Marzo 2003

L’ALTRA STORIA

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Il predescubrimiento
dell’America
Ada Provenzano - Ferruccio De Martino
 
 

 

 

Dalle ricerche sono sbucate altre mappe dello stesso periodo servite in seguito
quali guide per gli “scopritori ufficiali”, a coronamento
di una clamorosa beffa storica.

 

E’ stato scoperto nell’ottobre 2001 al largo delle coste panamensi, su segnalazione di alcuni pescatori che avevano trovato palle di cannone sulla spiaggia di Dama, presso il porto panamense di Nombre de Dios e all’antica Portobello: il relitto è ciò che resta di una delle caravelle di Cristoforo Colombo, “La Vizcaina” (La Biscaglina), la più piccola tra quelle che utilizzò nel suo quarto e ultimo viaggio e la prima mai scoperta al mondo. Non è lontano dalla costa, a sei metri di profondità: una nave fatta di tavole fissate tra loro da perni in legno e non in ferro, proprio come i vascelli colombiani; calafatata con catrame e perciò costruita senza dubbio prima del 1508, quando un decreto reale spagnolo aveva stabilito che tutte le navi dovevano essere ricoperte di piombo per proteggersi dalle teredini, i terribili molluschi che distruggono gli scafi in legno. E’ ciò che accadde all’esploratore.

Nell’aprile 1503 Colombo, abbandonata la foce del Rio Belen dove aveva già perso una caravella, la “Gallega” (Galiziana), per un attacco degli indigeni Guaymi, decise di abbandonare le esplorazioni e di far ritorno a Cuba. Ma la Vizcaina aveva ormai la carena perforata dalle teredini. Non c’era scelta: fu spogliata di tutto e abbandonata «nella baia di Porto Bello», come scrisse nel diario Fernando, il figlio di Colombo, durante l’ultima spedizione. E lì è stata ritrovata. Ci racconterà molte cose sulle caravelle. Ma intanto – al di là dell’interesse degli archeologi – la scoperta è servita a riaccendere le polemiche sui misteri che hanno accompagnato da sempre il nome di Colombo e la vicenda della scoperta dell’America.

Il vero scopritore dell’America aveva un cognome con dittongo, gli occhi a mandorla, una lunghissima e sottile barba pendente sulla tunica? L’ipotesi non è nuova, ma fa sempre un certo effetto. Già Robert Cewley, in un saggio di storia virtuale, parlava di scoperta dell’America da parte dei cinesi in anticipo sugli europei. Poi è venuto 1421 - La Cina scopre l’America, di Gavin Menzies, e la sorpresa è enorme. A scoprire il Continente Nuovo sarebbero stati proprio i navigatori cinesi, una settantina d’anni prima di Colombo; e se non resta traccia del loro sbarco, è stato per via dei rivolgimenti interni alla Cina dell’epoca, che annullarono ogni spinta espansionistica e bloccarono lo sviluppo dei primi insediamenti provvisori, preludio di durature colonizzazioni.

