Marzo 2003

IL CORSIVO

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Fine di un regno
Aldo Bello
 
 

 

 

 

Chi pagherà
il conto?
Sicuramente lo Stato, cioè i cittadini,
e non certo per
ragioni di strategia industriale.

 

Intorno alla metà degli anni Sessanta, Raymond Cartier, colto caporedattore del settimanale Paris Match, selezionata una mole impressionante di dati e informazioni, pubblicò il volume “Le 19 Europe”, sintesi di un’indagine storico-economica condotta in presa diretta in tutte le nazioni del Vecchio Continente. E in quelle pagine, citando fra i centri vitali italiani la maggiore impresa privata che sfornava automobili impiegando decine di migliaia di maestranze, saldate da un orgoglioso spirito di appartenenza, scrisse: – Fiat, dal nome mirabile! –. Ne percepiva, evidentemente, la potenza creativa, e quasi sacrale, riassunta in un logo abbagliante nato in un bar torinese, ad opera di tre azionisti – mi pare –, poi diventati uno solo, dal cognome consegnato alla storia non soltanto economica della Penisola: Agnelli.
Anni fervidi, quelli del decennio ‘60. C’era stato il Centenario dell’Unità. Era in corso il boom. Il nostro design trionfava ai Saloni di Parigi e di Ginevra. Il capoluogo piemontese attirava un’immigrazione interna caotica e stracciona, materia muscolare e materia grigia dirette in gran parte a Corso Marconi, casa-madre, e negli immediati dintorni occupati dall’indotto, alla ricerca dell’antico miraggio di un salario fisso. La concorrenza del Giappone e della Corea era di là da venire. Sulle coste italiane non sbarcavano clandestini, approdavano gli yacht di Onassis e dell’Agha Khan, di Faruk provvisorio re d’Egitto attratto dalla dolce vita di Via Veneto e del re di Svezia appassionato d’archeologia etrusca. Nelle fabbriche dell’Italia del Nord trionfavano il fordismo delle catene automatiche di produzione, il fascino della tuta blu e il costo compresso del lavoro. La lira veniva da un glorioso Oscar. Il frigo e il televisore diventavano beni di consumo di massa. Le rimesse interne e dall’estero sostenevano edilizia e artigianato. Giulio Natta vinceva il Nobel per la chimica. La pubblicità di una rampante azienda di elettrodomestici dal nome regale precisava: – Tutto questo non nasce dal nulla! –. Tutto quello, e altro ancora, nascevano da popoli di formiche che mutavano pelle, trasformando dal basso una società italiana che era ancora provinciale e passatista. La Penisola restava anchilosata, con economia dualistica. Comunque in progress, sia pure a velocità divaricate. Punte di diamante dell’impresa nel Sud, i centri siderurgici e petrolchimici, di mano pubblica; nel Nord, la meccanica, l’elettrotecnica, la gomma, l’auto e quant’altro emerso per mano privata, o data per tale. Al vertice della piramide, orgoglio del Paese e di una Grande Famiglia, la Fabbrica italiana automobili di Torino. L’onnipotente, “mirabile” Fiat.

