Marzo 2003

FEDERALISMO, INCUBATORE DI MALESSERE ISTITUZIONALE

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Il fascino
irresistibile della griffe
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

Si deve
modernizzare
l’apparato
amministrativo del Paese senza aprire le porte ad una nuova Repubblica di Weimar.

 

Il culto del logo entra di prepotenza nella vita politica e scandisce tempi e temi della riforma federalista. Sul finire della passata legislatura il centrosinistra (governo Amato) varò in tutta fretta la “sua” riforma. Adesso è la volta del centrodestra, che ancora nel segno della fretta ha dato il “suo” contributo, facendo approvare al Senato, in prima lettura, un disegno di legge che attribuisce alle Regioni competenza “esclusiva” per sanità, scuola e polizia locale (non si capisce perché restino esclusi ricerca, lavoro e sviluppo, che danno impulsi decisivi alle vicende dell’economia regionale).
Tra belligeranza e obbedienza alle supreme gerarchie si gioca il destino dei nuovi califfati, piccoli e grandi. Elevati al rango di guerrieri della luce i Governatori delle regioni recitano adesso liturgie da luogotenenti del buio, dando voce al disagio territoriale e alla richiesta di nuovi poteri salvifici.

La scapigliatura tenta di darsi vesti e virtù di ordine costituzionale mentre a Bruxelles, dopo il varo della riforma del Patto di stabilità, qualcuno pensa di avviare contro l’Italia una procedura d’infrazione (le riforme istituzionali hanno costi compatibili con le difficoltà dei conti pubblici?).
Prima di entrare sul terreno minato delle riforme sarebbe stato più prudente chiedere alla Società civile se la destrutturazione dello Stato è condizione indispensabile di progresso; se il senso della solidarietà è ancora patrimonio dell’unità nazionale; se una lunga crisi istituzionale a tutto campo ha un rapporto di causa-effetto con il declino economico del Paese; se può esserci federalismo “buono” in un caleidoscopio di particolarità e particolarismi non inquadrati in un disegno unitario.
Sulla questione federale si gioca una partita di valenza storica, che non può essere gestita nel segno della fretta e del profitto politico. L’eccesso di prossimità e di confidenza con il Potere “pro tempore” è sempre stato il limite storico della nostra cultura. Ma sul federalismo quest’atteggiamento non paga. C’è in gioco il riassetto organizzativo di una Comunità di 70 milioni di abitanti che deve tener conto degli effetti della globalizzazione e dell’integrazione europea.
La tentazione di scaricare all’esterno (sulla Società civile) le contraddizioni interne di “destra” e di “sinistra” (per usare uno schema grossolano e stereotipato) può risultare politicamente irresistibile ma eleva decisamente la soglia dei rischi sociali.

I sondaggi registrano cittadini distratti e mandano segnali di indifferenza popolare, a conferma di un argomento tenuto a galla solo dall’interesse politico contingente, portato avanti tra dissensi pubblici e pentimenti privati che alimentano equivoci surreali da bacheca.
Eppure dovrebbe essere chiaro che il progetto federalista va oltre la normale dialettica politica tra maggioranza e opposizione, impegnando la sensibilità civile e culturale di tutta la comunità nazionale sulla necessità di instaurare un frazionamento di sovranità (per sanità, scuola, fisco, lavoro, sviluppo, ordine pubblico, giustizia), cosa diversa dal collaudato decentramento amministrativo.
In assenza di idee innovative si cerca di dare credito alla vecchia concezione sindacale del “federalismo cooperativo”. Così si scrivono pagine di commossa elegia sui valori della solidarietà, ma restano per intero tutte le difficoltà ad assimilare socialmente un nuovo ordine costituzionale. Strutturato su fonti plurime di diritto.
Ci aspettavamo dal genio italico una progettualità originale volta ad incorporare l’informale nel formale, le virtù di una democrazia allargata, in linea con la visione sociologica anglosassone rivalutata dopo la scomparsa recente di John Rawls (una delle sue massime autorità).
Sul piano storico è un’ossessione unica per affievolire i disagi della sperimentata democrazia rappresentativa che ha fatto uso e abuso del principio dell’omologazione. Ma la cronaca ci costringe a registrare il tragico gioco quotidiano della delegittimazione delle autorità politiche e istituzionali, l’abitudine a rendere sempre più elitari e solitari i percorsi della politica.

L’ottimismo della realpolitik appare fuori luogo, resta un generico ottimismo di maniera e un obbligo di fare imposto dal vento delle autonomie e dai princìpi di sussidiarietà sviluppati dalla burocrazia europea.
Poiché sono ancora possibili margini di discussione nel tentativo di superare gli attuali modelli di dipendenza centro-periferia, proponiamo alcune riflessioni che a noi non sembrano marginali.

