Se i gioielli troiani vennero portati fuori dalla
Turchia con uno
stratagemma, quelli del Partenone
furono soltanto
ceduti in vendita.
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Abbiamo vissuto per una lunga stagione la vicenda del celebre Vaso
di Eufronio, comparso negli Stati Uniti dAmerica, dopo essere
sparito dallItalia, passando dallo scavo clandestino ai meandri
dei traffici illeciti di opere darte, che spesso e volentieri
fanno capo agli sbocchi elvetici, prima di irradiarsi in mezzo mondo,
generalmente acquistati da collezionisti privati, ma anche da musei
di chiara fama. Le cronache dei saccheggi di opere darte,
del resto, nel nostro Paese sono pressoché quotidiane e colpiscono
in modo particolare i recinti archeologici che sono dislocati nellItalia
centro-meridionale: etruschi, piceni, romani, greco-italici, messapici,
lucani, sicelioti, e via discorrendo.
Ma non sempre si tratta di commerci occulti, conseguenti allattività
dei tombaroli. In non pochi casi cè stata
di mezzo la politica, come ci sono stati gli acquisti non del tutto
legali, e tuttavia consentiti, come nel caso dei fregi del Partenone,
e le requisizioni forzate, veri e propri atti di violenza nei confronti
di collezionisti privati che avevano arricchito le proprie case-museo,
i propri salotti artistici e letterari. E il caso di una splendida
collezione russa che Lenin confiscò con un decreto rivoluzionario
alla fine del 1918. Il collezionista era Sergej Schukin, il quale
aveva acquistato a Parigi, prima della Grande Guerra, un numero
impressionante di tele preziose: cinquanta Picasso, trentasette
Matisse, sedici Gauguin, altrettanti Derain, tredici Monet e un
considerevole numero di Cézanne, Degas, Marquet, Van Gogh.

Nella Mosca prerivoluzionaria, Casa Schukin era considerata
uno straordinario Museo dellImpressionismo, che
veniva aperto al pubblico un giorno alla settimana. In realtà,
ne esisteva anche un altro, creato dal gusto, dalla tenacia e dalla
fortuna personale di due vecchi credenti (una costola
della Chiesa Ortodossa che si era staccata dal Patriarcato moscovita
nella seconda metà del secolo Diciassettesimo). Si trattava
dei fratelli Michail e Ivan Morozov, notissimi fra laltro
per gli aiuti finanziari che avevano spontaneamente offerto ai movimenti
rivoluzionari russi nei primi anni del secolo. Ma le simpatie politiche
della famiglia non le risparmiarono il decreto di confisca di tutte
le opere darte, che del resto colpì allepoca
tutti i maggiori collezionisti.
Quando un quadro, una tela, una scultura, un disegno di queste stupende
collezioni esce dalla Russia e appare in una mostra organizzata
con la collaborazione dellErmitage di San Pietroburgo o del
Pushkin di Mosca, gli eredi degli antichi collezionisti ne rivendicano
la proprietà e chiedono che un tribunale riconosca i loro
diritti. Ma si scontrano con una linea di resistenza formidabile,
costituita dalla gelosia dei sovrintendenti e da sensibilità
e suscettibilità nazionali, oltre che da interessi diplomatici
e da cavilli giuridici degni di un callido azzeccagarbugli. E va
sottolineato che anche i governi non hanno sempre miglior fortuna.
Il nostro Rodolfo Siviero dedicò buona parte della sua vita
al recupero delle opere darte trafugate in Italia, in particolare
durante la Seconda Guerra Mondiale, e conseguì numerosi successi;
ma anche lui dovette constatare che le convenienze politiche, le
pigrizie burocratiche e il diritto dei nuovi proprietari
si trasformavano molto spesso in ostacoli insormontabili.

Tanto per fare un esempio: il capo delle relazioni culturali al
ministero degli Esteri italiano tentò una strada diversa,
originale, per il recupero di un frammento di opera darte
classica. Dopo avere appreso che il Louvre possedeva un piccolo
frammento dellAra Pacis, giunto a Parigi in epoca napoleonica,
disse ai francesi che sarebbe stato davvero un bel gesto se il loro
ministero della Cultura avesse permesso a quel pezzettino di marmo
di ricongiungersi con il fregio da cui era stato staccato. La proposta
venne accolta da un educato e imbarazzato silenzio. E non se ne
fece nulla.
Tuttaltro che educata, e meno che mai imbarazzata, invece,
fu la reazione del governo russo quando la Repubblica federale tedesca
di Helmut Kohl provò a chiedere, quasi timidamente, la restituzione
del cosiddetto Tesoro di Priamo o Tesoro di Troia.
Comè noto, il tesoro fu frutto di lavori di scavo,
dal 1870 al 1873, sulla collina di Hissarlik, dellarcheologo
dilettante Heinrich Schliemann, coadiuvato dalla seconda moglie,
una greca, Sophie, che insieme con lui si orientò sui testi
omerici che la scienza ufficiale riteneva puramente leggendari.