Sorpresa, certamente, e anche sgomento. Come restare insensibili, scoprendo che un nonnulla avrebbe potuto rovesciare la storia e rovesciare le nostre consolidate certezze? Americhe non cristiane ma buddiste, non anglofoni ma depositari di remoti ideogrammi, con una “Nuova Pechino” al posto di una “Nuova York”, con un quartiere inglese al posto della Chinatown di una San Francisco chiamata magari “Shao Lin”?
Lo studio è serio. Lasciato il comando dei sottomarini, l’autore si è avvalso dell’esperienza nautica (cartografia, astronomia, studio delle correnti) per cercare prove e documentazioni viaggiando in 120 Paesi e visitando più di 900 musei e biblioteche. Il risultato non riguarda solo l’America, ma finisce per mettere in dubbio, percorrendo tutti i mari solcati dalle navi degli imperatori Ming, molte cognizioni storiche e geografiche che noi – italiani, portoghesi, spagnoli, inglesi – diamo orgogliosamente per scontate. Veniamo a sapere, così, che nella prima parte del 1400 la flotta cinese avrebbe raggiunto anche l’Australia (350 anni prima di Cook), adottato il sistema di misurazione della longitudine (con tre secoli di anticipo), doppiato il Capo di Buona Speranza (oltre 70 anni prima di Bartolomeo Dias e Vasco de Gama), attraversato lo Stretto di Magellano e circumnavigato il globo (addirittura 60 anni prima che nascesse Magellano).
Per inciso, sarebbe interessante condurre studi approfonditi su quanto emerge da tradizioni scritte oppure orali, e su scoperte archeologiche rimaste senza risposte, grazie alle quali sospettiamo non senza fondamento che i Romani giunsero in Messico nel 200 d. C., gli islandesi toccarono la costa americana nel 985, i vichinghi raggiunsero gli Stati Uniti tra l’VIII e l’XI secolo, i groenlandesi sbarcarono in Canada nel Mille...
Ma riprendiamo il filo del discorso che precede l’inciso. La ricostruzione della scoperta cinese è partita dal ritrovamento di una mappa del cartografo veneziano Zuane Pizzigano in cui compaiono due isole, nella zona caraibica, che corrisponderebbero a Portorico e Guadalupa. Ma come è possibile, se la data segnata (e autentica) risulta il 1424? Menzies ipotizza che sia stato un mercante al rientro dall’Oriente a portare quelle informazioni, già acquisite sul campo dai cinesi, che in Europa sarebbero dovute restare sconosciute fin quasi alla fine del secolo. E dalle ricerche sono sbucate altre mappe dello stesso periodo, giunte probabilmente per la stessa via in Portogallo e in Spagna e servite in seguito quali guide per gli “scopritori ufficiali”, a coronamento di una clamorosa beffa storica.

La potentissima flotta guidata dall’ammiraglio eunuco Zheng He compì le ultime spedizioni tra il 1421 e il 1423, ma in Cina non ne è rimasta traccia perché, quando i vascelli fecero ritorno, il Paese era caduto in totale isolazionismo: niente nuove partenze, proibito il varo di altre navi, bandita la libertà di commercio con l’estero. Tutti i documenti, rapporti, diari, rilevamenti, distrutti per legge. I segni del transito cinese, pertanto, andavano ricercati altrove, ai quattro punti cardinali. Per esempio, attraverso le testimonianze di visitatori successivi (vi trovarono seta e porcellane?), gli strani trasferimenti di animali e piante (polli asiatici in America, coltivazioni precoci di riso), la ricerca di lapidi, incisioni, vestigia di relitti adagiati in fondo agli oceani (ben sette, con i loro segreti, giacciono sui fondali vicini alle coste della Florida). E’ nato da tutto questo il reticolo che ha consentito a Menzies di tracciare il complicato itinerario cinese, insieme con la sapienza marinara che ha considerato i venti che avrebbero sospinto le vele quadre della flotta, le correnti che ne avrebbero condizionato il cammino, la meteorologia stagionale, il rischio di incidenti, i tempi di navigazione, di approvvigionamento, di eventuali riparazioni.

