Marzo 2003

ARTE RUBATA

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Una voce per Dante
e la cultura meridionale
Nicola Carducci
 
 

 

 

 

Il filo rosso
perseguito
dal Vallone
è il concetto della “meridionalità”, come categoria
culturale immanente nella coscienza
degli scrittori.

 

«Dante è un autore unico, straordinario, al quale si arriva per non abbandonarlo più»: John Freccero, tra i massimi studiosi americani di Dante, qualche anno fa motivava così il suo inesausto interesse per l’autore della Commedia. E’ motivazione che, senza ombra di dubbio, può addursi per «il lungo studio e il grande amore» di Aldo Vallone per l’opera dell’Alighieri, dal tempo delle giovanili Prime noterelle dantesche (1947) ai succesivi contributi, Cultura e memoria in Dante (Napoli, 1988), La Divina Commedia e l’Apocalisse (Roma, 1989), Strutture e modulazioni nella Divina Commedia (Firenze, 1990), Percorsi danteschi (Firenze, 1991), più di un quarantennio a testimonianza di una “fede”... imperitura, si direbbe, ormai affidata, für ewig, alla “Casa di Dante”, dallo stesso Vallone allestita nella sua città natale, Galatina, ed emula non indegna di analoghe istituzioni italiane e straniere.
Non c’è aspetto dell’opera di Dante, non c’è problema inerente al corpus del grande intellettuale fiorentino, che non abbia sollecitato l’attenzione del mio illustre conterraneo e sul quale non abbia concorso a far luce ermeneutica, storico-culturale, filologica, con interventi a volte risolutivi e comunque non eludibili nello sviluppo immane dell’esegesi e della critica dantesca.
A proposito del suo Dante (già Vallardi e poi Piccin, Padova, 1981, II ed.), il Gilson non ha esitato ad affiancare il nostro studioso ai due più autorevoli rappresentanti della critica dantesca postcrociana, Michele Barbi e Bruno Nardi, per l’«erudizione fantastica» profusa nel volume, e sovranamente «dominata» nel risalto conferito all’oggetto della sua specifica indagine. Né meno entusiasticamente consenziente è il giudizio di André Pezard: «Avec une pacience qui entraîne notre estime admirative, avec une pénetration qui conquiert notre sympathie léttéraire, il nous fait faire le tour de l’édifice et nous hausse, nous petits, à la hauteur pourtant sublime de la pensée et de la poésie dantesque» («con una pazienza che suscita la nostra stima ammirativa, con una penetrazione che conquista la nostra simpatia letteraria, egli ci fa fare il giro dell’edificio e ci innalza, noi piccoli, all’altezza sublime del pensiero e della poesia di Dante»).

Presso lo stesso editore padovano, quasi ad integrazione della monumentale monografia, abbiamo inoltre i due volumi, non meno ponderosi, della Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo (1981), una summa senza precedenti, obbligata per chiunque intenda addentrarsi nella sterminata foresta della bibliografia critica relativa al nostro massimo poeta; summa che Vallone ha poi arricchito di sempre nuovi, aggiornati dati: «un largo spaccato della cultura ecumenica», la definisce il Contini.
Di «memoria poetica», fermentante nel crogiuolo della invenzione linguistica della Commedia, aveva già parlato, con la consueta acuta acribia, Gianfranco Contini, nel 1965 (ora in Un’idea di Dante, Einaudi); Vallone, dilatandone i confini, acquisisce e riconduce a quell’alveo referti e reperti di origine più comunemente e quotidianamente sensoriale, «uditiva e visiva». Occorre una buona volta chiarire – afferma preliminarmente in Cultura e memoria in Dante – «al di là delle ricerche erudite e comparativistiche, benemerite in molti casi, quali siano in realtà e quali possano essere considerate le fonti, da cui Dante sugge la cultura, ch’è di per sé vasta e profonda, e le vie di apprendimento e le suggestioni ispirative. E’ un cammino in gran parte nuovo, che può mettere ancora più in evidenza le qualità precipue di Dante come poeta e come uomo del Medioevo». Un cammino, appunto, che Vallone qui ripercorre con tale dovizia di documenti, di riscontri, di argomenti da stupire persino Jean Leclercq, che esclama: «C’era dunque ancora del nuovo da dire».


