Marzo 2003

ARTE RUBATA

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Magnifiche prede
Tonino Caputo - Elio Massari
Coll.: Yarim Moussi - Athanasios Gheorghiu - Amedeo Rosso Della
 
 

 

 

Se i gioielli troiani vennero portati fuori dalla
Turchia con uno
stratagemma, quelli del Partenone
furono soltanto
ceduti in vendita.

 

Abbiamo vissuto per una lunga stagione la vicenda del celebre Vaso di Eufronio, comparso negli Stati Uniti d’America, dopo essere sparito dall’Italia, passando dallo scavo clandestino ai meandri dei traffici illeciti di opere d’arte, che spesso e volentieri fanno capo agli sbocchi elvetici, prima di irradiarsi in mezzo mondo, generalmente acquistati da collezionisti privati, ma anche da musei di chiara fama. Le cronache dei saccheggi di opere d’arte, del resto, nel nostro Paese sono pressoché quotidiane e colpiscono in modo particolare i recinti archeologici che sono dislocati nell’Italia centro-meridionale: etruschi, piceni, romani, greco-italici, messapici, lucani, sicelioti, e via discorrendo.
Ma non sempre si tratta di commerci occulti, conseguenti all’attività dei “tombaroli”. In non pochi casi c’è stata di mezzo la politica, come ci sono stati gli acquisti non del tutto legali, e tuttavia consentiti, come nel caso dei fregi del Partenone, e le requisizioni forzate, veri e propri atti di violenza nei confronti di collezionisti privati che avevano arricchito le proprie case-museo, i propri salotti artistici e letterari. E’ il caso di una splendida collezione russa che Lenin confiscò con un decreto rivoluzionario alla fine del 1918. Il collezionista era Sergej Schukin, il quale aveva acquistato a Parigi, prima della Grande Guerra, un numero impressionante di tele preziose: cinquanta Picasso, trentasette Matisse, sedici Gauguin, altrettanti Derain, tredici Monet e un considerevole numero di Cézanne, Degas, Marquet, Van Gogh.

Nella Mosca prerivoluzionaria, “Casa Schukin” era considerata uno straordinario “Museo dell’Impressionismo”, che veniva aperto al pubblico un giorno alla settimana. In realtà, ne esisteva anche un altro, creato dal gusto, dalla tenacia e dalla fortuna personale di due “vecchi credenti” (una costola della Chiesa Ortodossa che si era staccata dal Patriarcato moscovita nella seconda metà del secolo Diciassettesimo). Si trattava dei fratelli Michail e Ivan Morozov, notissimi fra l’altro per gli aiuti finanziari che avevano spontaneamente offerto ai movimenti rivoluzionari russi nei primi anni del secolo. Ma le simpatie politiche della famiglia non le risparmiarono il decreto di confisca di tutte le opere d’arte, che del resto colpì all’epoca tutti i maggiori collezionisti.
Quando un quadro, una tela, una scultura, un disegno di queste stupende collezioni esce dalla Russia e appare in una mostra organizzata con la collaborazione dell’Ermitage di San Pietroburgo o del Pushkin di Mosca, gli eredi degli antichi collezionisti ne rivendicano la proprietà e chiedono che un tribunale riconosca i loro diritti. Ma si scontrano con una linea di resistenza formidabile, costituita dalla gelosia dei sovrintendenti e da sensibilità e suscettibilità nazionali, oltre che da interessi diplomatici e da cavilli giuridici degni di un callido azzeccagarbugli. E va sottolineato che anche i governi non hanno sempre miglior fortuna.
Il nostro Rodolfo Siviero dedicò buona parte della sua vita al recupero delle opere d’arte trafugate in Italia, in particolare durante la Seconda Guerra Mondiale, e conseguì numerosi successi; ma anche lui dovette constatare che le convenienze politiche, le pigrizie burocratiche e il “diritto” dei nuovi proprietari si trasformavano molto spesso in ostacoli insormontabili.

Tanto per fare un esempio: il capo delle relazioni culturali al ministero degli Esteri italiano tentò una strada diversa, originale, per il recupero di un frammento di opera d’arte classica. Dopo avere appreso che il Louvre possedeva un piccolo frammento dell’Ara Pacis, giunto a Parigi in epoca napoleonica, disse ai francesi che sarebbe stato davvero un bel gesto se il loro ministero della Cultura avesse permesso a quel pezzettino di marmo di ricongiungersi con il fregio da cui era stato staccato. La proposta venne accolta da un educato e imbarazzato silenzio. E non se ne fece nulla.