Torniamo alla “scoperta ufficiale”. E anche in questo caso le sorprese non mancano. Cristoforo Colombo “scoprì” l’America nel 1485. Un’affermazione gratuita? Veridica, alla luce di studi recenti e di una carta del 1513 che costituisce un rebus per gli specialisti di tutto il mondo dal momento in cui fu scoperta, nel 1929, dal direttore dei Musei Nazionali turchi. La carta è custodita, anzi blindata al Topkapi di Istanbul, dove nessuno può praticamente consultarla, quasi sia un segreto di Stato. E’ la celebre carta di Piri Reis, nella quale compaiono regioni che sarebbero state scoperte secoli dopo, a cominciare dalle possibili coste di un’Antartide riprodotta in una fase preglaciale, quando si trovava in una posizione diversa da quella attuale e il suo clima era temperato: una terra antartica talmente precisa e vista in prospezione aerea, come se fosse stata mappata dall’alto, da scatenare la fantasia degli ufologi e degli investigatori delle civiltà perdute. Anche se giunta a noi incompiuta, in quella carta figurano le terre della scoperta colombiana. Nella lunga didascalia che l’accompagna, Piri Reis ha scritto:
Queste coste si chiamano litorale di Antilya. Sono state scoperte nell’anno 890 dell’era araba (1485). E si racconta che un infedele di Genova, chiamato Colombo, ha scoperto queste contrade. Cadde cioè fra le mani di Colombo un libro in cui apprese che ai confini del Mare d’Occidente, cioè ad ovest, esistevano delle coste e delle isole, ogni genere di miniere e anche pietre preziose. Colombo era un grande astronomo (“muneccim”). I litorali e le coste che figurano su questa carta sono presi dalla carta di Colombo... Nessuno nel secolo presente possiede una carta simile a questa, elaborata e disegnata dall’umile sottoscritto (“bu fakir”). La presente carta è il prodotto degli studi comparativi e deduttivi fatti su venti carte e mappamondi, fra cui una prima carta risalente all’epoca di Alessandro Magno comprendente tutta l’ecumene, tipo di carta che gli Arabi chiamano “ca’ feriyye”... e infine una carta di Colombo elaborata per l’emisfero occidentale.

La traduzione è di Alessandro Bausani, celebre studioso scomparso, che nell’introduzione all’opera più importante di Piri Reis, Kitab-ì Bahriyye, presentata a Suleyman (il Magnifico Solimano) nel 1526-‘27, sostiene che anche in questo libro si accenna alla carta di Colombo, e aggiunge: «E’ cosa singolare, data l’importanza di quest’opera, che essa non sia stata finora né scientificamente edita né tradotta nella sua interezza». E lascia esterrefatti l’affermazione di Bausani, là dove sostiene una «prescoperta» dell’America da parte di Colombo, riferita al 1485, quando la data fatidica del primo approdo è il fin troppo noto 12 ottobre 1492. Prescoperta confermata anche da uno studio francese datato Istanbul 1935. Anche in questo caso si parla dell’anno arabo 890. Colombo, dunque, sarebbe sbarcato in terra americana con sette anni di anticipo rispetto alla data ufficiale dell’impresa.
Il che potrebbe spiegare molte cose finora rimaste nel campo delle congetture. A cominciare dal famoso “predescubrimiento” che molti storici ipotizzano, quando si chiedono: come fece Colombo, su una rotta mai percorsa, a indovinare in andata e ritorno i venti, le correnti e tutto il resto; come mai non finì contro le barriere coralline? Nel primo viaggio Colombo procedette nell’Atlantico come su un’autostrada. Come fece a non sbagliare mai? Al punto che qualcuno, all’epoca, lo definì uno sciamano e uno stregone! Va aggiunto che quando gli equipaggi delle caravelle prepararono una sedizione per costringere il navigatore a prendere la via del ritorno, visto che il viaggio nell’ignoto sembrava non avesse sbocchi, Colombo offrì la sua testa in cambio di altri tre giorni di rotta verso ovest. Ed esattamente tre giorni dopo comparve all’orizzonte San Salvador. La certezza dell’approdo avvenne in piena notte. Colombo, per non correre rischi, come se conoscesse le insidie di quei mari e di quelle terre, ordinò che si attendesse per lo sbarco la mattina del 12 ottobre. Erano il giorno e il mese in cui, nel 1307, Filippo il Bello fece scattare in Francia, sotto il pontificato di Clemente V, lo sterminio dei Templari. Coincidenza di ricorrenza da tener presente, visto che il navigatore proprio dei Templari venne ritenuto erede e, in quanto tale, a suo modo “crociato”.

