Marzo 2003

Mezzogiorno e Italia

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Storia
di un problema
Renato Pietranera - Adelmo Stabile
 
 

 

 

 

Coll.:
Orlando Todini
Mario Selvaggi

Ricerche:
Enrico Donelli
Francesco Corvetti

 

La “questione meridionale”, cioè il ritardo nella crescita economica e civile delle regioni meridionali della penisola, rimane ancora oggi uno dei nodi irrisolti della vita del nostro Paese, anche se in termini diversi dal passato. Ai nostri giorni, infatti, alcuni fenomeni considerati “mali classici” del Mezzogiorno, come (in buona parte) l’emigrazione, l’analfabetismo o il basso livello dei consumi sono pressoché scomparsi o hanno decisamente mutato segno.

Tuttavia, altri aspetti sono rimasti a testimoniare il persistente squilibrio fra il Centro-Nord e la parte Centro-Meridionale della penisola. Basti pensare alla marcata diversità di potenziale industriale, al diverso grado di sviluppo delle infrastrutture e dei servizi, alla cronica insufficienza di iniziativa imprenditoriale e all’alto tasso di disoccupazione che caratterizzano l’economia di larga parte del Sud. Inoltre, sono preoccupanti gli aspetti di degrado civile determinati dalla persistenza di cartelli del crimine organizzato.
Alla luce di questa realtà, si assiste oggi a un preoccupante mutamento di idee, di valori e di comportamenti nei confronti dei complessi problemi del Sud. Fino a qualche tempo fa, la questione meridionale si presentava infatti all’opinione pubblica come il problema dell’integrazione della parte più povera e arretrata nel resto del Paese, ed era accompagnata da un generale senso di solidarietà.

In quest’ultimo decennio, o poco più, invece, soprattutto nelle aree più sviluppate della penisola si è radicata la convinzione che il problema del Sud non sia una questione nazionale, ma una faccenda esclusiva dei meridionali, che dai meridionali (con qualche risorsa europea) debba essere risolta.
E paradossalmente e per la prima volta nella storia del nostro Paese la questione meridionale tende ad essere soppiantata dalla “questione settentrionale”, intesa anche come un indebito flusso di risorse finanziarie che, spostandosi da Nord a Sud, limita le possibilità e la capacità di sviluppo del Settentrione. Per questo le regioni meridionali, con il loro carico di problemi, rappresenterebbero una “palla al piede”, che oltre tutto impedirebbe all’Italia “che produce e che lavora” di inserirsi con pari dignità all’interno della comunità degli Stati europei.

Le inchieste sul Mezzogiorno
I problemi del Sud affondano le radici nella vicenda storica complessiva della nazione italiana. Gli eredi di Cavour si posero come obiettivo principale la costruzione dello Stato. L’esigenza dell’unità portò tuttavia a sottovalutare la diversa realtà delle regioni italiane, e in particolare le caratteristiche del Mezzogiorno, dove sopravvivevano condizioni economiche semifeudali, a cominciare dal latifondo. Per alleviare la miseria dei contadini senzaterra e stimolare la crescita di un’agricoltura moderna, si sarebbe dovuta attuare una riforma agraria, con la redistribuzione delle terre e con la creazione di un libero mercato sorretto da vie e mezzi di comunicazione, da beni e servizi adeguati. Ma ciò non fu fatto, perché un progetto del genere si sarebbe scontrato con le resistenze della classe dirigente meridionale che prosperava sulle rendite fondiarie e i cui capitali venivano regolarmente investiti nello sviluppo del Nord.