I due coniugi portarono alla luce nove strati di Troia, recuperando
il celebre tesoro, composto da diademi, collane, orecchini, anelli,
bracciali e coppe doro. Dopo di che, Schliemann aveva donato
il tutto ai musei di Berlino. Conquistata la capitale tedesca alla
fine del secondo conflitto mondiale, i sovietici si imposessarono
del tesoro, seppellendolo per più di mezzo secolo nei sotterranei
del Pushkin di Mosca, facendone così perdere del tutto le
tracce. Indiscrezioni (e ricomparsa di piccole parti, evidentemente
finite nel mercato nero, il cui circuito è sempre clandestino,
ma non del tutto impenetrabile) convinsero i tedeschi, allinizio
degli anni Novanta, che il Tesoro di Priamo era in un
qualche caveau moscovita. Di qui, la richiesta di restituzione da
parte del Cancelliere. Che si ebbe in cambio una risposta a dir
poco brutale: quel tesoro e altre opere, portate in Russia a fine
guerra mondiale, rappresentavano un modesto indennizzo
per le distruzioni e per le sofferenze che la Germania di Hitler
aveva inflitto ai popoli dellUnione Sovietica. Il problema,
allo stato delle cose, è rimasto irrisolto, ma la questione
non sembra essere stata chiusa. Tanto più che quel tesoro
è ancora sepolto, blindato nei sotterranei del
Pushkin, e non è fruibile dai giorni della sua scomparsa.
Vicenda diversa, ma ritenuta comunque dolorosa, è
quella che continua a riguardare in fatto di opere darte i
rapporti tra i governi greco e britannico. Ad Atene, quando chiese
la restituzione dei marmi che fregiavano il Partenone, la Gran Bretagna
rispose, educatamente ma inflessibilmente, che Lord Elgin, allepoca
ambasciatore di Sua Maestà presso la Sublime Porta, cioè
presso il Sultano e Califfo di Costantinopoli, aveva comperato i
marmi con il permesso del governo ottomano. Pertanto, ribadì
Londra, essi sono al British Museum per un più che legittimo
diritto di proprietà.
Si tratta di metope con rilievi e sculture e di altre opere darte
esistenti nel più grande tempio dellantichità
classica di straordinario valore artistico e storico. Al British,
fra laltro, vennero trasferite la Metopa col Centauro, opera
di Fidia, la Testa di cavallo, opera dello stesso scultore e dei
suoi aiuti, il gruppo Dione e Afrodite, sempre di Fidia, e il gruppo
dei Cavalieri, dello stesso autore e dei medesimi aiuti... Negati
alla cultura dellimmagine, per ragioni esclusivamente religiose,
e comunque indifferenti, se non spregiatori dellarte occidentale,
e in ogni caso assetati di denaro per i lussi sfrenati dellharem
e del serraglio, i Sultani e Califfi di Topkapi non avevano alcun
interesse a proteggere i tesori darte che esistevano al di
là e immediatamente al di qua del Bosforo: e se i gioielli
troiani vennero portati fuori dalla Turchia con uno stratagemma,
(Sophie li nascose sotto i vestiti, fingendosi incinta), quelli
del Partenone furono soltanto e semplicemente ceduti in vendita
a Lord Elgin, che del tutto legalmente li trasferì in patria,
visto che la Grecia e larea balcanica fino allAlbania
e alla Bosnia facevano parte dellImpero Ottomano.
In tempi più recenti, la Grecia ha deciso di riaprire la
questione. Vorrebbe che i marmi tornassero ad Atene in occasione
dei Giochi Olimpici che vi si svolgeranno nel 2004. Dunque, al momento
si accontenterebbe di una sorta di «lungo prestito».
Ma i responsabili del British Museum hanno ribattuto che sono «indispensabili»
alla loro istituzione, mentre diciotto conservatori di alcuni fra
i più importanti musei del mondo hanno fatto fronte comune
per difendere il loro buon diritto a conservare opere che sono ormai,
indipendentemente dalla loro origine, «parte del retaggio
culturale del Paese che le ospita».
Ma quanto tempo occorre prima che unopera diventi un retaggio
del nuovo proprietario? Nel libro-intervista che un grande mercante
francese, Daniel Wildenstein, ha scritto insieme con un giornalista,
Yves Stavridès, dal titolo Marchands dArt, si trovano
alcune storie che meritano di essere raccontate.