E il “nuovo” scaturisce dalla minuziosa e calibrata esplorazione valloniana delle fonti indirette e mediate, cui l’immaginazione del poeta e la dottrina dell’intellettuale hanno potuto attingere, per poi distillarne personalissimi squarci fantastici, originali spezzoni semantico-stilematici, impervie assunzioni di pensiero. Tutto rifluisce nella fucina del poeta e nel laboratorio del teoreta che rimedita sui problemi del suo tempo, con uno sguardo che insieme li trascende.
Se si escludono gli anni della giovinezza fiorentina, all’ombra del suo «bel San Giovanni», gli anni della poetica del «vasello» e dell’«incantamento» sognante («Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io»), il resto della non lunga esistenza del poeta è segnato dalle inique e dure traversie dell’esilio, «per le parti quasi tutte d’Italia», «legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade» (Conv. I, 3). Traversie che ben poco potevano concedere a metodiche compulsazioni di fonti scritte, a sistematica e rasserenante frequentazione di biblioteche o sedi affini, con la fugace eccezione del soggiorno in Lunigiana, poi presso gli Scaligeri e infine a Ravenna. A Firenze aveva seguito gli insegnamenti dei domenicani, in S. Maria Novella, dei francescani, in S. Croce, degli agostiniani a Santo Spirito, sempre inseguendo la «donna gentile» (la Filosofia, «scientia omnium rerum») per dove «ella si dimostrava veracemente»; e la rincorse, sempre da giovane, anche a Bologna, decisiva, questa dimora pur breve, sia in merito al problema del «volgare illustre» quanto in relazione alle idee politiche del De Monarchia; oltre che per le indirette eterodosse derivazioni da Sigieri di Brabante («che leggendo nel Vico de li Strami / sillogizzò invidïosi veri»).
Quella fame di scienza del poeta va oltre la soglia della spensierata giovinezza e si accompagna con l’exul immeritus, insaziata e tormentosa, sicché, dove non lo soccorre più la immediata consultazione della fonte scritta, gli viene prodigiosamente in aiuto la «memoria uditiva e visiva». Non ha definito, Dante, la memoria «il libro che il preterito rassegna»? E il suo tramite naturale non è che quello del senso, secondo la dottrina aristotelico-tomistica, che in Dante si coniuga con l’intuizionismo di Ugo di San Vittore e la teoria bonaventuriana dei “lumina”: «Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno»; né, ancora, «fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso». Pertanto, seguendo il catturante itinerario di Vallone, «la cultura di Dante, in definitiva, non è libresca, ma è uditiva, prevalentemente, fondata sulla memoria: un finissimo esercizio di sentire e ascoltare, di ritenere e riordinare». Conclusione, peraltro, cui era già pervenuto, per via intuitiva, Riccardo Bacchelli: «Penso che Dante componesse a memoria. Gli esercizi e le virtù della memoria fra gli uomini del suo tempo erano continui e grandissimi, e Dante aveva in testa tante rime quanti sillogismi» (cit. da Vallone).
Com’è ormai acquisito da tempo, grazie agli studi del Nardi, di là dalla letterarietà pur eccelsa e dalla allegoria straordinariamente intensa, il Poema sacro è anzitutto una «visione profetica», che Dio ha concesso a Dante «per grazia singolare», al fine ben preciso che egli, conosciuta la verità sulla «cagione che il mondo ha fatto reo», possa denunciarla senza remora alcuna. Lo rincuora perciò Cacciaguida: «Coscienza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. / Ma nondimen, rimossa ogni menzogna, / tutta tua vision fa manifesta, / e lascia pur grattar dov’è la rogna»; e più innanzi, al culmine della visione, glielo impone l’apostolo Pietro: «E tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo». Il Boccaccio poteva dunque scrivere pensando a Dante: «poesia ex sinu Dei procedens» (poesia che proviene dal grembo stesso di Dio).
Nel solco tracciato dal Nardi s’innesta ora, con esiti ulteriormente stimolanti, la dotta ricognizione valloniana sulla natura e le modalità del rapporto tra Commedia e Apocalisse: natura composita, pur nella sua evidente presenza in Dante, che il nostro studioso ricostruisce e definisce nell’ampio contesto della cultura esoterica e teologica dell’età di Dante: cultura filtrata attraverso la explanatio della “visio” giovannea, elaboratane da Gioacchino da Fiore, «di spirito profetico dotato», e, più aderentemente, attraverso la riduzione sermocinante di Pietro Giovanni Olivi e Ubertino da Casale (già insegnanti nella scuola di S. Croce, a Firenze), entrambe memorizzate simpateticamente da tempo.
La tecnica visionaria dell’Apocalisse era già presente pur se in funzione puramente letteraria, nella struttura lirico-narrativa della Vita Nuova (cap. XXIII, 4-6) mentre poi, nell’impianto dottrinariamente ben più ambizioso della Commedia, la sua funzione riveste toni di un messianismo polemico di segno civile e politico oltre che etico e religioso. Il richiamo al veggente di Patmo è persino nominale nella celebre invettiva che esplode nella malabolgia dei Simoniaci: «Di voi, pastor, s’accorse il Vangelista, / quando colei che siede sopra l’acque / puttaneggiar coi regi a lui vista» (Inf. XIX). Ma l’analisi comparativa di Vallone si fa più particolareggiata e puntuale per i canti del Purgatorio (XXIX e XXXII), che hanno come oggetto rappresentativo la “processione” che, per simboli, riproduce la storia della Chiesa e parallelamente la storia dell’umanità. Dante, tuttavia, mostra di rifuggire dal pessimismo del testo giovanneo, perché, come già il Veltro, nelle parole di Virgilio ai piedi del colle, ora «un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque» (Purg. XXXIII).

