Il filo rosso
perseguito
dal Vallone
è il concetto della meridionalità, come
categoria
culturale immanente nella coscienza
degli scrittori.
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«Dante è un autore unico, straordinario, al quale
si arriva per non abbandonarlo più»: John Freccero,
tra i massimi studiosi americani di Dante, qualche anno fa motivava
così il suo inesausto interesse per lautore della Commedia.
E motivazione che, senza ombra di dubbio, può addursi
per «il lungo studio e il grande amore» di Aldo Vallone
per lopera dellAlighieri, dal tempo delle giovanili
Prime noterelle dantesche (1947) ai succesivi contributi, Cultura
e memoria in Dante (Napoli, 1988), La Divina Commedia e lApocalisse
(Roma, 1989), Strutture e modulazioni nella Divina Commedia (Firenze,
1990), Percorsi danteschi (Firenze, 1991), più di un quarantennio
a testimonianza di una fede... imperitura, si direbbe,
ormai affidata, für ewig, alla Casa di Dante, dallo
stesso Vallone allestita nella sua città natale, Galatina,
ed emula non indegna di analoghe istituzioni italiane e straniere.
Non cè aspetto dellopera di Dante, non cè
problema inerente al corpus del grande intellettuale fiorentino,
che non abbia sollecitato lattenzione del mio illustre conterraneo
e sul quale non abbia concorso a far luce ermeneutica, storico-culturale,
filologica, con interventi a volte risolutivi e comunque non eludibili
nello sviluppo immane dellesegesi e della critica dantesca.
A proposito del suo Dante (già Vallardi e poi Piccin, Padova,
1981, II ed.), il Gilson non ha esitato ad affiancare il nostro
studioso ai due più autorevoli rappresentanti della critica
dantesca postcrociana, Michele Barbi e Bruno Nardi, per l«erudizione
fantastica» profusa nel volume, e sovranamente «dominata»
nel risalto conferito alloggetto della sua specifica indagine.
Né meno entusiasticamente consenziente è il giudizio
di André Pezard: «Avec une pacience qui entraîne
notre estime admirative, avec une pénetration qui conquiert
notre sympathie léttéraire, il nous fait faire le
tour de lédifice et nous hausse, nous petits, à
la hauteur pourtant sublime de la pensée et de la poésie
dantesque» («con una pazienza che suscita la nostra
stima ammirativa, con una penetrazione che conquista la nostra simpatia
letteraria, egli ci fa fare il giro delledificio e ci innalza,
noi piccoli, allaltezza sublime del pensiero e della poesia
di Dante»).

Presso lo stesso editore padovano, quasi ad integrazione della
monumentale monografia, abbiamo inoltre i due volumi, non meno ponderosi,
della Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo (1981),
una summa senza precedenti, obbligata per chiunque intenda addentrarsi
nella sterminata foresta della bibliografia critica relativa al
nostro massimo poeta; summa che Vallone ha poi arricchito di sempre
nuovi, aggiornati dati: «un largo spaccato della cultura ecumenica»,
la definisce il Contini.
Di «memoria poetica», fermentante nel crogiuolo della
invenzione linguistica della Commedia, aveva già parlato,
con la consueta acuta acribia, Gianfranco Contini, nel 1965 (ora
in Unidea di Dante, Einaudi); Vallone, dilatandone i confini,
acquisisce e riconduce a quellalveo referti e reperti di origine
più comunemente e quotidianamente sensoriale, «uditiva
e visiva». Occorre una buona volta chiarire afferma
preliminarmente in Cultura e memoria in Dante «al di
là delle ricerche erudite e comparativistiche, benemerite
in molti casi, quali siano in realtà e quali possano essere
considerate le fonti, da cui Dante sugge la cultura, chè
di per sé vasta e profonda, e le vie di apprendimento e le
suggestioni ispirative. E un cammino in gran parte nuovo,
che può mettere ancora più in evidenza le qualità
precipue di Dante come poeta e come uomo del Medioevo». Un
cammino, appunto, che Vallone qui ripercorre con tale dovizia di
documenti, di riscontri, di argomenti da stupire persino Jean Leclercq,
che esclama: «Cera dunque ancora del nuovo da dire».