Quattro decenni dopo, anno più, anno meno. La Fiat fu. E sono in molti a chiedersi quali siano stati i motivi di fondo che hanno determinato la parabola declinante, sfociata in una crisi drammatica. Fra tutti, Valerio Castronovo, autorevole storico della Casa torinese. La cui analisi parte dalla metà del ‘98, quando Cesare Romiti lasciò la guida del gruppo. All’epoca, era stata portata a termine la ristrutturazione dell’azienda, avviata all’indomani della “marcia dei Quarantamila” e attuata col ridimensionamento delle maestranze e con un’ulteriore automazione degli impianti; era stata risistemata l’Alfa, nel senso che si sarebbe distrutto un marchio che aveva fatto dire a Ford (si legga la sua autobiografia): «Quando passa un’Alfa Romeo, giù il cappello!»; dal ‘94 aveva cominciato a funzionare la “fabbrica integrata” di Melfi; si suffragava il post-fordismo; si ridefiniva la cultura dell’impresa all’insegna della “qualità totale”.
Ma intanto se n’era andato via, alla fine dell’88, Vittorio Ghidella, a giudizio di molti il più idoneo a combinare nel modo migliore il sistema di produzione “alla giapponese” e la valorizzazione del capitale umano in termini di maggiore professionalità e partecipazione. Era stato lui l’artefice di un’auto di gran successo (la “Uno”) e di una serie di vetture che avevano rinnovato la filiera della scuderia; e a lui risaliva la paternità sia di un ottimo motore (il “Fire”) sia del progetto per «un nuovo modo di produrre e di vendere» che garantisse «qualità crescente, volumi costanti e costi decrescenti». Ghidella, dal ‘79 a capo del settore auto, che aveva assicurato rilevanti profitti alla holding (sganciandola persino dai banchieri di Gheddafi), avrebbe voluto che si creasse una sorta di “Fiat due”, aggregazione sotto un’unica insegna e sotto la sua esclusiva direzione di tutte le attività inerenti ai motori e al trasporto su gomma, cioè a qualcosa come l’80 per cento del fatturato del gruppo. Ciò, per dar vita a una mega-impresa in grado di scavalcare Volkswagen e Renault, colossi europei.

Fatale la rotta di collisione con Romiti. Non a caso a Corso Marconi si intendeva sfruttare gli utili della produzione automobilistica per creare una conglomerata di altre sfere di attività e di partecipazioni (chimica, telecomunicazioni, armamenti, assicurazioni, servizi finanziari e immobiliari, terziario avanzato). La visione “gruppo-centrica” romitiana ebbe la meglio su quella “auto-centrica” dell’antagonista sulla base di un calcolo preciso: accrescere posizioni di forza e ascendente della Fiat, che, grazie alle risorse rastrellate e all’aiuto di Mediobanca, avrebbe potuto comprare tutto quel che voleva nell’ambito di un sistema industriale sottocapitalizzato come quello italiano.
Certamente, due anni dopo l’uscita dell’ingegner Ghidella, fu la crisi abbattutasi nel ‘90 sull’impresa auto di mezzo mondo a scompaginare i disegni espansionistici di Corso Marconi. Va sottolineato tuttavia che le aziende europee, avendo continuato a concentrarsi sul “core business”, erano riuscite a reggere meglio l’impatto della recessione. Per Fiat, invece, i contraccolpi furono così pesanti da provocare – come disse Umberto Agnelli, in polemica con Romiti – «cadute della nostra quota auto che non hanno precedenti», e perciò «un livello di redditività operativa forse il più basso nella storia del gruppo e un ritmo di assorbimento di liquidità impressionante». L’avvocato tagliò corto: – La festa è finita –.
Per riportare l’azienda in carreggiata non bastarono la cassa integrazione di volta in volta sino alla metà degli operai e dei colletti bianchi, né la considerevole riduzione della produzione, né il soccorso delle banche con ampie aperture di credito.
Per ricapitalizzare il gruppo, nel ‘93 si ricorse a Mediobanca: Cuccia impose, in cambio di un intervento risolutivo, la rinuncia di Umberto Agnelli alla successione al fratello e un patto di sindacato vincolante per la famiglia, suscitando l’impressione che l’ammiraglia del capitalismo italiano, da monarchia ereditaria, si sarebbe trasformata una volta o l’altra in una public company sotto l’egida di una potente banca d’affari.
In realtà, non si espropriò la sovranità degli Agnelli, ma si rafforzarono le prerogative del top management, che mirava alle innovazioni di processo, alla riduzione dei costi di produzione, all’eliminazione delle residue rigidità sindacali in fatto di organizzazione del lavoro, al taglio dei tempi di lavorazione. Strategia, questa, che però comportava l’impegno di ingenti risorse e una gestazione complessa. Di fatto, dopo l’uscita nel ‘94 di otto modelli (tra Fiat, Alfa e Lancia), la progettazione per le categorie minori e medie subì una flessione. E se nel ‘96 e ‘97 i conti chiusero con qualche profitto, in buona misura dipese dalla cessione di una società di fondi d’investimento alle Generali, dal piazzamento di un terzo del capitale della New Holland a Wall Street, e dagli incentivi assistenziali per la rottamazione.
In ogni caso, il compito che Fresco e Cantarella ereditarono da Romiti era arduo, poiché si doveva conseguire una “soglia di sicurezza” (una produzione annua di almeno tre milioni di auto) con un fatturato da realizzare per un terzo in Italia, un terzo nel resto d’Europa e un altro terzo fuori dal Vecchio Continente. Ciò, in presenza di una forte aggressività giapponese e sud-coreana e di una forte concorrenza tedesca e francese. In breve, vennero al pettine tutti i nodi irrisolti: dal ‘95 in poi la Fiat aveva investito sull’auto molto meno dei principali concorrenti e non si era adeguatamente attrezzata per ampliare la sua presenza sui mercati maturi, sebbene disponesse di marchi nobili, di ottime capacità tecniche e di una consistente rete distributiva.
A dare il colpo di grazia, sopraggiunsero le delusioni subìte nell’Est europeo e in America Latina, nell’Africa del Nord e nel Sud-Est asiatico, oltre alle crisi finanziarie in Russia, in Brasile e fra le “Tigri” estremo-orientali, e oltre alla concorrenza europea, con produzioni di piccola cilindrata, le stesse con le quali una volta la Fiat si era aperta i varchi nei mercati mondiali.
Si spiega così la necessità dell’alleanza strategica stipulata due anni fa con General Motors. E tuttavia a Torino si erano accumulati tali e tanti fardelli, dovuti a errori di valutazione e di fatto e a incapacità predittiva sul piano delle strategie del management, che soltanto l’operazione di salvataggio messa a punto dalle banche a metà dell’anno scorso evitò il collasso.