Sulle dodici “lecturae”, comprese nella raccolta Strutture e modulazioni nella Divina Commedia, colpisce la particolarità dell’angolazione che ne costituisce il supporto critico-ermeneutico: un’ulteriore verifica della “varietà nell’unità” e insieme della “unità nella varietà”, a conferma del postulato della eccezionalità delle punte conoscitive del poema dantesco, nel quale si intersecano e interagiscono il “particolare” e il “generale”, il “personaggio singolo” (o l’insieme dei personaggi) e “l’ambiente”, il segmento episodico e l’ideazione complessiva; insomma la struttura e la poesia, l’ideologia e lo stile. Restringendoci a qualche esempio: la “lectura” del canto di Marco Lombardo (Purg. XVI) muove, tuttora, a polemiche riflessioni, ad amari bilanci. A spiegazione del tralignamento del mondo umano, l’impietoso j’accuse di Dante non è rivolto ai sudditi, ai governati, ma ai governanti, ai detentori del potere, alle «più alte cime» della gerarchia politico-sociale. E’ il leit motiv variamente riemergente lungo il percorso dell’eccezionale viator, «che al divino dall’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano». Pertanto, non può ritenersi casuale la centralità, per dir così topografica, di questo canto del Purgatorio nella struttura poetica della Commedia: «tanti canti prima, tanti canti dopo e con lieve differenza di versi tra le due parti»; come non è casuale – rileva ancora Vallone – «che nel canto si concentrino, in solidissima sintesi, non solo tutti i temi del tempo di Dante, ma anche quelli dell’uomo Dante, che più hanno inciso nella vita sua».
La “lectura” compresa nella silloge (Inf. XXVI) ci riporta alla figura di Ulisse, a tutt’oggi la più suggestivamente problematica e pungente, tra le tantissime che popolano l’aldilà dantesco: dal «fortissimo sapore autobiografico». E l’identificazione dell’auctor e dell’agens rimbalza subito dall’incipit («Godi, Fiorenza, poi che sei sì grande / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo inferno tuo nome si spande!»), lampeggiante di micidiale sarcasmo, appena temperato, poco dopo, e ribaltatosi in struggente pensosa accoratezza («E se già fosse, non saria per tempo. / Così foss’ei, da che pur esser dee! / ché più mi graverà, com’ più m’attempo»). Veramente, «per questa via e in questo canto, la Commedia divina è l’umana Commedia di Dante personaggio e attore».