E il nuovo scaturisce dalla minuziosa e calibrata esplorazione
valloniana delle fonti indirette e mediate, cui limmaginazione
del poeta e la dottrina dellintellettuale hanno potuto attingere,
per poi distillarne personalissimi squarci fantastici, originali
spezzoni semantico-stilematici, impervie assunzioni di pensiero.
Tutto rifluisce nella fucina del poeta e nel laboratorio del teoreta
che rimedita sui problemi del suo tempo, con uno sguardo che insieme
li trascende.
Se si escludono gli anni della giovinezza fiorentina, allombra
del suo «bel San Giovanni», gli anni della poetica del
«vasello» e dell«incantamento» sognante
(«Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io»), il resto della
non lunga esistenza del poeta è segnato dalle inique e dure
traversie dellesilio, «per le parti quasi tutte dItalia»,
«legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti
e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade»
(Conv. I, 3). Traversie che ben poco potevano concedere a metodiche
compulsazioni di fonti scritte, a sistematica e rasserenante frequentazione
di biblioteche o sedi affini, con la fugace eccezione del soggiorno
in Lunigiana, poi presso gli Scaligeri e infine a Ravenna. A Firenze
aveva seguito gli insegnamenti dei domenicani, in S. Maria Novella,
dei francescani, in S. Croce, degli agostiniani a Santo Spirito,
sempre inseguendo la «donna gentile» (la Filosofia,
«scientia omnium rerum») per dove «ella si dimostrava
veracemente»; e la rincorse, sempre da giovane, anche a Bologna,
decisiva, questa dimora pur breve, sia in merito al problema del
«volgare illustre» quanto in relazione alle idee politiche
del De Monarchia; oltre che per le indirette eterodosse derivazioni
da Sigieri di Brabante («che leggendo nel Vico de li Strami
/ sillogizzò invidïosi veri»).
Quella fame di scienza del poeta va oltre la soglia della spensierata
giovinezza e si accompagna con lexul immeritus, insaziata
e tormentosa, sicché, dove non lo soccorre più la
immediata consultazione della fonte scritta, gli viene prodigiosamente
in aiuto la «memoria uditiva e visiva». Non ha definito,
Dante, la memoria «il libro che il preterito rassegna»?
E il suo tramite naturale non è che quello del senso, secondo
la dottrina aristotelico-tomistica, che in Dante si coniuga con
lintuizionismo di Ugo di San Vittore e la teoria bonaventuriana
dei lumina: «Così parlar conviensi al vostro
ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò
che fa poscia dintelletto degno»; né, ancora,
«fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso». Pertanto,
seguendo il catturante itinerario di Vallone, «la cultura
di Dante, in definitiva, non è libresca, ma è uditiva,
prevalentemente, fondata sulla memoria: un finissimo esercizio di
sentire e ascoltare, di ritenere e riordinare». Conclusione,
peraltro, cui era già pervenuto, per via intuitiva, Riccardo
Bacchelli: «Penso che Dante componesse a memoria. Gli esercizi
e le virtù della memoria fra gli uomini del suo tempo erano
continui e grandissimi, e Dante aveva in testa tante rime quanti
sillogismi» (cit. da Vallone).
Comè ormai acquisito da tempo, grazie agli studi del
Nardi, di là dalla letterarietà pur eccelsa e dalla
allegoria straordinariamente intensa, il Poema sacro è anzitutto
una «visione profetica», che Dio ha concesso a Dante
«per grazia singolare», al fine ben preciso che egli,
conosciuta la verità sulla «cagione che il mondo ha
fatto reo», possa denunciarla senza remora alcuna. Lo rincuora
perciò Cacciaguida: «Coscienza fusca / o de la propria
o de laltrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca.
/ Ma nondimen, rimossa ogni menzogna, / tutta tua vision fa manifesta,
/ e lascia pur grattar dovè la rogna»; e più
innanzi, al culmine della visione, glielo impone lapostolo
Pietro: «E tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù
tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel chio non ascondo».