Tutt’altro che educata, e meno che mai imbarazzata, invece, fu la reazione del governo russo quando la Repubblica federale tedesca di Helmut Kohl provò a chiedere, quasi timidamente, la restituzione del cosiddetto “Tesoro di Priamo” o “Tesoro di Troia”. Com’è noto, il tesoro fu frutto di lavori di scavo, dal 1870 al 1873, sulla collina di Hissarlik, dell’archeologo dilettante Heinrich Schliemann, coadiuvato dalla seconda moglie, una greca, Sophie, che insieme con lui si orientò sui testi omerici che la scienza ufficiale riteneva puramente leggendari. I due coniugi portarono alla luce nove strati di Troia, recuperando il celebre tesoro, composto da diademi, collane, orecchini, anelli, bracciali e coppe d’oro. Dopo di che, Schliemann aveva donato il tutto ai musei di Berlino. Conquistata la capitale tedesca alla fine del secondo conflitto mondiale, i sovietici si imposessarono del tesoro, seppellendolo per più di mezzo secolo nei sotterranei del Pushkin di Mosca, facendone così perdere del tutto le tracce. Indiscrezioni (e ricomparsa di piccole parti, evidentemente finite nel mercato nero, il cui circuito è sempre clandestino, ma non del tutto impenetrabile) convinsero i tedeschi, all’inizio degli anni Novanta, che il “Tesoro di Priamo” era in un qualche caveau moscovita. Di qui, la richiesta di restituzione da parte del Cancelliere. Che si ebbe in cambio una risposta a dir poco brutale: quel tesoro e altre opere, portate in Russia a fine guerra mondiale, rappresentavano “un modesto indennizzo” per le distruzioni e per le sofferenze che la Germania di Hitler aveva inflitto ai popoli dell’Unione Sovietica. Il problema, allo stato delle cose, è rimasto irrisolto, ma la questione non sembra essere stata chiusa. Tanto più che quel tesoro è ancora “sepolto”, blindato nei sotterranei del Pushkin, e non è fruibile dai giorni della sua “scomparsa”.
Vicenda diversa, ma ritenuta comunque “dolorosa”, è quella che continua a riguardare in fatto di opere d’arte i rapporti tra i governi greco e britannico. Ad Atene, quando chiese la restituzione dei marmi che fregiavano il Partenone, la Gran Bretagna rispose, educatamente ma inflessibilmente, che Lord Elgin, all’epoca ambasciatore di Sua Maestà presso la Sublime Porta, cioè presso il Sultano e Califfo di Costantinopoli, aveva comperato i marmi con il permesso del governo ottomano. Pertanto, ribadì Londra, essi sono al British Museum per un più che legittimo diritto di proprietà.
Si tratta di metope con rilievi e sculture e di altre opere d’arte esistenti nel più grande tempio dell’antichità classica di straordinario valore artistico e storico. Al British, fra l’altro, vennero trasferite la Metopa col Centauro, opera di Fidia, la Testa di cavallo, opera dello stesso scultore e dei suoi aiuti, il gruppo Dione e Afrodite, sempre di Fidia, e il gruppo dei Cavalieri, dello stesso autore e dei medesimi aiuti... Negati alla cultura dell’immagine, per ragioni esclusivamente religiose, e comunque indifferenti, se non spregiatori dell’arte occidentale, e in ogni caso assetati di denaro per i lussi sfrenati dell’harem e del serraglio, i Sultani e Califfi di Topkapi non avevano alcun interesse a proteggere i tesori d’arte che esistevano al di là e immediatamente al di qua del Bosforo: e se i gioielli troiani vennero portati fuori dalla Turchia con uno stratagemma, (Sophie li nascose sotto i vestiti, fingendosi incinta), quelli del Partenone furono soltanto e semplicemente ceduti in vendita a Lord Elgin, che del tutto legalmente li trasferì in patria, visto che la Grecia e l’area balcanica fino all’Albania e alla Bosnia facevano parte dell’Impero Ottomano.