L’interpretazione che suggerisce Vallone si scosta notevolmente dalla critica tradizionale che risale al De Sanctis e poi al Fubini, per ricondurre il personaggio di Ulisse e la sua fame di conoscenza «entro le ideologie e i limiti medievali»; o più propriamente, all’interno di tre aree semantico-simboliche, proprie di lui, ossia del suo ardore «a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore»: il viaggio, il mare, la montagna. Questa “lectura” restituisce in tal modo al canto dantesco una tensione drammatica, risolutivamente storicizzata, e dunque ben più realistica e pregnante della emblematizzazione del “laico romantico”, sicché per essa la Commedia assume, in gran parte, il travaglio del Convivio, il quale, proprio ad apertura, detta il tema generale di «virtude e conoscenza», attraverso il concetto del suo maestro (Aristotele): «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere».
Ripercorrendo, appena sussultim, il quarantennio della lucida passione dell’insigne salentino per Dante, si è qui cercato di restituirne al vivo la intensità, in tempi come i nostri in cui la nostra maggior Musa rischia di essere offuscata, non soltanto nella coscienza nazionale ma nelle stesse istituzioni specifiche, la scuola e l’università, con gravissimo pregiudizio sulla formazione integrale della gioventù, che entrerebbe nella vita intellettualmente azzoppata.