Le conseguenze per il Sud furono crisi economica, ribellione sociale, ostilità verso l’amministrazione dello Stato, con il risultato finale di un divorzio tra governanti e governati che caratterizzerà per lungo tempo la storia della società italiana.
I risultati dell’indagine della Commissione parlamentare nel 1863, e le riflessioni di alcuni studiosi e uomini politici, come Pasquale Villari negli anni Ottanta, denunciarono all’opinione pubblica le condizioni di sfruttamento delle masse contadine del Sud come causa prima dell’arretratezza delle regioni meridionali. Altri, come Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, alla luce dei dati di un’inchiesta sulle condizioni del Napoletano e della Sicilia, giunsero alla conclusione che l’«arretratezza del Mezzogiorno non fosse un fenomeno circoscritto e isolato in un Paese per il resto sano e normale, [ma] fosse causa e conseguenza dei limiti e dello sviluppo dello Stato» (riportato da Rosario Villari).
Questione meridionale e questione sociale giunsero così ad essere un unico problema. A partire dal 1880 fino alla prima guerra mondiale, le condizioni di arretratezza economico-sociale del Sud si aggravarono. L’adozione della tariffa protezionistica del 1887 aprì con la Francia un vero e proprio conflitto doganale, che interruppe il flusso delle esportazioni italiane di natura prevalentemente agricola verso quel mercato. In tal modo furono colpiti alcuni tra i settori più vitali dell’agricoltura meridionale (produzioni di vino, di frutta, di ortofrutticoli, ecc.). Ma soprattutto, il decollo industriale dei primi anni del Novecento, concentrato nel Nord, accentuò, invece di attenuare, lo squilibrio territoriale del Paese. Non è un caso se proprio in questo periodo, esattamente nei primi tredici anni del ‘900, quando l’emigrazione italiana raggiunse le punte massime, il maggior contributo fu dato proprio dalle regioni meridionali.
Tuttavia, anche il Sud subì un processo di trasformazione indotto dalla stessa emigrazione, che alleggerì la pressione della popolazione contadina sulla terra e ridusse la manodopera, favorendo in questo modo il miglioramento dei salari e provocando un certo spostamento di ricchezza tra i ceti meridionali. Ma al di là dei parziali effetti positivi, l’emigrazione comportò la fuga delle forze più vitali e intraprendenti verso terre straniere. Da questo momento, l’inferiorità del Mezzogiorno si trasformò nel sottosviluppo di una vastissima area del Paese.


Meridionalismo del dopoguerra
La sfavorevole situazione economica seguita alla prima guerra mondiale ebbe pesanti conseguenze per il Sud: il disagio dei contadini-reduci esplose in un vasto movimento per l’occupazione delle terre del latifondo incolto. Il clima del dopoguerra favorì peraltro la tendenza da parte di tutte le forze politiche, dai cattolici ai marxisti, a considerare i problemi del Mezzogiorno in un’ottica più generale e a prospettarne la soluzione tramite radicali mutamenti politici e sociali sul piano nazionale.
Per i cattolici del Partito popolare italiano, fondato proprio in quegli anni ad opera del sacerdote siciliano Luigi Sturzo, il Sud poteva venir fuori dalla sua condizione di inferiorità sociale soltanto mediante una profonda trasformazione della struttura accentrata dello Stato, con l’istituzione delle autonomie regionali e con un nuovo sistema elettorale, di tipo proporzionale. Infatti, solo togliendo ogni potere ai vecchi notabili e trasferendolo in gran parte alle autonomie locali si sarebbero potute avviare le riforme a favore della piccola proprietà contadina, con la divisione del latifondo e il conseguente sviluppo del Sud.

Anche il liberale democratico Guido Dorso, nel saggio La rivoluzione nazionale, pubblicato nel 1925, attribuiva l’arretratezza economica e sociale del Sud a ragioni essenzialmente politiche: per lui, il Mezzogiorno era stato “conquistato” per via diplomatica, sulla base di un compromesso tra i ceti borghesi egemoni del Nord e le forze dominanti del Sud, cioè i grandi proprietari terrieri. Ma l’esclusione delle masse popolari da ogni partecipazione attiva alla costruzione dello Stato unitario aveva impedito la modernizzazione della società meridionale, mentre il ceto dirigente del Sud, subalterno socialmente e politicamente al Nord, aveva abdicato alla sua funzione nazionale. Solo un ceto dirigente radicalmente rinnovato che, alla testa delle masse contadine, combattesse per la trasformazione democratica del vecchio Stato accentratore avrebbe potuto avviare uno sviluppo moderno delle regioni meridionali.
Negli stessi anni, il comunista Antonio Gramsci osservò che il problema del Mezzogiorno non si configurava solamente come arretratezza economica e ritardo civile, ma era la conseguenza di precise scelte politiche ed economiche della borghesia italiana, interessata ad unire gli obiettivi dello sviluppo industriale con le esigenze di conservazione dell’assetto sociale esistente. Perciò la questione meridionale poteva essere risolta solo contrapponendo al dominio della borghesia l’azione rivoluzionaria di un nuovo blocco antagonista, basato sull’alleanza dei contadini del Sud e degli operai del Nord. Tesi, questa, in realtà anticipata da Gaetano Salvemini.


