Marzo 2003

COME SIAMO

Indietro
Un Paese anomalo
M.B. - D.M.B.
 
 

 

 

 

Segue la crisi:
la prima potenza economica
del Trecento
diviene uno degli ultimi Paesi
del Settecento.

 

Trenta milioni di ore di sciopero nel 2002. E, di queste, solo tre milioni relative al rinnovo di contratti di lavoro. Una crescita di oltre il 400 per cento rispetto all’anno precedente. L’ideologia entra, o meglio, rientra di prepotenza nell’arengo sindacale. Eppure, il Paese ha tenuto, il PIL non è colato a picco, il debito pubblico è leggermente calato, l’occupazione è cresciuta. I problemi non mancano, simboli dell’industria “privata” sono entrati in crisi, trascinando l’indotto, il Sud è più che mai a pelle di leopardo, Puglia e Sicilia orientale avanzano, il resto non arretra, ma stagna, il lavoro nero continua a diffondersi: il titolo di merito dell’Italia dovrebbe includere la schizofrenia. Ma, allo stato delle cose, chi siamo, e come siamo?
Ce ne parlano una serie di indagini che tracciano il ritratto del Paese, scritte da Sabino Cassese, Pasquale Pasquino, Andrea Manzella, Marcello De Cecco, Massimo Livi Bacci, Tullio De Mauro, Paul Ginsborg; e ne fa una sintesi statistica Alessandro Natalini. Questo il quadro che ne emerge. I successi economici italiani sono confermati da quelli civili e sociali. Nelle classifiche internazionali, l’Italia è il secondo Paese per performance del sistema sanitario e il primo per minor numero di abitanti per medico; è al ventesimo posto nella graduatoria fatta in base all’indicatore di sviluppo umano (che combina speranza di vita, tasse di alfabetizzazione degli adulti, iscrizioni scolastiche e reddito pro-capite); al sedicesimo, al trentesimo e al ventunesimo per numero di giovani iscritti ai corsi di istruzione primaria, secondaria e terziaria; al diciottesimo per spese di ricerca e sviluppo, al diciottesimo, ventiduesimo e ventiquattresimo per diffusione rispettivamente di telefoni cellulari, computer e telefoni fissi.

Se dall’economia e dalla società si passa alle organizzazioni pubbliche e collettive, il quadro cambia e si registra uno slittamento su posizioni molto inferiori nelle classifiche. L’indice di libertà economica, calcolata sulla base di dieci indicatori quali il sistema di tassazione, le politiche di regolazione, i controlli su stipendi e prezzi, le norme sugli investimenti stranieri, e via dicendo, colloca l’Italia al ventottesimo posto. L’indice di competitività, a sua volta, ci colloca al trentesimo e al trentacinquesimo posto, a seconda dei criteri di calcolo.
Ma l’indice di competitività è composto, a sua volta, da molti indicatori. Se si valuta la misura in cui le politiche e pratiche pubbliche sono funzionali alla competizione, calcolando il peso delle imposte sulle persone fisiche e sulle persone giuridiche, i contributi delle imprese per la protezione sociale, la spesa e il debito pubblico, la burocrazia e il sistema politico, scendiamo al quarantaseiesimo o al cinquantasettesimo posto, sempre a seconda dei criteri di calcolo.

