Marzo 2003

IMMEMORIALI LUOGHI DI CARMELO BENE

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Otranto pura nostalgia
Antonio Errico
 
 

 

 

 

Poi Carmelo Bene
va al di là di Otranto. Ma non per andare verso un altro luogo. Al di là di Otranto
c’è solo l’orizzonte
del nulla.

 

Con il tempo la memoria si trasforma: evapora, diventa quasi come nuvola, un alone che a volte avvolge, tenero, leggero, oppure una cappa che stringe, come in una morsa.
Con il tempo la memoria si deforma, oppure si conforma all’esistenza: assume i suoi stessi movimenti, le sue paure, le sue ansie, le illusioni, le delusioni, i sogni, le storie, le passioni grandi e piccole, tutto quello che è accaduto, tutto quello che si è pensato, vissuto, attraversato, giorno dopo giorno, istante per istante.
Dice Gabriel García Màrquez: «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».
Spesso la memoria è legata a un luogo, a un luogo simbolo, una bolla colorata, reale e irreale nello stesso tempo, immagine e riflesso del tutto e del niente, un luogo senza spazio e senza tempo, dove tutto può avere inizio e conclusione, dove tutto ha un senso ambiguo, indefinito, dove tutto a un certo punto diventa nostalgia. Dove tutto si trasforma in un racconto.
Per Carmelo Bene questo luogo è Otranto. Ma Otranto che non è mai stata, che non è, che non potrà essere mai perché è un puro luogo della mente, la creazione di una fantasia, una trasognanza, un’immagine, un riflesso di leggenda.
Otranto è una mescolanza, il crocevia di ogni ragione e di ogni mistero; chiesa per le preghiere di ogni religione; porto di tutte le bestemmie in ogni lingua.
Otranto magnifico, religiosissimo bordello, dice.
Culla delle storie estromesse. Lutto oltremare.
Dice: «Ci si trova immersi in qualcosa che mai ebbe un inizio: un’etnia spostata a una vita immaginaria».
Poi Carmelo Bene va al di là di Otranto. Ma non per andare verso un altro luogo. Al di là di Otranto c’è solo l’orizzonte del nulla; al di là di Otranto c’è la dispersione, il naufragio, comunque l’incognita della deriva. Al di là di Otranto c’è soltanto il mare come metafora dell’infinito e dell’inconoscibile.
Però occorre andare oltre Otranto. Dev’essere così, inevitabilmente.
D’altra parte, un luogo in cui le storie sono state estromesse non può contenere, accogliere, custodire una memoria legata alle storie, meno che mai legata alla Storia.
Per rintracciare l’archetipo di una città dal quale far discendere la Otranto di Carmelo Bene, si deve probabilmente superare qualsiasi riferimento reale, qualsiasi descrizione identificabile con un luogo fisico e cercare in una dimensione rarefatta, come può essere quell’immagine fluttuante generata dalla visionarietà de La notte di Dino Campana, che Bene ha amato e studiato.

Una vecchia città. Arsa nella pianura sterminata nell’agosto torrido. Una città che sopra il silenzio «riviveva il suo mito lontano e selvaggio», che ha straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi, una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute. Una città in cui a un certo punto «del tempo fu sospeso il corso».
Dino Campana. Carmelo Bene. Un luogo dove il tempo sospende il suo corso. Un luogo senza tempo. Un mito. Dove tutto è possibile o impossibile, indifferentemente. Dove tutto può accadere istante per istante o nulla accade mai, indifferentemente.
Un luogo indifferente al tempo che trascorre.
La Storia, allora, diventa soltanto il pretesto per una riscrittura nella forma di una fiaba parodistica; l’assedio di Otranto soltanto l’occasione per la messa in scena di una dissacrazione – e di un’esecrazione – del presente frenetico e, allo stesso tempo, immobile, paralizzato dall’insignificanza, dall’insipienza dei suoi risultati banali e triti, espressioni della decadenza.
Il tempo della Storia è un tempo rappreso e, in quanto tale, privo della possibilità di costituirsi come motivo o come oggetto di conoscenza, e ancora meno come condizione di saggezza.
La Storia è un palcoscenico deserto, abbandonato, disertato da attori e spettatori.
Le impronte che rimangono sugli strati secolari di polvere non sono riconoscibili, non appartengono a nessuno, quindi non hanno – non possono avere – alcuna funzione, se non quella di dare impulso ad una forma di menzogna e di finzione, come il teatro, il romanzo.
E’ in queste due forme che la riscrittura di Bene si realizza, si fa concreta espressione.
«Riscriverti», dice in Nostra Signora dei turchi: nella tensione di una speranza di eterna curiosità.
«Riscriverti», senza essere più autore.
Ma nella riscrittura, nell’operazione di trasferimento di concetti, termini, significati, eventi, da un contesto ad un altro, quindi nella decontestualizzazione e ricontestualizzazione (o meglio, forse, nella disintegrazione e nella rigenerazione) delle immagini, delle tracce, degli elementi di conoscenza, dei riflessi dell’esperienza, delle icone, l’evento della storia perde le coordinate spaziali e temporali, si amplifica, si slarga e si rende disponibile ad ogni interpretazione, ad ogni incipit di narrazione, a qualsiasi manomissione della fabula, ribaltamento dell’intreccio, riformulazione del finale.
A quel punto la Storia non è più Storia; non porta dentro sé e non comporta più memoria. A quel punto assume la fisionomia enigmatica del mito che non ha avuto inizio e che non avrà conclusione perché svincolato dal rapporto, dalla relazione con la memoria, affrancato dalla subordinazione ad essa.

Come per Fernando Pessoa anche per Carmelo Bene il mito è il nulla che è tutto.
Ecco, allora, che l’assedio di Otranto si trasforma in una combinazione di coincidenze governate dal caso e dal caos, che bruciano ogni nesso logico, che si manifestano come proiezioni della mente, figurazioni dell’immaginazione, apparizioni e sparizioni istantanee cariche di potenziale semantico e simbolico, stratificate di significati, quasi espressioni di un processo onirico o schizofrenico, collocate in un tempo che ha la stessa consistenza del pulviscolo di una lama di luce, di un riflesso, una trasparenza.
Il passaggio, dunque, è questo: dal passato alla memoria; dalla memoria al mito. E il mito è senza memoria. Il mito è immemoriale.
Nel mito tutto può trasformarsi e divenire altro, incessantemente, e tutto può restare immobile e immutabile in eterno.
Con questo passaggio Carmelo Bene stringe il senso di questa terra liminare, confinante con il mare, confusa con il mare, di questa terra che nelle sue viscere risucchia e azzera il tempo per poi resuscitarlo in un’atemporalità che si materializza nel levitare immateriale di fra’ Giuseppe Desa. Oppure nelle madonne di cartapesta, biondissime come Cerere, meravigliose, un po’ pagane.
Ecco quindi che il mito diventa rivelazione dell’essenza della terra: un’essenza che resiste alla trasformazione dei paesaggi, delle forme di pensiero, a quella continua somma di elementi prodotti dal tempo cui corrisponde una costante sottrazione di senso.

   
   
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