Chi pagherà
il conto?
Sicuramente lo Stato, cioè i cittadini,
e non certo per
ragioni di strategia industriale.
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Intorno alla metà degli anni Sessanta, Raymond Cartier,
colto caporedattore del settimanale Paris Match, selezionata una
mole impressionante di dati e informazioni, pubblicò il volume
Le 19 Europe, sintesi di unindagine storico-economica
condotta in presa diretta in tutte le nazioni del Vecchio Continente.
E in quelle pagine, citando fra i centri vitali italiani la maggiore
impresa privata che sfornava automobili impiegando decine di migliaia
di maestranze, saldate da un orgoglioso spirito di appartenenza,
scrisse: Fiat, dal nome mirabile! . Ne percepiva, evidentemente,
la potenza creativa, e quasi sacrale, riassunta in un logo abbagliante
nato in un bar torinese, ad opera di tre azionisti mi pare
, poi diventati uno solo, dal cognome consegnato alla storia
non soltanto economica della Penisola: Agnelli.
Anni fervidi, quelli del decennio 60. Cera stato il
Centenario dellUnità. Era in corso il boom. Il nostro
design trionfava ai Saloni di Parigi e di Ginevra. Il capoluogo
piemontese attirava unimmigrazione interna caotica e stracciona,
materia muscolare e materia grigia dirette in gran parte a Corso
Marconi, casa-madre, e negli immediati dintorni occupati dallindotto,
alla ricerca dellantico miraggio di un salario fisso. La concorrenza
del Giappone e della Corea era di là da venire. Sulle coste
italiane non sbarcavano clandestini, approdavano gli yacht di Onassis
e dellAgha Khan, di Faruk provvisorio re dEgitto attratto
dalla dolce vita di Via Veneto e del re di Svezia appassionato darcheologia
etrusca. Nelle fabbriche dellItalia del Nord trionfavano il
fordismo delle catene automatiche di produzione, il fascino della
tuta blu e il costo compresso del lavoro. La lira veniva da un glorioso
Oscar. Il frigo e il televisore diventavano beni di consumo di massa.
Le rimesse interne e dallestero sostenevano edilizia e artigianato.
Giulio Natta vinceva il Nobel per la chimica. La pubblicità
di una rampante azienda di elettrodomestici dal nome regale precisava:
Tutto questo non nasce dal nulla! . Tutto quello, e
altro ancora, nascevano da popoli di formiche che mutavano pelle,
trasformando dal basso una società italiana che era ancora
provinciale e passatista. La Penisola restava anchilosata, con economia
dualistica. Comunque in progress, sia pure a velocità divaricate.
Punte di diamante dellimpresa nel Sud, i centri siderurgici
e petrolchimici, di mano pubblica; nel Nord, la meccanica, lelettrotecnica,
la gomma, lauto e quantaltro emerso per mano privata,
o data per tale. Al vertice della piramide, orgoglio del Paese e
di una Grande Famiglia, la Fabbrica italiana automobili di Torino.
Lonnipotente, mirabile Fiat.
Quattro decenni dopo, anno più, anno meno. La Fiat fu. E
sono in molti a chiedersi quali siano stati i motivi di fondo che
hanno determinato la parabola declinante, sfociata in una crisi
drammatica. Fra tutti, Valerio Castronovo, autorevole storico della
Casa torinese. La cui analisi parte dalla metà del 98,
quando Cesare Romiti lasciò la guida del gruppo. Allepoca,
era stata portata a termine la ristrutturazione dellazienda,
avviata allindomani della marcia dei Quarantamila
e attuata col ridimensionamento delle maestranze e con unulteriore
automazione degli impianti; era stata risistemata lAlfa, nel
senso che si sarebbe distrutto un marchio che aveva fatto dire a
Ford (si legga la sua autobiografia): «Quando passa unAlfa
Romeo, giù il cappello!»; dal 94 aveva cominciato
a funzionare la fabbrica integrata di Melfi; si suffragava
il post-fordismo; si ridefiniva la cultura dellimpresa allinsegna
della qualità totale.