Non meno imponente del lavoro su Dante è l’altro sulla Storia della letteratura meridionale (Napoli, CUEN, 1996), pressoché coevo nell’accumulo di dati, di ricerche particolari, di contributi specifici su autori, opere, movimenti della cultura del Mezzogiorno, che in questa articolatissima poderosa sintesi hanno infine trovato organica sistemazione. Per intenderne mole e meriti, può giovare il passo crociano tratto dalla Storia del Regno di Napoli (Avvertenza), apposto da Vallone ad apertura e in qualche modo introduttivo alla lista delle “Schede di appoggio e di più frequente riferimento”: «I lavori di storia, quando procedono in modo pensato e critico, debbono [...] presupporre quel che già si ha nei libri sul soggetto trattato e dare solo quel che di nuovo si crede di poter fornire in proposito per la migliore e più completa intelligenza dei fatti».
Inoltre anche per questa impresa la griglia storico-critica è ancora la lezione vichiana, in forza della quale si accerta il vero con l’autorità della filologia, e si avvera il certo con le ragioni della filosofia; senza ignorare l’apertura metodologica di Carlo Dionisotti (Geografia e storia della letteratura italiana), che anzi, è lecito dire, legittima l’aspetto più radicalmente innovativo, perché abbraccia tutte le regioni meridionali, e in virtù della quale, per il tramite delle opere, si pongono in luce «certi segni dell’animo» delle medesime (citando Alvaro).
Gli estremi dell’enorme arco diacronico vanno dai secoli XII-XIII, con la segnalazione delle preminenze, nel processo dialettico dello sviluppo storico, «l’elemento federiciano e religioso», interagente con le «tradizioni classiche e testimonianze volgari», sino ai secoli XIX-XX, materia della “Parte Quinta”, che chiude con l’analisi puntualizzante degli “ismi” (Decadentismo, Crepuscolarismo, Futurismo, D’Annunzio e il dannunzianesimo, Ermetismo).
Nella valutazione critica dei testi, il discorso di Vallone non può non risentire dei salutari effetti sia del superamento della dicotomia estetica crociana che dei condizionamenti realistico-romantici del De Sanctis, al cui storicismo, peraltro, si riconosce l’enorme importanza di avere, a Napoli, conferito «tempra al filologismo di pura tecnica». Ne discende l’interesse del nostro storico per la individuazione delle sottese o esplicite ragioni civili operanti nella sensibilità letteraria degli scrittori meridionali: interesse che per Vallone nasce dalla consapevolezza delle particolari vicende storiche e socio-politiche del Regno di Napoli, sino all’Unità rimasto uno Stato a sé, con strascichi strutturali che il processo di identificazione nazionale ha, a lungo, tardato a risolvere. La monarchia di tipo feudale ha distorto, dopo la breve parentesi illuminata del Grande Federico, la via maestra dell’amalgama tra Mezzogiorno e regioni centro-settentrionali. Il Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, rammentando la fatale degenerazione dell’ordinamento generale, aveva scritto: «Il Machiavelli giudicava la genia dei gentiluomini o baroni di cui era pieno il Regno di Napoli, e che non esercitavano né arti né commerci né curavano la cultura delle terre, ma avevano castelli e sudditi che loro ubbidivano, «uomini del tutto nimici di ogni civiltà», a cagione dei quali in quelle province «non era mai stata alcuna repubblica né alcun vivere politico», talché, chi volesse introdurvi queste cose, dovrebbe in primo luogo «spegnerli tutti» (Discorso sopra la prima deca, I, 55).
Ma noi, ora, sappiamo che a spegnere quei «del tutto nimici di ogni civiltà», non ci riuscirono, pacificamente, i «patrioti» del ‘99, ma saranno questi a restarne «spenti» dalla feroce reazione borbonica e sanfedista.
Per tale condizione storica, la cultura meridionale ha assunto caratteri marcatamente specifici; anche per propizi effetti delle sue radici che risalgono a epoche favolose, magno-greche e mediterranee, già oggetto della esplorazione fantasiosa del Cuoco (col suo Platone in Italia) e della ricognizione filosofica del Gioberti (nel suo Primato morale e civile degli italiani). Il “filo rosso” perseguito dal Vallone nel suo fluviale excursus è il concetto della “meridionalità” o “napoletanità”, come categoria culturale immanente nella coscienza degli scrittori, e che come tale ridimensiona classicismo e petrarchismo, influenti in linea mimetico-subalterna, ossia in «dinamica opposizione» con le tendenze egemonizzanti dei centri culturali più accorsati come Firenze. Il dialetto espressionistico del Basile, per citare un esempio tra tanti, rappresenta, oggettivamente, un segnale di rivolta, come già «l’elemento federiciano» l’eresia del laicismo. Opposizione dinamica più diffusa, con Pontano, Sannazzaro, De Ferrariis, il quale ultimo, al tempo stesso rigetta sia la latinità ciceroniana («illaboratus est sermo meus, non exquisitus, non elegans») sia, nella Esposizione del Pater noster, la lingua del Petrarca e del Boccaccio, per optare per «quella medesima lengua che ho imparato da mia madre» («lengua inornata e ruginosa»). Lingua madre, adoperata da un altro “sedizioso” meridionale, Masuccio Salernitano, che se ne serve sia per sferzare la «scelerata vita» della gente di Chiesa (la protesta luterana è imminente), sia per celebrare «istorie di singulare vertù».