Utilizzare soluzioni istituzionali market-oriented non vuol dire adottare ricette liberiste, sarebbe semplicemente un mezzo moderno per fare radicare una democrazia partecipativa, un modo di procedere istituzionale coinvolgente la struttura molecolare della Società civile (le proposte di riforma lette finora tendono solo a moltiplicare filtri e controlli locali che aumentano l’inquinamento burocratico).
Questo filone di ricerca va depurato delle scorie ideologiche che restano un nonsenso in un Paese in cui la destra politica, nata liberista, rischia di morire keynesiana, mentre la sinistra, nata statalista, rischia il collasso con l’uso di ricette neoliberiste.
Va sottolineato che in Italia si deve introdurre una sorta di federalismo alla rovescia, dovendo effettuare su tutto l’arco istituzionale un’operazione sostanzialmente anomala, con il trasferimento di competenze, responsabilità e finanze dal centro alla periferia. I Paesi con tradizione federalista (Stati Uniti, Canada, Australia, India, Brasile, Svizzera, ecc.) sono nati con un assetto costituzionale che dispone invece competenze e responsabilità lungo una filiera che va dalla periferia verso il centro. Questa diversa cornice organizzativa ha reso i cittadini culturalmente motivati ad assumere un ruolo diretto di controllo sulla spesa pubblica e sull’uso dei servizi sociali (con il frequente ricorso al referendum, con l’influenza delle associazioni private). Con questo assetto organizzativo sono stati creati controlli “diretti” della Società civile, non “gestiti” da burocrazie intermedie, teleguidate dalla volontà politica. In un disegno istituzionale organico di tipo federalista la questione dei controlli resta centrale. E’ il nodo che da noi è lontano dall’essere chiarito.
Cerchiamo di leggere oltre gli slogan gridati quanto è accaduto finora. Il federalismo promosso dalla sinistra (legislazione concorrente sulle venti materie previste dalla legge) aumenta a dismisura i conflitti di attribuzione, creando un contenzioso perenne che paralizza di fatto l’attività di tutte le amministrazioni. Con la “devoluzione” della destra (istituto di origine medioevale con cui si restituivano alla Corona beni e poteri vassallatici) questo conflitto non sussiste grazie alla competenza “esclusiva” attribuita alle Regioni. Avendo la Stato ceduto tutti i poteri, i controlli diventano inesistenti o evanescenti una volta eliminati quelli attuali (prefetti, ecc.).
Si avverte l’opportunità di introdurre nel sistema controlli nuovi e diretti, secondo gli schemi già sperimentati nei Paesi di tradizione federalista (referendum e altro) che certamente estendono l’area della partecipazione sociale al processo decisionale (non è forse l’obiettivo ultimo di una riforma federalista?).
Purtroppo un disegno di riforma organico ancora non si vede anche se opinioni informali di governo e rumor parlamentari hanno segnalato la necessità di altre riforme importanti (forma di governo, Camere delle Regioni, Corte Costituzionale). Ancora una volta si è voluto mettere il carro davanti ai buoi, rendendo più forti le autonomie locali prima di dare altrettanta forza alle istituzioni del governo centrale. Altra pericolosa anomalia, per il possibile insorgere di potentati burocratici animatori di antagonismi provinciali, che possono indurre la Società civile a navigare tra l’esaltazione delle “storie” di quartiere e la rivalutazione dell’economia asburgica del naso chiuso (se anche la politica estera dovesse essere diluita, l’Italia si condannerebbe alla irrilevanza politica).
Lo snodo federalista è atteso da tempo dai cittadini, con l’aspettativa di conseguire miglioramenti significativi nel rapporto cittadini-burocrazia pubblica e nella qualità dei servizi utilizzati. Al momento si vede solo l’aumento della pressione fiscale per l’incremento di imposte e tasse locali (addizionali, tasse sulle concessioni, sul diritto allo studio universitario, sullo smaltimento dei rifiuti, compartecipazioni all’Iva e agli olii minerali, bollo auto, imposta sulle assicurazioni per le Province, ecc.).
Nel lessico politico queste nuove forme di prelievo forzoso vengono definite federalismo fiscale (ancora da definire tecnicamente sul piano legislativo), espressione classica di conservatorismo sostanziale fatta passare per lungimirante riordino del vaso di Pandora. Il federalismo fiscale c’è già.
Ciò che si vuole è l’aumento delle compartecipazioni addizionali sulle imposte dirette e indirette. Ma la finanza pubblica non si basa solo sulle entrate (e dunque sull’eterna battaglia per i trasferimenti), ma anche sui mutui della Cassa Depositi e Prestiti, sulla vendita di beni, sulla gestione dei servizi, sulla capacità dei soggetti pubblici di rivolgersi in modo credibile al mercato, sull’efficiente attivazione delle linee di credito comunitarie. Una finanza locale dipendente da aliquote applicate alle entrate statali, senza poteri di riscossione e accertamento, non può avere reale autonomia.