Chi pagherà il conto? Sicuramente lo Stato, cioè i cittadini, e non certo per ragioni di strategia industriale. Facciamo un po’ di conti. Gli “esuberi” di Arese, Cassino, Termini Imerese e Torino avranno diritto, tra Cassa integrazione e mobilità, a una retribuzione pari all’80 per cento del loro ultimo stipendio (fino ad un massimo di circa 900 euro) per 24 mesi. Dopodiché, se con più di 40 anni, potranno fruire per un altro anno (due anni, nel caso degli over-50) di un sussidio pari al 60 per cento dell’ultima retribuzione. Per i lavoratori meridionali si può estendere la durata del sussidio di altri 12 mesi. A questo punto, o un nuovo lavoro, o la più atroce povertà, semmai attenuata dal lavoro nero.
A meno che. Nel senso che in Italia esiste sempre una via di fuga verso istituti così costosi che sono accessibili a pochi: è la cosiddetta “mobilità lunga”, che garantisce ai lavoratori privilegiati la possibilità di essere sussidiati fino all’andata in pensione. Non è dato conoscere le condizioni per accedervi: le regole d’accesso sono decise di volta in volta dal governo, sono dunque di natura politico-sociale, e determinano in alcuni spiriti critici la legittima suspicione delle compromissioni (altri dicono: dei ricatti) incrociate fra governo e grandi imprese.