Ma intanto se nera andato via, alla fine dell88, Vittorio
Ghidella, a giudizio di molti il più idoneo a combinare nel
modo migliore il sistema di produzione alla giapponese
e la valorizzazione del capitale umano in termini di maggiore professionalità
e partecipazione. Era stato lui lartefice di unauto
di gran successo (la Uno) e di una serie di vetture
che avevano rinnovato la filiera della scuderia; e a lui risaliva
la paternità sia di un ottimo motore (il Fire)
sia del progetto per «un nuovo modo di produrre e di vendere»
che garantisse «qualità crescente, volumi costanti
e costi decrescenti». Ghidella, dal 79 a capo del settore
auto, che aveva assicurato rilevanti profitti alla holding (sganciandola
persino dai banchieri di Gheddafi), avrebbe voluto che si creasse
una sorta di Fiat due, aggregazione sotto ununica
insegna e sotto la sua esclusiva direzione di tutte le attività
inerenti ai motori e al trasporto su gomma, cioè a qualcosa
come l80 per cento del fatturato del gruppo. Ciò, per
dar vita a una mega-impresa in grado di scavalcare Volkswagen e
Renault, colossi europei.

Fatale la rotta di collisione con Romiti. Non a caso a Corso Marconi
si intendeva sfruttare gli utili della produzione automobilistica
per creare una conglomerata di altre sfere di attività e
di partecipazioni (chimica, telecomunicazioni, armamenti, assicurazioni,
servizi finanziari e immobiliari, terziario avanzato). La visione
gruppo-centrica romitiana ebbe la meglio su quella auto-centrica
dellantagonista sulla base di un calcolo preciso: accrescere
posizioni di forza e ascendente della Fiat, che, grazie alle risorse
rastrellate e allaiuto di Mediobanca, avrebbe potuto comprare
tutto quel che voleva nellambito di un sistema industriale
sottocapitalizzato come quello italiano.
Certamente, due anni dopo luscita dellingegner Ghidella,
fu la crisi abbattutasi nel 90 sullimpresa auto di mezzo
mondo a scompaginare i disegni espansionistici di Corso Marconi.
Va sottolineato tuttavia che le aziende europee, avendo continuato
a concentrarsi sul core business, erano riuscite a reggere
meglio limpatto della recessione. Per Fiat, invece, i contraccolpi
furono così pesanti da provocare come disse Umberto
Agnelli, in polemica con Romiti «cadute della nostra
quota auto che non hanno precedenti», e perciò «un
livello di redditività operativa forse il più basso
nella storia del gruppo e un ritmo di assorbimento di liquidità
impressionante». Lavvocato tagliò corto:
La festa è finita .
Per riportare lazienda in carreggiata non bastarono la cassa
integrazione di volta in volta sino alla metà degli operai
e dei colletti bianchi, né la considerevole riduzione della
produzione, né il soccorso delle banche con ampie aperture
di credito.
Per ricapitalizzare il gruppo, nel 93 si ricorse a Mediobanca:
Cuccia impose, in cambio di un intervento risolutivo, la rinuncia
di Umberto Agnelli alla successione al fratello e un patto di sindacato
vincolante per la famiglia, suscitando limpressione che lammiraglia
del capitalismo italiano, da monarchia ereditaria, si sarebbe trasformata
una volta o laltra in una public company sotto legida
di una potente banca daffari.
In realtà, non si espropriò la sovranità degli
Agnelli, ma si rafforzarono le prerogative del top management, che
mirava alle innovazioni di processo, alla riduzione dei costi di
produzione, alleliminazione delle residue rigidità
sindacali in fatto di organizzazione del lavoro, al taglio dei tempi
di lavorazione. Strategia, questa, che però comportava limpegno
di ingenti risorse e una gestazione complessa. Di fatto, dopo luscita
nel 94 di otto modelli (tra Fiat, Alfa e Lancia), la progettazione
per le categorie minori e medie subì una flessione. E se
nel 96 e 97 i conti chiusero con qualche profitto, in
buona misura dipese dalla cessione di una società di fondi
dinvestimento alle Generali, dal piazzamento di un terzo del
capitale della New Holland a Wall Street, e dagli incentivi assistenziali
per la rottamazione.