Il Boccaccio poteva dunque scrivere pensando a Dante: «poesia
ex sinu Dei procedens» (poesia che proviene dal grembo stesso
di Dio).
Nel solco tracciato dal Nardi sinnesta ora, con esiti ulteriormente
stimolanti, la dotta ricognizione valloniana sulla natura e le modalità
del rapporto tra Commedia e Apocalisse: natura composita, pur nella
sua evidente presenza in Dante, che il nostro studioso ricostruisce
e definisce nellampio contesto della cultura esoterica e teologica
delletà di Dante: cultura filtrata attraverso la explanatio
della visio giovannea, elaboratane da Gioacchino da
Fiore, «di spirito profetico dotato», e, più
aderentemente, attraverso la riduzione sermocinante di Pietro Giovanni
Olivi e Ubertino da Casale (già insegnanti nella scuola di
S. Croce, a Firenze), entrambe memorizzate simpateticamente da tempo.
La tecnica visionaria dellApocalisse era già presente
pur se in funzione puramente letteraria, nella struttura lirico-narrativa
della Vita Nuova (cap. XXIII, 4-6) mentre poi, nellimpianto
dottrinariamente ben più ambizioso della Commedia, la sua
funzione riveste toni di un messianismo polemico di segno civile
e politico oltre che etico e religioso. Il richiamo al veggente
di Patmo è persino nominale nella celebre invettiva che esplode
nella malabolgia dei Simoniaci: «Di voi, pastor, saccorse
il Vangelista, / quando colei che siede sopra lacque / puttaneggiar
coi regi a lui vista» (Inf. XIX). Ma lanalisi comparativa
di Vallone si fa più particolareggiata e puntuale per i canti
del Purgatorio (XXIX e XXXII), che hanno come oggetto rappresentativo
la processione che, per simboli, riproduce la storia
della Chiesa e parallelamente la storia dellumanità.
Dante, tuttavia, mostra di rifuggire dal pessimismo del testo giovanneo,
perché, come già il Veltro, nelle parole di Virgilio
ai piedi del colle, ora «un cinquecento diece e cinque, /
messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con
lei delinque» (Purg. XXXIII).

Sulle dodici lecturae, comprese nella raccolta Strutture
e modulazioni nella Divina Commedia, colpisce la particolarità
dellangolazione che ne costituisce il supporto critico-ermeneutico:
unulteriore verifica della varietà nellunità
e insieme della unità nella varietà, a
conferma del postulato della eccezionalità delle punte conoscitive
del poema dantesco, nel quale si intersecano e interagiscono il
particolare e il generale, il personaggio
singolo (o linsieme dei personaggi) e lambiente,
il segmento episodico e lideazione complessiva; insomma la
struttura e la poesia, lideologia e lo stile. Restringendoci
a qualche esempio: la lectura del canto di Marco Lombardo
(Purg. XVI) muove, tuttora, a polemiche riflessioni, ad amari bilanci.
A spiegazione del tralignamento del mondo umano, limpietoso
jaccuse di Dante non è rivolto ai sudditi, ai governati,
ma ai governanti, ai detentori del potere, alle «più
alte cime» della gerarchia politico-sociale. E il leit
motiv variamente riemergente lungo il percorso delleccezionale
viator, «che al divino dallumano, / a letterno
dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano».
Pertanto, non può ritenersi casuale la centralità,
per dir così topografica, di questo canto del Purgatorio
nella struttura poetica della Commedia: «tanti canti prima,
tanti canti dopo e con lieve differenza di versi tra le due parti»;
come non è casuale rileva ancora Vallone «che
nel canto si concentrino, in solidissima sintesi, non solo tutti
i temi del tempo di Dante, ma anche quelli delluomo Dante,
che più hanno inciso nella vita sua».