Fascismo e Sud
I problemi del Mezzogiorno non trovarono soluzione, perché con l’avvento del regime i contadini, privati della possibilità di iniziativa politica e di azione rivendicativa, furono inchiodati alla terra con provvedimenti tendenti a bloccare l’urbanizzazione e l’esodo dalle campagne. La battaglia del grano, se diede effettivi risultati sul piano produttivo, finì poi per danneggiare la struttura agricola dell’Italia, e in modo particolare quella delle regioni meridionali e delle Isole. La coltura del grano venne estesa a scapito delle coltivazioni pregiate, mentre con l’imposizione del dazio sul grano straniero si rafforzarono ulteriormente i grandi produttori.

Gli interventi della “bonifica integrale”, con la messa in opera di grandi lavori pubblici, riuscirono senza dubbio a fornire occupazione alle masse contadine e ad assorbire in parte le tensioni sociali dovute al blocco dell’emigrazione, ma incisero relativamente sull’assetto proprietario delle terre bonificate, poiché di fatto non si fornì un sufficiente sostegno allo sviluppo della piccola e media azienda contadina. La bonifica delle paludi pontine resta comunque un’opera nobile, come tale riconosciuta anche dagli avversari interni ed esterni.


Lo sviluppo mancato dei “poli”
Negli anni del secondo dopoguerra, il malessere dei contadini meridionali si manifestò con violente manifestazioni popolari culminate nel 1949 e represse persino con le armi (come gli assalti a latifondi in Calabria, in Puglia, in Basilicata e in Sicilia). Sotto la pressione di queste agitazioni, e sulla spinta della lezione di pensatori meridionali, da Ciccotti a Labriola, da Fortunato a Salvemini, e infine da Saraceno a Rossi Doria, il governo presentò un insieme di provvedimenti legislativi straordinari che miravano ad attuare una sia pur moderata riforma agraria e ad avviare un processo di industrializzazione anche nel Mezzogiorno, (in questo quadro fu istituita da De Gasperi, nell’agosto 1950, la Cassa per il Mezzogiorno).
La riforma fondiaria attuata nel corso degli anni Cinquanta portò all’incremento della piccola proprietà terriera, con il ridimensionamento del latifondo e la sua trasformazione in grande azienda capitalistica: essa favorì inoltre la crescita dell’agricoltura, grazie anche all’assistenza tecnica e creditizia, e promosse l’allargamento del mercato. L’intervento governativo, pur attaccando per la prima volta nella storia d’Italia la proprietà latifondista, deluse tuttavia, per molti versi, le aspirazioni dei contadini, sia perché la terra espropriata risultò del tutto insufficiente rispetto ai bisogni, sia perché i lotti di terreno distribuiti erano troppo poveri e di dimensioni troppo piccole per essere economicamente autosufficienti.
Con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno iniziò la seconda fase dell’intervento legislativo, mirante allo sviluppo industriale delle regioni meridionali. Questa fase trovò piena maturazione negli anni Sessanta, all’indomani del cosiddetto “miracolo economico”. Caratteristica, fu l’impegno diretto dello Stato nell’attività industriale attraverso le aziende a partecipazione statale e le agevolazioni fiscali e creditizie concesse ai privati che intraprendevano iniziative industriali nelle aree meridionali. Questa linea di intervento si ispirava alla strategia economica dei poli di sviluppo: essa puntava cioè alla formazione di grandi concentrazioni industriali che avrebbero dovuto svolgere la funzione di centri propulsori dello sviluppo dei territori circostanti. Si vennero così a creare delle “isole” industriali, privilegiando i grandi complessi di base.
I poli di sviluppo contribuirono senza dubbio ad attirare capitali pubblici e privati e a modificare l’assetto prevalentemente agricolo della società meridionale, introducendo nuove forme di produzione e di occupazione operaia.

Tuttavia non riuscirono ad attivare lo sperato processo di sviluppo indotto, e cioè la diffusione di piccole e medie industrie collegate ai processi lavorativi delle grandi imprese, con i connessi benefici per la crescita dell’occupazione e la conseguente modernizzazione di tutta la società. Il fallimento di questa politica veniva rilevato già dal 1963 dal ministro delle Partecipazioni Statali, che denunciava «il vuoto desolante di imprese private attorno ai grandi impianti del Sud». Di qui, la popolare immagine delle “cattedrali nel deserto”.