E, oltre che per le cattive performance pubbliche, l’Italia è in basso nelle classifiche per il costo di taluni servizi, l’incompletezza del suo Welfare e l’aggressività dei suoi sindacati: basti dire che, sempre nelle classifiche, è al trentottesimo posto per costo del trasporto aereo per chilometro, al trentanovesimo per giorni lavorativi perduti per scioperi e al quarantaseiesimo per tasso di disoccupazione.
Secondo Cassese, un più analitico esame di alcuni indicatori economici, sociali e civili per l’Italia e per i Paesi con i quali essa normalmente è posta a confronto (Francia, Germania e Regno Unito), sia perché parte della stessa area del mondo e della stessa tradizione, sia perché di dimensioni simili o confrontabili quanto a popolazione, consente di notare alcune tipiche debolezze del nostro Paese.
La sua popolazione attiva è di 25 milioni, contro i 26 della Francia, i 41 della Germania e i 29 del Regno Unito. La sua popolazione urbana è il 67 per cento della popolazione totale, contro il 75 della Francia, l’85 della Germania e l’89 del Regno Unito. Il numero dei libri in biblioteche pubbliche per ogni cento persone è di 72 in Italia, 153 in Francia, 182 in Germania, 225 nel Regno Unito. Le iscrizioni scolastiche nette alla scuola secondaria, come percentuale dei giovani nell’età per iscriversi, è di 86 in Italia, 95 in Francia, 88 in Germania, 91 nel Regno Unito. Le copie dei giornali quotidiani vendute sono, per ogni mille abitanti, 104 in Italia, 218 in Francia, 311 in Germania, 331 nel Regno Unito. Insomma, anche i successi dell’Italia nel campo economico, sociale e civile contengono debolezze palesi.
Ma queste debolezze sono particolarmente avvertite nel campo pubblico, dove la partecipazione all’Unione europea rende più visibile e ancor meno accettabile il conflitto (e non confronto) politico; dove i vincoli di Maastricht rendono più evidente la “manomorta” delle grandi centrali sindacali (forti di un numero di iscritti di circa 11 milioni, ma per la stragrande maggioranza fatta da pensionati) sul sistema previdenziale, e, in generale, sul Welfare, che finisce per proteggere troppo i già protetti, e comunque favorisce gli anziani e penalizza i giovani; dove la crescente apertura dei mercati, proprio perché ha portato ad allineare il sistema finanziario, le telecomunicazioni, la proprietà del sistema industriale, con liberalizzazioni e privatizzazioni, a un modello europeo uniforme, rende più inaccettabili mafie, scioperi, sclerosi burocratica.
In ultima analisi, l’Italia, proprio l’Italia dell’ultimo cinquantennio, ha registrato progressi non prevedibili. Prima, in un quarto di secolo, ha prodotto il “miracolo economico”; poi, avendo sperperato il dividendo realizzato, è riuscita ad avviare un risanamento della finanza pubblica che sembrava impossibile. Ma questi due successi, l’uno dell’economia privata, l’altro della finanza pubblica, si sono accompagnati a insuccessi clamorosi nelle due aree, sopratutto in quella pubblica. Per cui, se è vero che nessun Paese si sviluppa in modo unitario e uniforme, è anche vero che noi abbiamo accumulato ancor più contraddizioni; e che proprio queste fanno risaltare le inerzie, i passi indietro, le sacche di sottosviluppo e di frequente fanno anche sottovalutare i successi realizzati. Dice Cassese: le difficoltà di comprendere un Paese “prismatico” sta nell’individuare le linee lungo le quali corrono le fratture, perché queste divengono sempre più frastagliate e cambiano nel corso degli anni.
Gli squilibri territoriali, ad esempio, sono andati cambiando. Dapprima non era sottosviluppato soltanto il Sud, ma anche molte aree del Nord, lungo l’Appennino e l’arco alpino. Poi, queste ultime parti del territorio hanno partecipato allo sviluppo circostante e si è fissato il modello dualistico Nord-Sud, che è stato dominante per i primi tre quarti del XX secolo. Ma, nell’ultimo quarto, da un lato, si sono affacciati la “terza Italia” e il “modello marchigiano”; dall’altro, alcune zone del Sud, come la Puglia e una parte della Sicilia, ma anche l’Abruzzo e il Molise, hanno preso a svilupparsi. Per cui la frattura si è frastagliata e non è più semplice parlare di dualismo economico tra Nord-Sud.
Lo squilibrio pubblico-privato è andato cambiando a sua volta. Dopo l’Unità (1861), il settore pubblico era considerato trainante: assicurava un modello da imitare, costituiva una guida, garantiva appoggi a quello privato. Dal secondo quarto del XX secolo, il settore privato ha preso il sopravvento, consolidato, dopo la metà del secolo, dal “miracolo economico”. Il settore pubblico è rimasto al rimorchio, utilizzato come riserva di posti per i giovani del Sud in cerca di occupazione; ma è divenuto anche un peso per l’economia, sia per le risorse assorbite, sia per i tempi e i costi imposti alle imprese. Nell’ultimo quarto di secolo, però, nello stesso settore pubblico si sono andate evidenziando aree più sviluppate, che si sono distanziate dalle altre: per esempio, il servizio sanitario, le autorità indipendenti, un certo numero di Comuni e di altri enti locali.