Parliamo di Giovanni Battista Cybo, greco-genovese che era stato anche vescovo di Molfetta, prima di essere eletto al soglio pontificio con il nome di Innocenzo VIII, nel 1484, restandovi fino al 1492, quando una morte quasi certamente non naturale lo colse, alla vigilia del varo dell’impresa colombiana, aprendo una successione che avrebbe portato all’avvento di Alessando VI, quel Borgia spagnolo che insieme con i re di Spagna, Isabella e Ferdinando, cambiò il corso della storia, e soprattutto la verità della storia. Dissoluto in gioventù (ebbe diversi figli), passato alla storia per accordi moralmente riprovevoli e trattati politici umilianti con l’Impero Ottomano, e per la bolla “Summis desiderantes affectibus” che rinfocolò la superstiziosa credenza di demoni e di streghe, dando insolito sviluppo ai processi per stregoneria nel nome del famigerato manuale di casistica per le procedure, il funesto “Maglio delle streghe” (Malleus maleficarum) che conteneva la prassi forense nell’ambito del “crimen magiae”, avrebbe avuto in Colombo un “nepos” (figlio o nipote), comunque un consanguineo: circostanza che si potrebbe verificare solo se l’archivio vaticano fosse disposto a consentire ricerche, finora ferreamente precluse. Sicché, come ha scritto Ruggero Marino, la storia di Colombo e di papa Cybo costituisce una sorta di labirinto senza fondo, dove troppo spesso una possibile verità può diventare il suo contrario, in un gioco di specchi che sembra senza fine.

Da giovane, Piri Reis (nel 1486) visitò le città costiere della Spagna, proprio nel periodo in cui Colombo soggiornava in quei luoghi, e trasportò per sei anni, con lo zio Kamal Reis, musulmani spagnoli in Africa settentrionale, quando era ancora un «corsaro indipendente», non ufficialmente al servizio della Sublime Porta; in una fase in cui Occidente e Oriente si combattevano, pur essendo aperti a una soluzione concordata del conflitto tra cristiani e islamici; quando un accordo promosso da Isabella, Ferdinando e Innocenzo VIII segnò la fine della guerra degli spagnoli contro i mori. Nulla vieta, dunque, che Colombo e Piri Reis si siano incontrati, per una trasversalità di rapporti che era prerogativa di molte menti illuminate dell’epoca e in linea con la componente “eretica” del genovese (che fra l’altro venne accusato di voler cedere il Nuovo Mondo ai musulmani); in vista di una pace universale; in un disegno che rientrava nella mentalità cavalleresca, o di certi cavalieri; in una Spagna che si riteneva erede della mitica Sefarad, cioè una civile e armoniosa convivenza fra cristiani, ebrei e musulmani; in questo sogno rinviato a tempi più propizi, quelli di un’età dell’oro che Colombo prometteva con le ricchezze dell’«otro mundo»; in un sincretismo che passava tra la «persuasione per amore» e la complicità delle parti, espresso da San Francesco che aveva incontrato, cercando di convertirlo, il Saladino; nel contesto di una crociata esaustiva per completare la “grande opera”, l’ecumene cristiano, anche a costo di usare la croce come spada, con il navigatore fregiato dell’investitura di ultimo crociato.
Allora: la carta di Piri Reis riporta con sorprendente fedeltà le coste delle Americhe, di Antilya, (per alcuni: anti-India). Erano le mappe di cui disponeva Colombo; che erano in Vaticano, nella biblioteca di papa Innocenzo; che visionò Pinzon, nocchiero (e traditore) delle caravelle, recandosi a Roma nella primavera del 1492, come testimoniò un marinaio nella lunga vertenza dei “Pleitos colombinos”, (Processi o dispute colombiane), che la famiglia Colombo ebbe con la corte spagnola; che decretarono la fine del papa, del quale ci si doveva sbarazzare per appropriarsi impunemente delle nuove terre, con l’avvento del Borgia-Alessandro VI al soglio pontificio.
L’atteggiamento di Pinzon, già dall’inizio del viaggio, fu quello di un traditore. Non a caso farà la fine, appena sbarcato in Spagna al ritorno, che avrebbe dovuto fare Colombo. Il quale, appresa alle Azzorre la morte di papa Cybo e saputo che pontefice era diventato il Borgia, preferì cercare l’approdo in terra portoghese: terra per lui pericolosa, per le pendenze, mai chiarite dalla storia, con un re che pure si dichiarava suo amico; ma meno pericolosa di quella spagnola, dove riportava un mondo d’oro, che in larga parte doveva servirgli per la crociata promessa a Innocenzo VIII, al quale aveva chiesto in cambio l’elezione del figlio minore, Diego, a cardinale.