L’emorragia migratoria del ‘60
La conferma del persistente sottosviluppo meridionale durante il periodo della grande crescita del Paese è fornita dal fenomeno dell’emigrazione, ripreso impetuosamente alla fine degli anni Quaranta e divenuto nuovamente un esodo biblico dopo il 1955.
Negli anni Cinquanta lasciarono il Sud un milione e mezzo di persone, e nel decennio successivo altri due milioni e mezzo [per una sintesi sufficientemente completa dei flussi migratori prima di questa data, si veda Apulia, n. IV, dicembre 2002, pp. 104-107, N.d.R.]. Dapprima diretta verso le zone industriali del Nord d’Europa, la nuova massa di emigranti andò progressivamente spostandosi verso l’area del “Triangolo industriale” italiano. In alcune regioni lo spopolamento assunse aspetti catastrofici, come in Calabria, regione dalla quale in quegli anni emigrò un quinto della popolazione.
I costi economici e sociali pagati dalle regioni meridionali con l’emigrazione furono pesantissimi: il Sud forniva forza-lavoro alle industrie del Nord e, con le rimesse degli emigrati all’estero (che nel 1947 erano di 34 milioni di dollari e nel 1961 raggiungevano il valore di 397,5 milioni), contribuiva ad accrescere la domanda interna di beni di consumo e ad aumentare la disponibilità di valuta pregiata, ma perdeva ancora una volta larga parte delle forze potenzialmente più attive e intraprendenti della propria popolazione.
In questo modo venne ad essere stravolta tutta la fisionomia produttiva e sociale del Sud, che a partire da questo momento manifestò sempre più apertamente i segni della frammentazione sociale e la precarietà del processo di modernizzazione. Nuove figure sociali vennero ad affiancarsi o a sostituire quelle tradizionali dei contadini e dei proprietari terrieri, dando vita a un ceto medio costituito da piccoli proprietari, commercianti, funzionari statali e professionisti; ma nello stesso tempo, ai margini del mercato del lavoro, prosperava «una massa di disoccupati e sottoccupati esposti a tutte le lusinghe e alla pubblicità di una società consumistica e con poche risorse atte a soddisfare i loro bisogni» (P. Ginsborg).


Quale futuro
La mancanza di un tessuto economico davvero vitale e l’assenza di prospettive immediate di sviluppo indussero la classe dirigente del Sud, complici le autorità nazionali, a utilizzare l’apparato dello Stato come fonte sostitutiva di occupazione. La società meridionale sviluppò così sempre più diffusamente forme di parassitismo economico e burocratico, come contropartita di un consenso garantito alle forze di governo e agli apparati partitici; e allo stesso tempo veniva devastata da forme sempre più gravi di illegalità, dal clientelismo alla corruzione e alle collusioni con le mafie.
A più di cento anni dall’Unità d’Italia la questione meridionale si riproponeva come un intreccio indissolubile tra arretratezza delle strutture economiche e degrado del tessuto civile e istituzionale, a conferma che i mali del Sud potevano essere affrontati alla radice solo con coraggiose scelte di natura politica, prima ancora che economica. Al tempo stesso, incominciava a farsi strada l’idea che l’intervento a favore del Mezzogiorno non potesse più essere condotto come se quella parte d’Italia fosse del tutto priva di differenze al suo interno: in realtà, c’erano – e ci sono – aree in cui l’arretratezza economica e il degrado sociale erano molto elevati, ma anche situazioni (per esempio, nelle regioni adriatiche) in cui le attività imprenditoriali e le iniziative civili e culturali denotavano moderna vitalità.
Vale per allora, come per oggi, l’esortazione di uno storico del Mezzogiorno, Piero Bevilacqua, a non cadere nell’errore di identificare la vicenda storica delle regioni meridionali con la storia della questione meridionale, cioè con la storia del divario Nord-Sud d’Italia, «a tal punto che di fatto la rappresentazione dell’Italia meridionale in età contemporanea ha finito con il ridursi a una sorta di non storia, la frustrante vicenda di ciò che non aveva potuto essere, il mero risultato dello squilibrio costante e inalterato nel tempo e perciò un derivato, un residuo della storia degli altri, incarnata dalle realtà più avanzate dello sviluppo economico, vale a dire del Nord [...]».