In ogni caso, il compito che Fresco e Cantarella ereditarono da
Romiti era arduo, poiché si doveva conseguire una soglia
di sicurezza (una produzione annua di almeno tre milioni di
auto) con un fatturato da realizzare per un terzo in Italia, un
terzo nel resto dEuropa e un altro terzo fuori dal Vecchio
Continente. Ciò, in presenza di una forte aggressività
giapponese e sud-coreana e di una forte concorrenza tedesca e francese.
In breve, vennero al pettine tutti i nodi irrisolti: dal 95
in poi la Fiat aveva investito sullauto molto meno dei principali
concorrenti e non si era adeguatamente attrezzata per ampliare la
sua presenza sui mercati maturi, sebbene disponesse di marchi nobili,
di ottime capacità tecniche e di una consistente rete distributiva.
A dare il colpo di grazia, sopraggiunsero le delusioni subìte
nellEst europeo e in America Latina, nellAfrica del
Nord e nel Sud-Est asiatico, oltre alle crisi finanziarie in Russia,
in Brasile e fra le Tigri estremo-orientali, e oltre
alla concorrenza europea, con produzioni di piccola cilindrata,
le stesse con le quali una volta la Fiat si era aperta i varchi
nei mercati mondiali.
Si spiega così la necessità dellalleanza strategica
stipulata due anni fa con General Motors. E tuttavia a Torino si
erano accumulati tali e tanti fardelli, dovuti a errori di valutazione
e di fatto e a incapacità predittiva sul piano delle strategie
del management, che soltanto loperazione di salvataggio messa
a punto dalle banche a metà dellanno scorso evitò
il collasso.
Chi pagherà il conto? Sicuramente lo Stato, cioè
i cittadini, e non certo per ragioni di strategia industriale. Facciamo
un po di conti. Gli esuberi di Arese, Cassino,
Termini Imerese e Torino avranno diritto, tra Cassa integrazione
e mobilità, a una retribuzione pari all80 per cento
del loro ultimo stipendio (fino ad un massimo di circa 900 euro)
per 24 mesi. Dopodiché, se con più di 40 anni, potranno
fruire per un altro anno (due anni, nel caso degli over-50) di un
sussidio pari al 60 per cento dellultima retribuzione. Per
i lavoratori meridionali si può estendere la durata del sussidio
di altri 12 mesi. A questo punto, o un nuovo lavoro, o la più
atroce povertà, semmai attenuata dal lavoro nero.
A meno che. Nel senso che in Italia esiste sempre una via di fuga
verso istituti così costosi che sono accessibili a pochi:
è la cosiddetta mobilità lunga, che garantisce
ai lavoratori privilegiati la possibilità di essere sussidiati
fino allandata in pensione. Non è dato conoscere le
condizioni per accedervi: le regole daccesso sono decise di
volta in volta dal governo, sono dunque di natura politico-sociale,
e determinano in alcuni spiriti critici la legittima suspicione
delle compromissioni (altri dicono: dei ricatti) incrociate fra
governo e grandi imprese.

Costo della mobilità lunga: elevatissimo. Solo per Termini
Imerese, che ha manodopera relativamente giovane, potrebbe superare
i 225 milioni di euro. Con lindotto, che ha operai pagati
di meno, un migliaio, si aggiungono altri 150 milioni di euro. Ad
Arese, Cassino e Torino, mobilità più breve, perché
i lavoratori più anziani sono stati rottamati,
cioè licenziati fra luglio e settembre: 2.887 nella casa-madre,
575 in altre società del gruppo. Contando anche un terzo
dei costi delle pensioni di anzianità (circa il 30 per cento
degli aventi diritto non vi accede), il costo-esuberi è vicino
ai 600 milioni di euro.
