Poi Carmelo Bene
va al di là di Otranto. Ma non per andare verso un altro
luogo. Al di là di Otranto
cè solo lorizzonte
del nulla.
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Con il tempo la memoria si trasforma: evapora, diventa quasi come
nuvola, un alone che a volte avvolge, tenero, leggero, oppure una
cappa che stringe, come in una morsa.
Con il tempo la memoria si deforma, oppure si conforma allesistenza:
assume i suoi stessi movimenti, le sue paure, le sue ansie, le illusioni,
le delusioni, i sogni, le storie, le passioni grandi e piccole,
tutto quello che è accaduto, tutto quello che si è
pensato, vissuto, attraversato, giorno dopo giorno, istante per
istante.
Dice Gabriel García Màrquez: «La vita non è
quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come
la si ricorda per raccontarla».
Spesso la memoria è legata a un luogo, a un luogo simbolo,
una bolla colorata, reale e irreale nello stesso tempo, immagine
e riflesso del tutto e del niente, un luogo senza spazio e senza
tempo, dove tutto può avere inizio e conclusione, dove tutto
ha un senso ambiguo, indefinito, dove tutto a un certo punto diventa
nostalgia. Dove tutto si trasforma in un racconto.
Per Carmelo Bene questo luogo è Otranto. Ma Otranto che non
è mai stata, che non è, che non potrà essere
mai perché è un puro luogo della mente, la creazione
di una fantasia, una trasognanza, unimmagine, un riflesso
di leggenda.
Otranto è una mescolanza, il crocevia di ogni ragione e di
ogni mistero; chiesa per le preghiere di ogni religione; porto di
tutte le bestemmie in ogni lingua.
Otranto magnifico, religiosissimo bordello, dice.
Culla delle storie estromesse. Lutto oltremare.
Dice: «Ci si trova immersi in qualcosa che mai ebbe un inizio:
unetnia spostata a una vita immaginaria».
Poi Carmelo Bene va al di là di Otranto. Ma non per andare
verso un altro luogo. Al di là di Otranto cè
solo lorizzonte del nulla; al di là di Otranto cè
la dispersione, il naufragio, comunque lincognita della deriva.
Al di là di Otranto cè soltanto il mare come
metafora dellinfinito e dellinconoscibile.
Però occorre andare oltre Otranto. Devessere così,
inevitabilmente.
Daltra parte, un luogo in cui le storie sono state estromesse
non può contenere, accogliere, custodire una memoria legata
alle storie, meno che mai legata alla Storia.
Per rintracciare larchetipo di una città dal quale
far discendere la Otranto di Carmelo Bene, si deve probabilmente
superare qualsiasi riferimento reale, qualsiasi descrizione identificabile
con un luogo fisico e cercare in una dimensione rarefatta, come
può essere quellimmagine fluttuante generata dalla
visionarietà de La notte di Dino Campana, che Bene ha amato
e studiato.

Una vecchia città. Arsa nella pianura sterminata nellagosto
torrido. Una città che sopra il silenzio «riviveva
il suo mito lontano e selvaggio», che ha straducole antichissime
lungo le mura di chiese e di conventi, una piazzetta deserta, casupole
schiacciate, finestre mute. Una città in cui a un certo punto
«del tempo fu sospeso il corso».
Dino Campana. Carmelo Bene. Un luogo dove il tempo sospende il suo
corso. Un luogo senza tempo. Un mito. Dove tutto è possibile
o impossibile, indifferentemente. Dove tutto può accadere
istante per istante o nulla accade mai, indifferentemente.
Un luogo indifferente al tempo che trascorre.
La Storia, allora, diventa soltanto il pretesto per una riscrittura
nella forma di una fiaba parodistica; lassedio di Otranto
soltanto loccasione per la messa in scena di una dissacrazione
e di unesecrazione del presente frenetico e,
allo stesso tempo, immobile, paralizzato dallinsignificanza,
dallinsipienza dei suoi risultati banali e triti, espressioni
della decadenza.
Il tempo della Storia è un tempo rappreso e, in quanto tale,
privo della possibilità di costituirsi come motivo o come
oggetto di conoscenza, e ancora meno come condizione di saggezza.
La Storia è un palcoscenico deserto, abbandonato, disertato
da attori e spettatori.
Le impronte che rimangono sugli strati secolari di polvere non sono
riconoscibili, non appartengono a nessuno, quindi non hanno
non possono avere alcuna funzione, se non quella di dare
impulso ad una forma di menzogna e di finzione, come il teatro,
il romanzo.
E in queste due forme che la riscrittura di Bene si realizza,
si fa concreta espressione.
«Riscriverti», dice in Nostra Signora dei turchi: nella
tensione di una speranza di eterna curiosità.
«Riscriverti», senza essere più autore.
Ma nella riscrittura, nelloperazione di trasferimento di concetti,
termini, significati, eventi, da un contesto ad un altro, quindi
nella decontestualizzazione e ricontestualizzazione (o meglio, forse,
nella disintegrazione e nella rigenerazione) delle immagini, delle
tracce, degli elementi di conoscenza, dei riflessi dellesperienza,
delle icone, levento della storia perde le coordinate spaziali
e temporali, si amplifica, si slarga e si rende disponibile ad ogni
interpretazione, ad ogni incipit di narrazione, a qualsiasi manomissione
della fabula, ribaltamento dellintreccio, riformulazione del
finale.
A quel punto la Storia non è più Storia; non porta
dentro sé e non comporta più memoria. A quel punto
assume la fisionomia enigmatica del mito che non ha avuto inizio
e che non avrà conclusione perché svincolato dal rapporto,
dalla relazione con la memoria, affrancato dalla subordinazione
ad essa.

Come per Fernando Pessoa anche per Carmelo Bene il mito è
il nulla che è tutto.
Ecco, allora, che lassedio di Otranto si trasforma in una
combinazione di coincidenze governate dal caso e dal caos, che bruciano
ogni nesso logico, che si manifestano come proiezioni della mente,
figurazioni dellimmaginazione, apparizioni e sparizioni istantanee
cariche di potenziale semantico e simbolico, stratificate di significati,
quasi espressioni di un processo onirico o schizofrenico, collocate
in un tempo che ha la stessa consistenza del pulviscolo di una lama
di luce, di un riflesso, una trasparenza.
Il passaggio, dunque, è questo: dal passato alla memoria;
dalla memoria al mito. E il mito è senza memoria. Il mito
è immemoriale.
Nel mito tutto può trasformarsi e divenire altro, incessantemente,
e tutto può restare immobile e immutabile in eterno.
Con questo passaggio Carmelo Bene stringe il senso di questa terra
liminare, confinante con il mare, confusa con il mare, di questa
terra che nelle sue viscere risucchia e azzera il tempo per poi
resuscitarlo in unatemporalità che si materializza
nel levitare immateriale di fra Giuseppe Desa. Oppure nelle
madonne di cartapesta, biondissime come Cerere, meravigliose, un
po pagane.
Ecco quindi che il mito diventa rivelazione dellessenza della
terra: unessenza che resiste alla trasformazione dei paesaggi,
delle forme di pensiero, a quella continua somma di elementi prodotti
dal tempo cui corrisponde una costante sottrazione di senso.
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