In tempi più recenti, la Grecia ha deciso di riaprire la questione. Vorrebbe che i marmi tornassero ad Atene in occasione dei Giochi Olimpici che vi si svolgeranno nel 2004. Dunque, al momento si accontenterebbe di una sorta di «lungo prestito». Ma i responsabili del British Museum hanno ribattuto che sono «indispensabili» alla loro istituzione, mentre diciotto conservatori di alcuni fra i più importanti musei del mondo hanno fatto fronte comune per difendere il loro buon diritto a conservare opere che sono ormai, indipendentemente dalla loro origine, «parte del retaggio culturale del Paese che le ospita».
Ma quanto tempo occorre prima che un’opera diventi un “retaggio” del nuovo proprietario? Nel libro-intervista che un grande mercante francese, Daniel Wildenstein, ha scritto insieme con un giornalista, Yves Stavridès, dal titolo Marchands d’Art, si trovano alcune storie che meritano di essere raccontate.
La prima riguarda la collezione di un grande amatore d’arte tedesco, Otto Gerstenberg, che aveva raccolto, insieme a molti meravigliosi impressionisti, anche opere di Daumier, Goya e Greco. Racconta il mercante: «I Gerstenberg erano nostri buoni amici. Antinazisti dichiarati. Alla morte del collezionista, subito prima dello scoppio della guerra, sua figlia Margarete Scharf ci aveva venduto il cinquanta per cento dei pezzi più belli della collezione». I Wildenstein, secondo il contratto, avrebbero dovuto ritirare le opere per metterle in vendita sul mercato mondiale. Ma lo scoppio della guerra bloccò le tele a Berlino, dove vennero custodite in un magazzino, non lontano dal luogo in cui sarebbe stato costruito, soltanto qualche anno dopo, il bunker di Hitler.
Terminato il conflitto, Wildenstein nel 1946 andò alla ricerca del magazzino e trovò uno spazio vuoto, spianato dalle bombe. Pensò che le opere fossero andate distrutte e la pratica venne archiviata. Ma all’inizio degli anni Novanta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, apprese che a San Pietroburgo, nei depositi dell’Ermitage, erano custodite alcune collezioni tedesche, fra le quali quella di Gerstenberg. Vi si recò e trovò un intelligente conservatore, Michail Piotrovskij, al quale non sarebbe dispiaciuto un compromesso: due terzi ai vecchi proprietari e un terzo al museo. Eltsin era d’accordo, ma alla Duma i nazionalisti e i comunisti si opposero: «Abbiamo perduto in guerra milioni di uomini. Siamo stati spogliati di tutti i nostri beni. Non restituiremo niente». Penalizzati gli eredi di un collezionista che detestava il Führer e le sue guerre.

Altra storia intrigante è quella del tesoro personale dello Zar Nicola II. Wildenstein era da molti anni alla ricerca dell’ultima replica del “Napoleone al Gran San Bernardo”, di cui Jacques-Louis David aveva dipinto quattro copie. Dopo molte indagini, scoprì che il quadro era stato sottratto al castello di Saint Cloud da Wellington, comandante delle forze alleate a Waterloo, e regalato dalla sua famiglia alla Corona d’Inghilterra. Chiese notizie al principe Carlo, e questi gli rispose che ne ignorava l’esistenza, ma gli propose cortesemente di fargli da guida negli sterminati sotterranei del castello di Balmoral dove erano conservate, generalmente, le opere che non erano esposte nei palazzi reali. Vi andarono insieme, e non trovarono nulla. Ma Wildenstein notò circa centocinquanta casse «gigantesche», ricoperte di caratteri cirillici, mai aperte.
Carlo gli riferì che contenevano i tesori dell’ultimo Zar di Russia. Nicola II li aveva mandati ai suoi “cugini” in Inghilterra, all’inizio del 1917, «quando si era reso conto che in Russia le cose potevano finire male».

La visita a Balmoral ebbe luogo in un periodo in cui la Russia si chiamava Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e il potere a Mosca era nelle mani di Breznev. Ma oggi, si chiede Wildenstein, quali ragioni possono ancora impedire la restituzione delle opere e dei tesori contenuti in quelle casse?
Un’ultima storia, che ci riguarda da vicino. Per il suo tredicesimo compleanno, quando i ragazzi ebrei celebrano la loro “Bar Mitzvah” e diventano religiosamente adulti, Daniel ebbe in dono dal nonno due quadri di Giovanni Boldini, “Madame Harley” e la “Danseuse Espagnole”. Durante la guerra, quei quadri finirono nelle mani del ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop, che ne fece dono al suo collega italiano, Galeazzo Ciano. Dopo la fucilazione di Ciano, avvenuta a Verona nel 1944, i due quadri scomparvero per alcuni anni. Il primo, “Madame Harley”, finì negli Stati Uniti, a New York, e qui, verso la metà degli anni Cinquanta, tornò nelle mani del vecchio proprietario. Il secondo riapparve a Milano, poco più di una decina di anni fa, in una mostra delle opere di Boldini al Palazzo della Permanente. Apparteneva a un collezionista italiano che lo aveva comperato e che si considerava legittimo proprietario dell’opera. Per riaverlo, Wildenstein intentò un processo e dichiarò che se il quadro gli fosse stato restituito lo avrebbe subito donato al museo Boldini di Ferrara. Perdette, ricorse in appello ed era, al momento della pubblicazione del libro in Francia, in attesa della nuova sentenza. Morì due anni dopo, nell’ottobre 2001, lasciando il caso nelle mani degli eredi. La storia, dunque, non è finita. Ma esiste forse, nella grande giostra delle opere d’arte, la parola fine? Esisterà mai la possibilità di recuperare, dopo averle rintracciate, le opere d’arte trafugate, come fortunatamente capitò al nostro Siviero, che tra l’altro riuscì a riprendersi la “Lavinia” di Tiziano e la “Muta” di Raffaello? Sapremo mai difendere i parchi archeologici che ancora oggi sono miniere inesauribili di reperti, e dunque fonti della nostra storia?

   
   
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