Nota Tito Boeri, citando «profondi conoscitori» della
Fiat: lex amministratore delegato, Cantarella, ha percepito
una liquidazione pari a 20 milioni di euro, come dire una cifra
uguale a quattro mesi di stipendio per i 1.800 esuberi di Termini
Imerese; fonti attendibili valutano la liquidazione di Romiti al
di sopra dei 100 milioni di euro, poco meno della metà del
costo della mobilità lunga nello stabilimento siciliano.
Stabilimento che il presidente della Regione Piemonte vorrebbe chiuso,
punto e basta, dal momento che il Dna della Fiat sarebbe tutto torinese;
dimenticando, come ha precisato il presidente della Regione Sicilia,
che «le dimensioni e il ruolo che la Fiat ha conquistao negli
ultimi decenni sono il frutto di un processo sociale e imprenditoriale
complesso nel quale ha inciso in modo determinante la risorsa umana
e professionale espressa da tante generazioni di lavoratori meridionali».
E non solo risorse umane e professionali, anche quattrini, tanti
che Cossiga il sassolino dalla scarpa se lè tolto:
la Fiat, privatizzando i guadagni e socializzando cioè
scaricando sui cittadini le perdite, è stata di fatto
unimpresa eternamente assistita, tantè che lo
Stato può comprarla senza tentennamenti al prezzo simbolico
di un solo euro. Ed è stato proprio questo costante assistenzialismo
ad impigrire fino allanoressia progettuale tante imprese italiane
di grandi dimensioni, quasi sempre assenti, ha detto il presidente
della Commissione europea, Prodi, quando a Bruxelles si trattava
per la realizzazione di importanti opere infrastrutturali e produttive.
Il mortifero pseudo-solidarismo, che è stato praticato per
decenni nel nome di una concezione statolatrica delleconomia,
ha finito col mortificare la cultura dimpresa; ha condizionato
ricerca, sviluppo e innovazione; ha scaricato i costi di una retorica
demagogica e balorda sui giovani del Sud, disoccupati strutturali
in un territorio in disfacimento sociale che come è
stato scritto si combina bene col potere immarcescibile dei
cartelli del crimine.

La Fiat fu? Così sia. Come per qualunque altra azienda,
laccanimento terapeutico per tenere in vita imprese senza
più futuro trascina nel buco nero del debito pubblico lintera
Italia, e soprattutto il Mezzogiorno. Anziché prolungare
lo stato terminale di tali imprese, si paghi, o si svenda, o si
chiudano i battenti. E, fatto salvo il principio secondo cui nessuno
va abbandonato alla disperazione sociale, per contrappasso compensativo
si creino posti di lavoro veri, con un sistema industriale che ampli
e innovi la base produttiva del Sud. È qui che deve intervenire
lo Stato, insieme con le Regioni e con lUE; ed è in
questo contesto che devono agire i sindacati, che da oltre mezzo
secolo garantiscono i garantiti, sulla pelle dei disoccupati, dei
giovani, dei meridionali.
Si può dirlo senza spirito di rivalsa, e meno che mai di
vendetta: o si punta sul Sud, o si arretra tutti nel futuro; o si
realizzano nel Mezzogiorno nuovi settori produttivi, o tramonteremo
nellorizzonte industriale europeo e globale; o si agisce separando
Stato e mercato, oppure la carità pubblica che maschera e
ritarda fallimenti di grandi imprese che sono state vere e proprie
macchine mangiasoldi ci trascinerà nelle retrovie continentali,
a ridosso delle aree a sviluppo vischioso. Le due velocità
delleconomia italiana, che fino ad oggi hanno consentito di
chiudere i buchi, e in alcune circostanze anche le voragini di certe
imprese private (nel senso di protette), sono ormai indifendibili.
Dovrebbe essere ormai lampante che il mercato rifiuta lassistenzialismo,
e che il trasformismo ha fatto il suo tempo. Sarebbe strabiliante
se si procedesse ancora con le callide e logore regole
del passato, anche recente.
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