La lectura compresa nella silloge (Inf. XXVI) ci riporta
alla figura di Ulisse, a tuttoggi la più suggestivamente
problematica e pungente, tra le tantissime che popolano laldilà
dantesco: dal «fortissimo sapore autobiografico». E
lidentificazione dellauctor e dellagens rimbalza
subito dallincipit («Godi, Fiorenza, poi che sei sì
grande / che per mare e per terra batti lali, / e per lo inferno
tuo nome si spande!»), lampeggiante di micidiale sarcasmo,
appena temperato, poco dopo, e ribaltatosi in struggente pensosa
accoratezza («E se già fosse, non saria per tempo.
/ Così fossei, da che pur esser dee! / ché più
mi graverà, com più mattempo»).
Veramente, «per questa via e in questo canto, la Commedia
divina è lumana Commedia di Dante personaggio e attore».

Linterpretazione che suggerisce Vallone si scosta notevolmente
dalla critica tradizionale che risale al De Sanctis e poi al Fubini,
per ricondurre il personaggio di Ulisse e la sua fame di conoscenza
«entro le ideologie e i limiti medievali»; o più
propriamente, allinterno di tre aree semantico-simboliche,
proprie di lui, ossia del suo ardore «a divenir del mondo
esperto, e de li vizi umani e del valore»: il viaggio, il
mare, la montagna. Questa lectura restituisce in tal
modo al canto dantesco una tensione drammatica, risolutivamente
storicizzata, e dunque ben più realistica e pregnante della
emblematizzazione del laico romantico, sicché
per essa la Commedia assume, in gran parte, il travaglio del Convivio,
il quale, proprio ad apertura, detta il tema generale di «virtude
e conoscenza», attraverso il concetto del suo maestro (Aristotele):
«tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere».
Ripercorrendo, appena sussultim, il quarantennio della lucida passione
dellinsigne salentino per Dante, si è qui cercato di
restituirne al vivo la intensità, in tempi come i nostri
in cui la nostra maggior Musa rischia di essere offuscata, non soltanto
nella coscienza nazionale ma nelle stesse istituzioni specifiche,
la scuola e luniversità, con gravissimo pregiudizio
sulla formazione integrale della gioventù, che entrerebbe
nella vita intellettualmente azzoppata.
Non meno imponente del lavoro su Dante è laltro sulla
Storia della letteratura meridionale (Napoli, CUEN, 1996), pressoché
coevo nellaccumulo di dati, di ricerche particolari, di contributi
specifici su autori, opere, movimenti della cultura del Mezzogiorno,
che in questa articolatissima poderosa sintesi hanno infine trovato
organica sistemazione. Per intenderne mole e meriti, può
giovare il passo crociano tratto dalla Storia del Regno di Napoli
(Avvertenza), apposto da Vallone ad apertura e in qualche modo introduttivo
alla lista delle Schede di appoggio e di più frequente
riferimento: «I lavori di storia, quando procedono in
modo pensato e critico, debbono [...] presupporre quel che già
si ha nei libri sul soggetto trattato e dare solo quel che di nuovo
si crede di poter fornire in proposito per la migliore e più
completa intelligenza dei fatti».
Inoltre anche per questa impresa la griglia storico-critica è
ancora la lezione vichiana, in forza della quale si accerta il vero
con lautorità della filologia, e si avvera il certo
con le ragioni della filosofia; senza ignorare lapertura metodologica
di Carlo Dionisotti (Geografia e storia della letteratura italiana),
che anzi, è lecito dire, legittima laspetto più
radicalmente innovativo, perché abbraccia tutte le regioni
meridionali, e in virtù della quale, per il tramite delle
opere, si pongono in luce «certi segni dellanimo»
delle medesime (citando Alvaro).
Gli estremi dellenorme arco diacronico vanno dai secoli XII-XIII,
con la segnalazione delle preminenze, nel processo dialettico dello
sviluppo storico, «lelemento federiciano e religioso»,
interagente con le «tradizioni classiche e testimonianze volgari»,
sino ai secoli XIX-XX, materia della Parte Quinta, che
chiude con lanalisi puntualizzante degli ismi
(Decadentismo, Crepuscolarismo, Futurismo, DAnnunzio e il
dannunzianesimo, Ermetismo).