Sui marinisti salentini, da Ascanio Grandi in giù, Aldo Vallone non è tenero, non si lascia prendere dalla voglia sfrenata di improvvisarne una originalità; la loro più naturale destinazione è la muffa delle biblioteche, per quanti intendano crogiolarsi con i valori retorici e formalistici. Il Mezzogiorno che resiste sempre e comunque è quello degli illuministi, per il loro spessore civile ed etico-politico: Giannone, Genovesi, Palmieri, Mario Pagano, con i quali s’inaugura un’osmosi ideale tra la cultura europea più avanzata e la intellettualità meridionale di punta: con i philosophes, con i riformisti tedeschi, con i costituzionalisti inglesi, da Montesquieu a Rousseau, da Mably a Diderot, da Locke a Hume, da Condillac a D’Alembert, da Voltaire a Morelly. Solida sponda di approdo, la scuola di Antonio Genovesi, cui affluiscono, per uscirne irrobustiti nelle idee e nei progetti riformatori, metropolitani e provinciali (calabresi, molisani, pugliesi), moderati (Galanti, Longano, Palmieri, Delfico, Filippo Briganti) o giacobini (Filangieri, Grimaldi, Pagano, Astore), ma tutti “patrioti”, a vario titolo, e i più generosi sino ad affrontare la forca o il carcere, non escluso il fasanese Ignazio Ciaia.
Sì, veramente stagione luminosa, irripetibile, della vita e della cultura meridionale, sulla quale lo stesso Vallone ha allestito un’ampia documentazione testuale ed esegetica, in due massicci tomi, limitatamente ai salentini Tommaso e Filippo Briganti, Giovanni Presta, Giuseppe Palmieri, Francesco Antonio Astore, Ignazio Falconieri e altri minori (nella Biblioteca salentina di cultura, Lecce, Milella, 1983 e 1984).

L’excursus valloniano prosegue, lasciando magistralmente intersecarsi i sentieri della cultura in senso lato, anche politica e filosofica, e quelli più propri della letteratura, al fine di offrire del Mezzogiorno l’immagine più compiuta possibile, sì che se ne ricavi, ad posteros, robusta coscienza critica nella persistenza della memoria storica: coscienza e memoria, vigili e vindici, oggi più che mai, e ben presenti lungo la faticosa tela di questa Storia della letteratura meridionale.
Ma in questa occasione, non posso tacere dell’uomo Vallone, come mi è accaduto di conoscerlo e praticarlo io: un esemplare di linearità e coerenza comportamentale, di schietta umana cordialità. E’ stato il mio preside, all’inizio del mio insegnamento liceale al “Palmieri” di Lecce. Una mattina, senza alcun preavvertimento, come a quel tempo (anni Cinquanta) era doveroso fare, mi colse di sorpresa nell’aula I B (un gelido stanzone della vecchia sede del Convitto Nazionale, in piazzetta Carducci), intento a tenere la mia lezioncina sullo Stil Nuovo. Io interruppi, ma egli m’invitò a proseguire; quindi porse il saluto alla scolaresca, non senza qualche parola di consenso nei miei confronti. Era il rito della ispezione per il passaggio dallo “straordinariato” all’ “ordinariato”, con conseguente ambita progressione economica. La esecrata (dai furbastri demagoghi) Riforma Gentile imponeva ancora questo rigore di procedimenti di verifica, nonostante le già superate forche caudine concorsuali; forche caudine, bandite con decreto ministeriale 26 agosto 1957, tra le quali si rischiò implacabilmente di rimanere incastrati a metà, per l’una o per l’altra prova scritta (brutalmente insidiosa la seconda, da stendere in lingua latina sui “Caratteri della letteratura romana dell’età argentea”); fu il rischio di un candidato diventato poi italianista insigne alla “Sapienza” di Roma. Rigore di “tempra idealistica”, che non dispiaceva a tanti antifascisti della scuola del Ventennio, da Fabrizio Canfora a Stefano Giordano, da Tommaso Fiore a Carlo Muscetta, così vivamente era sentito. Poi perdurò negli anni tra i Cinquanta e i Sessanta il rovello della responsabilità professionale verso se stessi prima ancora che verso gli altri; e ciò ch’io dico di me, «che di necessità qui si registra», di sé intendono, più o meno, gli altri della mia generazione.

   
   
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