Costo della mobilità lunga: elevatissimo. Solo per Termini Imerese, che ha manodopera relativamente giovane, potrebbe superare i 225 milioni di euro. Con l’indotto, che ha operai pagati di meno, un migliaio, si aggiungono altri 150 milioni di euro. Ad Arese, Cassino e Torino, mobilità più breve, perché i lavoratori più anziani sono stati “rottamati”, cioè licenziati fra luglio e settembre: 2.887 nella casa-madre, 575 in altre società del gruppo. Contando anche un terzo dei costi delle pensioni di anzianità (circa il 30 per cento degli aventi diritto non vi accede), il costo-esuberi è vicino ai 600 milioni di euro.
Nota Tito Boeri, citando «profondi conoscitori» della Fiat: l’ex amministratore delegato, Cantarella, ha percepito una liquidazione pari a 20 milioni di euro, come dire una cifra uguale a quattro mesi di stipendio per i 1.800 esuberi di Termini Imerese; fonti attendibili valutano la liquidazione di Romiti al di sopra dei 100 milioni di euro, poco meno della metà del costo della mobilità lunga nello stabilimento siciliano. Stabilimento che il presidente della Regione Piemonte vorrebbe chiuso, punto e basta, dal momento che il Dna della Fiat sarebbe tutto torinese; dimenticando, come ha precisato il presidente della Regione Sicilia, che «le dimensioni e il ruolo che la Fiat ha conquistao negli ultimi decenni sono il frutto di un processo sociale e imprenditoriale complesso nel quale ha inciso in modo determinante la risorsa umana e professionale espressa da tante generazioni di lavoratori meridionali». E non solo risorse umane e professionali, anche quattrini, tanti che Cossiga il sassolino dalla scarpa se l’è tolto: la Fiat, privatizzando i guadagni e socializzando – cioè scaricando sui cittadini – le perdite, è stata di fatto un’impresa eternamente assistita, tant’è che lo Stato può comprarla senza tentennamenti al prezzo simbolico di un solo euro. Ed è stato proprio questo costante assistenzialismo ad impigrire fino all’anoressia progettuale tante imprese italiane di grandi dimensioni, quasi sempre assenti, ha detto il presidente della Commissione europea, Prodi, quando a Bruxelles si trattava per la realizzazione di importanti opere infrastrutturali e produttive.
Il mortifero pseudo-solidarismo, che è stato praticato per decenni nel nome di una concezione statolatrica dell’economia, ha finito col mortificare la cultura d’impresa; ha condizionato ricerca, sviluppo e innovazione; ha scaricato i costi di una retorica demagogica e balorda sui giovani del Sud, disoccupati strutturali in un territorio in disfacimento sociale che – come è stato scritto – si combina bene col potere immarcescibile dei cartelli del crimine.

La Fiat fu? Così sia. Come per qualunque altra azienda, l’accanimento terapeutico per tenere in vita imprese senza più futuro trascina nel buco nero del debito pubblico l’intera Italia, e soprattutto il Mezzogiorno. Anziché prolungare lo stato terminale di tali imprese, si paghi, o si svenda, o si chiudano i battenti. E, fatto salvo il principio secondo cui nessuno va abbandonato alla disperazione sociale, per contrappasso compensativo si creino posti di lavoro veri, con un sistema industriale che ampli e innovi la base produttiva del Sud. È qui che deve intervenire lo Stato, insieme con le Regioni e con l’UE; ed è in questo contesto che devono agire i sindacati, che da oltre mezzo secolo garantiscono i garantiti, sulla pelle dei disoccupati, dei giovani, dei meridionali.

Si può dirlo senza spirito di rivalsa, e meno che mai di vendetta: o si punta sul Sud, o si arretra tutti nel futuro; o si realizzano nel Mezzogiorno nuovi settori produttivi, o tramonteremo nell’orizzonte industriale europeo e globale; o si agisce separando Stato e mercato, oppure la carità pubblica che maschera e ritarda fallimenti di grandi imprese che sono state vere e proprie macchine mangiasoldi ci trascinerà nelle retrovie continentali, a ridosso delle aree a sviluppo vischioso. Le due velocità dell’economia italiana, che fino ad oggi hanno consentito di chiudere i buchi, e in alcune circostanze anche le voragini di certe imprese private (nel senso di protette), sono ormai indifendibili. Dovrebbe essere ormai lampante che il mercato rifiuta l’assistenzialismo, e che il trasformismo ha fatto il suo tempo. Sarebbe strabiliante se si procedesse ancora con le callide – e logore – regole del passato, anche recente.

   
   
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