In concreto, se una minima riduzione dell’imposizione statale viene compensata da un forte incremento dell’imposizione locale, si crea uno stato di fibrillazione sociale che porta il cittadino ad accrescere i motivi di risentimento verso le autonomie locali (centri più vicini alla rappresentanza dei suoi interessi) restituendo fiducia al vecchio impianto statalista. L’esatto contrario della riforma federalista che si vorrebbe attuare.
Il latente disordine finanziario richiede un gioco delle parti omogeneo, un esperimento di collaborazione rafforzata tra i vari livelli di governo e tra governi e mercato (non a caso abbiamo fatto cenno prima alle istituzioni market-oriented).
Questa collaborazione rafforzata dev’essere “istituzionalizzata”, deve passare attraverso un’Agenzia o altro organismo autonomo rispetto alle amministrazioni, dotato di competenze specifiche, per assolvere un ruolo che non può essere né della Conferenza Stato-Regioni (organo di programmazione generale e d’indirizzo politico), né della Camera delle Regioni (organo legislativo), né della Corte dei Conti (organo di controllo). Serve un ente di prestigio, qualificato a gestire con rigore il patto di stabilità interno, promuovendo nella Pubblica Amministrazione percorsi di gestione innovativi, capaci di utilizzare un rapporto virtuoso tra “economia ed etica” (un’esigenza sottolineata più volte da Benedetto Croce). Il problema centrale non sta nelle regole e negli Statuti, ma nella qualità e nelle motivazioni del personale politico e amministrativo.
Il cittadino inerme non può essere catapultato in un dilemma angosciante: accettare lo “zoo” di un sistema pubblico che gli offre servizi mediocri con una spesa incontrollata, oppure accettare per gli stessi servizi i rischi della giungla assicurativa, restando in balia delle regole umorali del mercato (in entrambi i casi pagano il prezzo più elevato le fasce più deboli della popolazione). Su queste preoccupazioni s’innesta il discorso federalista, che è innanzitutto domanda di equilibrio istituzionale, domanda di democrazia con l’impiego razionale di pesi e contrappesi, domanda di professionalità, domanda di servizi efficienti.
Si deve modernizzare l’apparato amministrativo del Paese senza aprire le porte ad una nuova Repubblica di Weimar.
Deve far riflettere una scritta che una mano giovane ha lasciato sui muri di un’Università: “Il futuro mi interessa perché è là che intendo passare i prossimi anni”. Un futuro italiano (più ecumenico che bipartisan) in cui possa essere ancora assicurata quella «dolcezza di vivere» descritta dall’abate Siéyés con riferimento alla Francia prerivoluzionaria.
Esistono nel Paese istituti universitari, associazioni e fondazioni culturali ben attrezzati. Potrebbero dare stimoli interessanti ad un dibattito che non è esclusivamente politico. Avendo sufficiente sensibilità per considerare la Società civile come laboratorio di ricerca di valori nuovi: sulla moralità della politica, sull’etica del lavoro, sulla responsabilità sociale dell’informazione. Qualche riserva riguarda la loro autonomia, per la presenza di ipoteche ingombranti poste a carico di un possibile “liberalismo reale” dall’intreccio istituzionalizzato tra politica ed economia (Berlusconi a destra, De Benedetti a sinistra).
Oltre i conflitti d’interesse personali, oltre i conflitti fra interessi di lobby, occorre aprire un cantiere per costruire una nuova “età dei lumi” che ha nel momento istituzionale il suo tratto più qualificante. Ciò farebbe crescere anche il nostro capitalismo privato, rimasto sempre nano per il forte protezionismo statale (offerto e sollecitato).

...Occorre risciacquare i panni in Arno! I successi del dopoguerra erano fondati su identità e motivazioni forti. C’era la voglia condivisa di costruire e c’era la voglia egocentrica e aristocratica di affermarsi producendo ricchezza (Bruno Visentini, Enrico Mattei, Enrico Cuccia, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Raffaele Mattioli, Gino De Gennaro, Donato Menichella sono stati espressi da una Società civile che ha saputo dettare stili e metodi di lavoro rigorosamente estranei alla contiguità politica).
La questione istituzionale è anche questione di orgoglio professionale, di sensibilità sociale e freschezza culturale. Vorremmo tanto capire come sarà l’italiano del nuovo patto di cittadinanza. Come saremo quando l’ambivalenza sarà istituzionalizzata, quando saremo diversi pur dovendo restare simili.
C’è un problema di identità nazionale che è diventato improvvisamente attuale. E c’è un problema di appartenenza non campanilistica da vivere in spazi socio-economici coesi. Certamente bisogna andare oltre la manomissione sistematica dei fragili meccanismi istituzionali che hanno governato lo sviluppo nel dopoguerra. Impegnandosi a trovare tra il Nulla e la Grande Confusione una linea mediana di lavoro proficuo.

   
   
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