La prima riguarda la collezione di un grande amatore darte
tedesco, Otto Gerstenberg, che aveva raccolto, insieme a molti meravigliosi
impressionisti, anche opere di Daumier, Goya e Greco. Racconta il
mercante: «I Gerstenberg erano nostri buoni amici. Antinazisti
dichiarati. Alla morte del collezionista, subito prima dello scoppio
della guerra, sua figlia Margarete Scharf ci aveva venduto il cinquanta
per cento dei pezzi più belli della collezione». I
Wildenstein, secondo il contratto, avrebbero dovuto ritirare le
opere per metterle in vendita sul mercato mondiale. Ma lo scoppio
della guerra bloccò le tele a Berlino, dove vennero custodite
in un magazzino, non lontano dal luogo in cui sarebbe stato costruito,
soltanto qualche anno dopo, il bunker di Hitler.
Terminato il conflitto, Wildenstein nel 1946 andò alla ricerca
del magazzino e trovò uno spazio vuoto, spianato dalle bombe.
Pensò che le opere fossero andate distrutte e la pratica
venne archiviata. Ma allinizio degli anni Novanta, dopo il
crollo dellUnione Sovietica, apprese che a San Pietroburgo,
nei depositi dellErmitage, erano custodite alcune collezioni
tedesche, fra le quali quella di Gerstenberg. Vi si recò
e trovò un intelligente conservatore, Michail Piotrovskij,
al quale non sarebbe dispiaciuto un compromesso: due terzi ai vecchi
proprietari e un terzo al museo. Eltsin era daccordo, ma alla
Duma i nazionalisti e i comunisti si opposero: «Abbiamo perduto
in guerra milioni di uomini. Siamo stati spogliati di tutti i nostri
beni. Non restituiremo niente». Penalizzati gli eredi di un
collezionista che detestava il Führer e le sue guerre.

Altra storia intrigante è quella del tesoro personale dello
Zar Nicola II. Wildenstein era da molti anni alla ricerca dellultima
replica del Napoleone al Gran San Bernardo, di cui Jacques-Louis
David aveva dipinto quattro copie. Dopo molte indagini, scoprì
che il quadro era stato sottratto al castello di Saint Cloud da
Wellington, comandante delle forze alleate a Waterloo, e regalato
dalla sua famiglia alla Corona dInghilterra. Chiese notizie
al principe Carlo, e questi gli rispose che ne ignorava lesistenza,
ma gli propose cortesemente di fargli da guida negli sterminati
sotterranei del castello di Balmoral dove erano conservate, generalmente,
le opere che non erano esposte nei palazzi reali. Vi andarono insieme,
e non trovarono nulla. Ma Wildenstein notò circa centocinquanta
casse «gigantesche», ricoperte di caratteri cirillici,
mai aperte.
Carlo gli riferì che contenevano i tesori dellultimo
Zar di Russia. Nicola II li aveva mandati ai suoi cugini
in Inghilterra, allinizio del 1917, «quando si era reso
conto che in Russia le cose potevano finire male».
La visita a Balmoral ebbe luogo in un periodo in cui la Russia
si chiamava Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e il
potere a Mosca era nelle mani di Breznev. Ma oggi, si chiede Wildenstein,
quali ragioni possono ancora impedire la restituzione delle opere
e dei tesori contenuti in quelle casse?
Unultima storia, che ci riguarda da vicino. Per il suo tredicesimo
compleanno, quando i ragazzi ebrei celebrano la loro Bar Mitzvah
e diventano religiosamente adulti, Daniel ebbe in dono dal nonno
due quadri di Giovanni Boldini, Madame Harley e la Danseuse
Espagnole. Durante la guerra, quei quadri finirono nelle mani
del ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop, che ne
fece dono al suo collega italiano, Galeazzo Ciano. Dopo la fucilazione
di Ciano, avvenuta a Verona nel 1944, i due quadri scomparvero per
alcuni anni. Il primo, Madame Harley, finì negli
Stati Uniti, a New York, e qui, verso la metà degli anni
Cinquanta, tornò nelle mani del vecchio proprietario. Il
secondo riapparve a Milano, poco più di una decina di anni
fa, in una mostra delle opere di Boldini al Palazzo della Permanente.
Apparteneva a un collezionista italiano che lo aveva comperato e
che si considerava legittimo proprietario dellopera. Per riaverlo,
Wildenstein intentò un processo e dichiarò che se
il quadro gli fosse stato restituito lo avrebbe subito donato al
museo Boldini di Ferrara. Perdette, ricorse in appello ed era, al
momento della pubblicazione del libro in Francia, in attesa della
nuova sentenza. Morì due anni dopo, nellottobre 2001,
lasciando il caso nelle mani degli eredi. La storia, dunque, non
è finita. Ma esiste forse, nella grande giostra delle opere
darte, la parola fine? Esisterà mai la possibilità
di recuperare, dopo averle rintracciate, le opere darte trafugate,
come fortunatamente capitò al nostro Siviero, che tra laltro
riuscì a riprendersi la Lavinia di Tiziano e
la Muta di Raffaello? Sapremo mai difendere i parchi
archeologici che ancora oggi sono miniere inesauribili di reperti,
e dunque fonti della nostra storia?
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