Nella valutazione critica dei testi, il discorso di Vallone non
può non risentire dei salutari effetti sia del superamento
della dicotomia estetica crociana che dei condizionamenti realistico-romantici
del De Sanctis, al cui storicismo, peraltro, si riconosce lenorme
importanza di avere, a Napoli, conferito «tempra al filologismo
di pura tecnica». Ne discende linteresse del nostro
storico per la individuazione delle sottese o esplicite ragioni
civili operanti nella sensibilità letteraria degli scrittori
meridionali: interesse che per Vallone nasce dalla consapevolezza
delle particolari vicende storiche e socio-politiche del Regno di
Napoli, sino allUnità rimasto uno Stato a sé,
con strascichi strutturali che il processo di identificazione nazionale
ha, a lungo, tardato a risolvere. La monarchia di tipo feudale ha
distorto, dopo la breve parentesi illuminata del Grande Federico,
la via maestra dellamalgama tra Mezzogiorno e regioni centro-settentrionali.
Il Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, rammentando la fatale
degenerazione dellordinamento generale, aveva scritto: «Il
Machiavelli giudicava la genia dei gentiluomini o baroni di cui
era pieno il Regno di Napoli, e che non esercitavano né arti
né commerci né curavano la cultura delle terre, ma
avevano castelli e sudditi che loro ubbidivano, «uomini del
tutto nimici di ogni civiltà», a cagione dei quali
in quelle province «non era mai stata alcuna repubblica né
alcun vivere politico», talché, chi volesse introdurvi
queste cose, dovrebbe in primo luogo «spegnerli tutti»
(Discorso sopra la prima deca, I, 55).
Ma noi, ora, sappiamo che a spegnere quei «del tutto nimici
di ogni civiltà», non ci riuscirono, pacificamente,
i «patrioti» del 99, ma saranno questi a restarne
«spenti» dalla feroce reazione borbonica e sanfedista.
Per tale condizione storica, la cultura meridionale ha assunto caratteri
marcatamente specifici; anche per propizi effetti delle sue radici
che risalgono a epoche favolose, magno-greche e mediterranee, già
oggetto della esplorazione fantasiosa del Cuoco (col suo Platone
in Italia) e della ricognizione filosofica del Gioberti (nel suo
Primato morale e civile degli italiani). Il filo rosso
perseguito dal Vallone nel suo fluviale excursus è il concetto
della meridionalità o napoletanità,
come categoria culturale immanente nella coscienza degli scrittori,
e che come tale ridimensiona classicismo e petrarchismo, influenti
in linea mimetico-subalterna, ossia in «dinamica opposizione»
con le tendenze egemonizzanti dei centri culturali più accorsati
come Firenze. Il dialetto espressionistico del Basile, per citare
un esempio tra tanti, rappresenta, oggettivamente, un segnale di
rivolta, come già «lelemento federiciano»
leresia del laicismo. Opposizione dinamica più diffusa,
con Pontano, Sannazzaro, De Ferrariis, il quale ultimo, al tempo
stesso rigetta sia la latinità ciceroniana («illaboratus
est sermo meus, non exquisitus, non elegans») sia, nella Esposizione
del Pater noster, la lingua del Petrarca e del Boccaccio, per optare
per «quella medesima lengua che ho imparato da mia madre»
(«lengua inornata e ruginosa»). Lingua madre, adoperata
da un altro sedizioso meridionale, Masuccio Salernitano,
che se ne serve sia per sferzare la «scelerata vita»
della gente di Chiesa (la protesta luterana è imminente),
sia per celebrare «istorie di singulare vertù».