Esiste infatti anche un «Mezzogiorno normale», «una realtà inserita a pieno titolo in un Paese industriale, entro linee politiche tendenzialmente continentali: quella realtà che poi riguarda la vita e l’operare quotidiano della maggioranza della popolazione». La conoscenza di questa realtà diviene tanto più necessaria oggi quando, anche a opera dei media, soprattutto della televisione, si sta diffondendo nel Paese «un insieme di stereotipi indistintamente negativi» sul Sud, che non contribuisce certamente ad avvicinare la due parti del Paese. Quello del Mezzogiorno d’Italia è sicuramente un problema di sviluppo economico, ma anche, e forse soprattutto, di sviluppo civile e politico: il cattivo funzionamento dell’apparato dello Stato e dei servizi, il clientelismo, la corruzione politica, i cartelli del crimine. Problemi drammatici nel Sud, ma tuttavia vivi anche in altre regioni d’Italia.

 

Appendici all’inchiesta sul Mezzogiorno

Federalismo improponibile

Cattaneo fu tra i primi a intuire i difetti del sistema parlamentare italiano; c’è una sua lettera nella quale già nel 1859, prima ancora dell’unificazione, denuncia il circuito vizioso di un potere che dal centro si estende alla periferia nelle forme dell’accentramento e che dalla periferia ritorna al centro attraverso l’elezione di deputati federali al governo. In antitesi a tutto ciò, Cattaneo aveva indicato la formula del federalismo. Ma la via del federalismo non è stata di fatto quella percorsa.
Oggi si possono correggere i vizi del centralismo, si può camminare più risolutamente sulla via delle autonomie regionali secondo il disegno fissato dalla Costituzione del 1948, si possono combattere le nuove forme di centralismo che nascono dal forte intervento dei partiti sulle autonomie locali: ma quello che assolutamente non si può fare è cancellare il passato e il dato di fatto di un’unità costruita su una via diversa da quella del federalismo. Non si possono fra l’altro cancellare i debiti che, reciprocamente, Nord e Sud d’Italia hanno contratto. Il Sud ha pagato, come tutto il pensiero meridionalista del primo Novecento ha ben messo in luce, la prima industrializzazione del Nord; ha pagato in termini di emigrazione mal retribuita negli anni ‘50 la seconda industrializzazione, quella del “miracolo economico”; ha ricevuto a sua volta dal Nord grandi risorse non sempre ben impiegate per il suo sviluppo...
Tutto questo dare e avere reciproco ha creato contraddizioni e problemi che non si possono cancellare con un colpo di spugna perché sono parte integrante della vita e della storia del Paese ed esigono invece, ancora oggi, risposte ispirate a criteri di solidarietà nell’ambito di una visione d’insieme e di un interesse comune. Ecco perché il federalismo postumo non è praticabile...

Pietro Scoppola


Attualità del federalismo

Il federalismo è per Cattaneo la più valida garanzia della libertà civile e di quella politica. La preoccupazione di Cattaneo, comune al più schietto liberalismo, era che lo Stato unitario, proprio in quanto tale, fosse inevitabilmente oppressivo, perché livellatore delle differenze, dispotico perché accentratore. L’antidoto era la molteplicità dei centri, autonomi non solo amministrativamente, ma anche legislativamente; e questa autonomia prendeva figura giuridica dello Stato federale, ma avrebbe potuto prendere, con lo stesso diritto, la figura dello Stato unificato su base regionale. Perciò, per quanto possa sembrare un paradosso, lo Stato federale nel senso proprio della parola non era essenziale alla dottrina del federalismo come teoria della libertà. Essenziale nel pensiero politico di Cattaneo non è tanto la formula proposta, quanto la meta ch’egli voleva raggiungere, cioè la maggior libertà possibile, civile e politica, insieme con i mezzi indicati.