Da ultimo, il rapporto Stato-società si presentava, dopo il 1861, squilibrato a favore dello Stato. Questo era la classe dirigente, il “Paese legale”, che doveva guidare, trainare il “Paese reale”, una società non ancora unita, non ancora nazione, arretrata, senza una vera e propria opinione pubblica. Lo squilibrio si è presentato in questi termini fino al fascismo, quando la “melior pars” è stata tolta dal novero dei governanti. E da allora è cominciato un lento rovesciamento delle parti, fino al punto odierno, nel quale il Paese è divenuto migliore della classe dirigente che lo governa.
Le contraddizioni esposte e le loro variazioni, secondo Cassese, spiegano fenomeni altrimenti incomprensibili, quali quello di uno Stato debole e comunque invadente, fragile, ma al tempo stesso punto d’appoggio dell’economia; quello dell’intreccio Stato-mercato e dell’economia mista; quello di un capitalismo senza capitali che non siano pubblici, e persino con pochi capitalisti.
Se dal secolo e mezzo che ci divide dall’Unità si allarga lo sguardo al periodo più lungo dell’intera storia della Penisola, alla contraddittorietà dei successi si aggiunge un’altra caratteristica: l’instabilità dei risultati. La Penisola, infatti, ha registrato tre successi. Il più noto è quello sulla Roma imperiale. Poi, dopo una lunga eclissi, è venuto quello del periodo tra la fine del Duecento e la fine del Cinquecento, quando l’Italia era il Paese più progredito d’Europa, aveva il primato economico, era al centro dei commerci, aveva il più alto tasso di popolazione urbana.
Segue la lunga crisi. La prima potenza economica del Trecento diviene uno degli ultimi Paesi del Settecento. Solo agli inizi del XX secolo l’economia italiana ritorna al livello al quale era pervenuta nel tardo Medioevo. Ma sarà necessario attendere il terzo quarto del secolo XX, appunto, perché il livello dei consumi divenga paragonabile a quello inglese o francese, e ciò grazie alla crescita del prodotto pro-capite superiore al 5 per cento annuo.

Non c’è una ragione sola di questo andamento ciclico della Penisola, che avanza e regredisce. Per il solo ritardo accumulato tra il Cinquecento e il Novecento, sono state elencate molte cause, dalla mancanza di materie prime alla minore competitività del Cattolicesimo e alla mancata Riforma religiosa, alla diversità di stili culturali e istituzionali del Sud rispetto al Nord e al Regno Unito, alla spaccatura prodotta dalla Chiesa cattolica, che ha osteggiato la formazione di uno Stato nazionale. Ecco, dunque, dove stanno le difficoltà di capire l’Italia: nelle sue contraddizioni; nelle variazioni storiche delle sue contraddizioni; nell’instabilità e nella ciclicità dei suoi successi e dei suoi insuccessi. Nella sua anomalia rispetto agli altri Paesi europei. E nelle sue risorse d’intelligenza e di creatività, che le hanno impedito di andare a fondo, malgrado tutto.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2003