L’intrico si fa più avvincente quando Piri Reis chiarisce che la carta di Colombo ha origine da una carta di Alessandria, la città fondata da Alessandro Magno. Ma non doveva trattarsi della geografia di Tolomeo, perché l’emisfero delle carte tolemaiche ignorava l’altra faccia del nostro pianeta, quella che Colombo invece doveva conoscere bene.
Che Colombo non abbia mai compreso dove fosse giunto e che sia morto convinto d’aver toccato le coste d’Asia è una delle più infami mistificazioni che continuano a perseguitare il navigatore. Si è trattato della più riuscita opera di disinformazione, da una parte, e di marketing promozionale, dall’altra, della storia. La prima a danno di Colombo e di Innocenzo VIII, la seconda a favore dei re di Spagna (fu il Borgia papa Alessandro VI, nel 1493, a fissare la divisione fra le zone americane sottoposte all’influenza della Spagna e del Portogallo; e i Borgia erano spagnoli di Valencia).
Sia pure con qualche errore, Colombo sapeva benissimo che le terre da lui scoperte non erano le Indie tradizionali, intanto per i calcoli che aveva fatto personalmente, e poi perché non poteva non conoscere Eratostene di Cirene, chiamato a dirigere la celeberrima biblioteca di Alessandria, il quale durante un solstizio d’estate, servendosi di un gnomone, aveva misurato con esattezza ineccepibile il perimetro del globo, facendo perno sulla lunghezza totale del meridiano terrestre, che risultò di 252.000 stadi, vale a dire 40 milioni di metri: anche questa, informazione preziosa per il genovese, definito da Piri Reis «un grande astronomo», un grande uomo di scienza, singolare riconoscimento da parte di uno scienziato musulmano, in un tempo in cui Cristianesimo e Islam si combattevano per il dominio del mondo, senza esclusione di colpi.

La prescoperta del 1485 giustificherebbe la baldanzosa sicumera di Colombo, compresi i campanelli, le perline, gli specchietti e le altre chincaglierie da regalare agli indigeni. E anche se Paolo Emilio Taviani ha parlato di «anno 896 del calendario arabico», corrispondente al 1490-‘91 dell’era cristiana, sempre di “predescubrimiento” si tratta. Si noti: nella tomba (l’unica traslata dalla vecchia basilica costantiniana alla nuova, per uno strano omaggio a un pontefice colpito da “damnatio memoriae”) in San Pietro di Innocenzo VIII, al terzo rigo dell’epigrafe, sotto il maestoso mausoleo del Pollaiolo, si legge: «Novi orbis, suo aevo inventi gloria», ovvero nel tempo del suo pontificato ci fu «la gloria della scoperta di un Nuovo Mondo»: il terzo continente, secondo il dogma trinitario della cosmografia dell’epoca, che proprio tre terre emerse prevedeva. E che Colombo percorse e ripercorse nella sua parte più sottile (Panama), alla ricerca di un passaggio marino fra Nord e Sudamerica che lo portasse al Catai e, da qui, al monte Sion. Papa Cybo restò al soglio di Pietro dal 1484 al 25 luglio 1492. Che il Terzo Continente sia stato scoperto nel 1485 o nel 1491, cambia poco: nel tempio della verità cristiana quella lapide sembra attestare, appunto, la verità.
Fra l’altro, Innocenzo VIII fu definito «il papa marinaro». Per quale ragione? E se padre e figlio (o nipote) fossero andati insieme alla ricerca del Mondo Nuovo, da consegnare alla Cristianità imperante nel mondo? E se ci fosse andato da solo? E se avesse finanziato un viaggio di Colombo prima delle esplorazioni ufficiali? La fantasia può correre oltre ogni confine, attivata dai misteri che per oltre cinquecento anni hanno avvolto (e forse volontariamente gestito) l’impresa colombiana.

   
   
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