contro i 26 della
Francia, i 41 della Germania e i 29 del Regno Unito. La sua popolazione
urbana è il 67 per cento della popolazione totale, contro
il 75 della Francia, l85 della Germania e l89 del Regno
Unito. Il numero dei libri in biblioteche pubbliche per ogni cento
persone è di 72 in Italia, 153 in Francia, 182 in Germania,
225 nel Regno Unito. Le iscrizioni scolastiche nette alla scuola
secondaria, come percentuale dei giovani nelletà per
iscriversi, è di 86 in Italia, 95 in Francia, 88 in Germania,
91 nel Regno Unito. Le copie dei giornali quotidiani vendute sono,
per ogni mille abitanti, 104 in Italia, 218 in Francia, 311 in Germania,
331 nel Regno Unito. Insomma, anche i successi dellItalia
nel campo economico, sociale e civile contengono debolezze palesi.
Ma queste debolezze sono particolarmente avvertite nel campo pubblico,
dove la partecipazione allUnione europea rende più
visibile e ancor meno accettabile il conflitto (e non confronto)
politico; dove i vincoli di Maastricht rendono più evidente
la manomorta delle grandi centrali sindacali (forti
di un numero di iscritti di circa 11 milioni, ma per la stragrande
maggioranza fatta da pensionati) sul sistema previdenziale, e, in
generale, sul Welfare, che finisce per proteggere troppo i già
protetti, e comunque favorisce gli anziani e penalizza i giovani;
dove la crescente apertura dei mercati, proprio perché ha
portato ad allineare il sistema finanziario, le telecomunicazioni,
la proprietà del sistema industriale, con liberalizzazioni
e privatizzazioni, a un modello europeo uniforme, rende più
inaccettabili mafie, scioperi, sclerosi burocratica.
In ultima analisi, lItalia, proprio lItalia dellultimo
cinquantennio, ha registrato progressi non prevedibili. Prima, in
un quarto di secolo, ha prodotto il miracolo economico;
poi, avendo sperperato il dividendo realizzato, è riuscita
ad avviare un risanamento della finanza pubblica che sembrava impossibile.
Ma questi due successi, luno delleconomia privata, laltro
della finanza pubblica, si sono accompagnati a insuccessi clamorosi
nelle due aree, sopratutto in quella pubblica. Per cui, se è
vero che nessun Paese si sviluppa in modo unitario e uniforme, è
anche vero che noi abbiamo accumulato ancor più contraddizioni;
e che proprio queste fanno risaltare le inerzie, i passi indietro,
le sacche di sottosviluppo e di frequente fanno anche sottovalutare
i successi realizzati. Dice Cassese: le difficoltà di comprendere
un Paese prismatico sta nellindividuare le linee
lungo le quali corrono le fratture, perché queste divengono
sempre più frastagliate e cambiano nel corso degli anni.
Gli squilibri territoriali, ad esempio, sono andati cambiando. Dapprima
non era sottosviluppato soltanto il Sud, ma anche molte aree del
Nord, lungo lAppennino e larco alpino. Poi, queste ultime
parti del territorio hanno partecipato allo sviluppo circostante
e si è fissato il modello dualistico Nord-Sud, che è
stato dominante per i primi tre quarti del XX secolo. Ma, nellultimo
quarto, da un lato, si sono affacciati la terza Italia
e il modello marchigiano; dallaltro, alcune zone
del Sud, come la Puglia e una parte della Sicilia, ma anche lAbruzzo
e il Molise, hanno preso a svilupparsi. Per cui la frattura si è
frastagliata e non è più semplice parlare di dualismo
economico tra Nord-Sud.
Lo squilibrio pubblico-privato è andato cambiando a sua volta.
Dopo lUnità (1861), il settore pubblico era considerato
trainante: assicurava un modello da imitare, costituiva una guida,
garantiva appoggi a quello privato. Dal secondo quarto del XX secolo,
il settore privato ha preso il sopravvento, consolidato, dopo la
metà del secolo, dal miracolo economico. Il settore
pubblico è rimasto al rimorchio, utilizzato come riserva
di posti per i giovani del Sud in cerca di occupazione; ma è
divenuto anche un peso per leconomia, sia per le risorse assorbite,
sia per i tempi e i costi imposti alle imprese. Nellultimo
quarto di secolo, però, nello stesso settore pubblico si
sono andate evidenziando aree più sviluppate, che si sono
distanziate dalle altre: per esempio, il servizio sanitario, le
autorità indipendenti, un certo numero di Comuni e di altri
enti locali.
Da ultimo, il rapporto Stato-società si presentava, dopo
il 1861, squilibrato a favore dello Stato. Questo era la classe
dirigente, il Paese legale, che doveva guidare, trainare
il Paese reale, una società non ancora unita,
non ancora nazione, arretrata, senza una vera e propria opinione
pubblica. Lo squilibrio si è presentato in questi termini
fino al fascismo, quando la melior pars è stata
tolta dal novero dei governanti. E da allora è cominciato
un lento rovesciamento delle parti, fino al punto odierno, nel quale
il Paese è divenuto migliore della classe dirigente che lo
governa.
Le contraddizioni esposte e le loro variazioni, secondo Cassese,
spiegano fenomeni altrimenti incomprensibili, quali quello di uno
Stato debole e comunque invadente, fragile, ma al tempo stesso punto
dappoggio delleconomia; quello dellintreccio Stato-mercato
e delleconomia mista; quello di un capitalismo senza capitali
che non siano pubblici, e persino con pochi capitalisti.
Se dal secolo e mezzo che ci divide dallUnità si allarga
lo sguardo al periodo più lungo dellintera storia della
Penisola, alla contraddittorietà dei successi si aggiunge
unaltra caratteristica: linstabilità dei risultati.
La Penisola, infatti, ha registrato tre successi. Il più
noto è quello sulla Roma imperiale. Poi, dopo una lunga eclissi,
è venuto quello del periodo tra la fine del Duecento e la
fine del Cinquecento, quando lItalia era il Paese più
progredito dEuropa, aveva il primato economico, era al centro
dei commerci, aveva il più alto tasso di popolazione urbana.
Segue la lunga crisi. La prima potenza economica del Trecento diviene
uno degli ultimi Paesi del Settecento. Solo agli inizi del XX secolo
leconomia italiana ritorna al livello al quale era pervenuta
nel tardo Medioevo. Ma sarà necessario attendere il terzo
quarto del secolo XX, appunto, perché il livello dei consumi
divenga paragonabile a quello inglese o francese, e ciò grazie
alla crescita del prodotto pro-capite superiore al 5 per cento annuo.

Non cè una ragione sola di questo andamento ciclico
della Penisola, che avanza e regredisce. Per il solo ritardo accumulato
tra il Cinquecento e il Novecento, sono state elencate molte cause,
dalla mancanza di materie prime alla minore competitività
del Cattolicesimo e alla mancata Riforma religiosa, alla diversità
di stili culturali e istituzionali del Sud rispetto al Nord e al
Regno Unito, alla spaccatura prodotta dalla Chiesa cattolica, che
ha osteggiato la formazione di uno Stato nazionale. Ecco, dunque,
dove stanno le difficoltà di capire lItalia: nelle
sue contraddizioni; nelle variazioni storiche delle sue contraddizioni;
nellinstabilità e nella ciclicità dei suoi successi
e dei suoi insuccessi. Nella sua anomalia rispetto agli altri Paesi
europei. E nelle sue risorse dintelligenza e di creatività,
che le hanno impedito di andare a fondo, malgrado tutto.
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