Norberto Bobbio

Perché

Il Mezzogiorno è oggi, per lo meno sul piano del costume politico, dell’espressione dello spirito pubblico, quello che il sistema politico italiano ha voluto che fosse, o quanto meno ha finito col far diventare. Tutto questo non può essere dimenticato da chi non si accontenta di esemplificazioni e si accosta alla storia recente di queste regioni del Paese con la volontà di esaminare e capire. Soprattutto non può essere dimenticato da chi oggi rivendica la diversità di ricchezza, di storia, di capacità dell’Italia del Nord.
L’Italia meridionale è alle prese con i problemi che conosciamo, anche per effetto di un modello di sviluppo industriale che ha cumulato vantaggi incomparabili nell’area economicamente più forte della penisola. Mentre l’emigrazione [...] ha poi finito col privare le regioni meridionali delle energie umane più intraprendenti e attive, delle sue intelligenze più creative, segnando alla fine un altro punto di vantaggio per il Sud: perché esso è venuto perdendo, per questa via, grandissima parte delle sue energie e delle sue figure intellettuali, quelle che oggi, disseminate in ogni angolo d’Italia, fanno parte della classe dirigente nazionale, operando nelle Università, negli ospedali, nei quadri della magistratura, nell’editoria, nei giornali, nella scuola. E ciò va peraltro ricordato anche per un’altra ragione: un po’ di memoria storica è spesso utile per togliere qualche boria di troppo a rivendicazioni di diversità che tendono a scivolare, senza mediazioni e spesso disinvoltamente, nel pregiudizio razzistico.
Ma un’ulteriore considerazione [...] credo vada avanzata nei confronti di chi – di fronte ai gravi problemi che segnano la vita della Repubblica in questa fase – sogna assurde e pericolose scorciatoie, invocando la strada del distacco e della fuga. Sull’idea della separazione non nasce nessuno Stato nuovo: è solo un indistinto coacervo di egoismi sociali che si mette insieme. E se vengono meno le ragioni della solidarietà, la volontà di contribuire a un destino comune, non solo scade e si scolora l’identità nazionale, ma crollano le ragioni stesse dello stare insieme, si taglia alla radice ogni motivo della convivenza umana, qualunque sia la dimensione istituzionale in cui si sceglie di isolarsi.
Un tale disegno, di certo, non ha futuro. Mentre appare oggi ben drammaticamente chiaro che le nazioni che perdono di vista idealità collettive da conseguire subiscono tracolli tragici nella loro identità e coesione interna. Anche per questa ragione, dunque, una nuova visione solidale dei problemi dell’Italia meridionale dovrebbe costituire uno degli orizzonti imprenscindibili nello sforzo presente di ricostruzione dello Stato nazionale.

Piero Bevilacqua

Inaccettabile boria

Ai mali economici del Mezzogiorno e della Sicilia, i fratelli del Settentrione hanno provveduto considerando tali regioni quali una colonia popolata da barbari – una colonia dove vi era soltanto un buon mercato per i loro prodotti industriali. Ai mali politici, intellettuali e morali della Sicilia e del Mezzogiorno, i fratelli del Settentrione hanno provveduto guardandoli altezzosamente, trattandone gli abitanti brutalmente e sprezzantemente...
Non è tutto: nell’anno di grazia 1898, quando il regime costituzionale si vuole esteso anche alla Russia, un pubblicista, del resto coscienzioso, come Adolfo Rossi, nel Corriere della Sera di Milano – cioè nell’organo magno delle classi dirigenti settentrionali – per fare l’educazione politica della Sicilia e per incamminarla ad un migliore avvenire non sa presentare che questa ricetta: sospendervi per cinquant’anni almeno le garanzie costituzionali e amministrarla con un governatore, con prefetti e con commissari comunali scelti tra i più onesti e capaci del continente. Ma perché allora si mandarono per 38 anni in Sicilia i funzionari più disonesti e più incapaci come in luogo di punizione?...
Ora i settentrionali vanno troppo orgogliosi delle loro buone e innegabili qualità; e in questo stato d’animo c’è già un germe di decadenza, di degenerazione che bisogna sradicare senza pietà e non coltivare amorevolmente [...]. L’ignoranza sulle vere condizioni delle singole regioni dell’Italia è in tutti; ma è maggiore nei settentrionali sul Mezzogiorno e sulla Sicilia sui quali trinciano sentenze cervellotiche, quando non sono calunniose...
Questo dell’ignoranza è male gravissimo. Non ci può essere unità morale se le parti unite non si conoscono tra loro e conoscendosi non imparino a stimarsi, a rispettarsi, ad emendarsi e migliorarsi reciprocamente. Ma come è stata fatta l’Italia, l’unità morale non c’è più e non può esserci. C’è solamente nelle leggi e nelle sofferenze; non c’è nei costumi e nelle abitudini buone.

Napoleone Colajann

   
   
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