Sui marinisti salentini, da Ascanio Grandi in giù, Aldo
Vallone non è tenero, non si lascia prendere dalla voglia
sfrenata di improvvisarne una originalità; la loro più
naturale destinazione è la muffa delle biblioteche, per quanti
intendano crogiolarsi con i valori retorici e formalistici. Il Mezzogiorno
che resiste sempre e comunque è quello degli illuministi,
per il loro spessore civile ed etico-politico: Giannone, Genovesi,
Palmieri, Mario Pagano, con i quali sinaugura unosmosi
ideale tra la cultura europea più avanzata e la intellettualità
meridionale di punta: con i philosophes, con i riformisti tedeschi,
con i costituzionalisti inglesi, da Montesquieu a Rousseau, da Mably
a Diderot, da Locke a Hume, da Condillac a DAlembert, da Voltaire
a Morelly. Solida sponda di approdo, la scuola di Antonio Genovesi,
cui affluiscono, per uscirne irrobustiti nelle idee e nei progetti
riformatori, metropolitani e provinciali (calabresi, molisani, pugliesi),
moderati (Galanti, Longano, Palmieri, Delfico, Filippo Briganti)
o giacobini (Filangieri, Grimaldi, Pagano, Astore), ma tutti patrioti,
a vario titolo, e i più generosi sino ad affrontare la forca
o il carcere, non escluso il fasanese Ignazio Ciaia.
Sì, veramente stagione luminosa, irripetibile, della vita
e della cultura meridionale, sulla quale lo stesso Vallone ha allestito
unampia documentazione testuale ed esegetica, in due massicci
tomi, limitatamente ai salentini Tommaso e Filippo Briganti, Giovanni
Presta, Giuseppe Palmieri, Francesco Antonio Astore, Ignazio Falconieri
e altri minori (nella Biblioteca salentina di cultura, Lecce, Milella,
1983 e 1984).
Lexcursus valloniano prosegue, lasciando magistralmente intersecarsi
i sentieri della cultura in senso lato, anche politica e filosofica,
e quelli più propri della letteratura, al fine di offrire
del Mezzogiorno limmagine più compiuta possibile, sì
che se ne ricavi, ad posteros, robusta coscienza critica nella persistenza
della memoria storica: coscienza e memoria, vigili e vindici, oggi
più che mai, e ben presenti lungo la faticosa tela di questa
Storia della letteratura meridionale.
Ma in questa occasione, non posso tacere delluomo Vallone,
come mi è accaduto di conoscerlo e praticarlo io: un esemplare
di linearità e coerenza comportamentale, di schietta umana
cordialità. E stato il mio preside, allinizio
del mio insegnamento liceale al Palmieri di Lecce. Una
mattina, senza alcun preavvertimento, come a quel tempo (anni Cinquanta)
era doveroso fare, mi colse di sorpresa nellaula I B (un gelido
stanzone della vecchia sede del Convitto Nazionale, in piazzetta
Carducci), intento a tenere la mia lezioncina sullo Stil Nuovo.
Io interruppi, ma egli minvitò a proseguire; quindi
porse il saluto alla scolaresca, non senza qualche parola di consenso
nei miei confronti. Era il rito della ispezione per il passaggio
dallo straordinariato all ordinariato,
con conseguente ambita progressione economica. La esecrata (dai
furbastri demagoghi) Riforma Gentile imponeva ancora questo rigore
di procedimenti di verifica, nonostante le già superate forche
caudine concorsuali; forche caudine, bandite con decreto ministeriale
26 agosto 1957, tra le quali si rischiò implacabilmente di
rimanere incastrati a metà, per luna o per laltra
prova scritta (brutalmente insidiosa la seconda, da stendere in
lingua latina sui Caratteri della letteratura romana delletà
argentea); fu il rischio di un candidato diventato poi italianista
insigne alla Sapienza di Roma. Rigore di tempra
idealistica, che non dispiaceva a tanti antifascisti della
scuola del Ventennio, da Fabrizio Canfora a Stefano Giordano, da
Tommaso Fiore a Carlo Muscetta, così vivamente era sentito.
Poi perdurò negli anni tra i Cinquanta e i Sessanta il rovello
della responsabilità professionale verso se stessi prima
ancora che verso gli altri; e ciò chio dico di me,
«che di necessità qui si registra», di sé
intendono, più o meno, gli altri della mia generazione.
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