Marzo 2003

SCRITTURA COME PITTURA: LE PROSE LECCESI DI LINO PAOLO SUPPRESSA

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La memoria
e il suo ritratto
Antonio Mangione
 
 

Esiste in Suppressa
memorialista di se stesso la riscoperta del leccese universo delle sue prime età come risolutiva
fatalità di vita
e di arte.

 

Lecce, piccola patria nativa e storico-culturale, mai finita di essere immaginata e appropriata nella pittura di Suppressa, è anche argomento privilegiato delle sue brevi prose autobiografiche.
Esemplari di questo estemporaneo artigianato della parola-pittura (non raro nel Novecento: De Chirico, De Pisis, Scipione, Scialoja, Mafai, ...), fra altri affini sparsamente pubblicati, i testi allestiti per “L’Albero”, Lecce vecchia (52, 1974, pp. 114-127) e Un pittore e la sua città (60, 1978, pp. 119-140).
Essi rinviano a circa tre decenni della storia artistica di Suppressa, per richiami topografico-ambientali (vie, piazze, chiese, labirintici habitat arabizzanti), socio-antropici (figure femminili, contadini, carrettieri, artigiani, bottegai, bettolieri), veteromeridionali illustri e stravolti (arcaico-mitologici, svevi, aragonesi, spagnoli, borbonici), e per sperimentazioni del realismo espressionistico degli anni Cinquanta (Carro, cavallo e carrettiere, 1952; Sartoria, 1955; Ragazze alla finestra, 1956; Giocatori di carte, 1957; Conversazione sulla strada, 1960; ...), e dell’astrattismo visionario e simbolico degli anni Sessanta e Settanta (Cronaca a teatro, 1961-1965; Il tavolo del prestigiatore, 1971; Cabinet de la mer, 1974; ... e puri arabeschi di enigmatica allusività e di affascinata ironia: In ricordo di Carlo V, 1963; Federico II e Costanza imperatrice, 1964; Personaggi aragonesi, 1965; Il commiato del Crociato, 1967; Il Normanno, 1970; Oculata toletta di Costanza imperatrice, 1973; ...). Comprese, in questi ultimi e raffinati esercizi, le prime invenzioni plastico-cromatiche su detriti lignei o polimaterici (tecniche contemporaneamente praticate, per fare qualche noto esempio, da uno sperimentatore visivo come Bruno Munari e dal neoespressionista olandese Karel Appel), nelle quali si accentua l’estraniamento, già realizzato su tela, delle attrazioni storiche, e si esprimono, con rinnovata intenzionalità ludico-totemica, nuove accessioni cultistiche (Hidalgo (omaggio a Vittorio Bodini), 1975; Profeta, 1977; Scipione Ammirato stimmatizza la licenza dei costumi, 1978; ...).
Esiste in Suppressa memorialista di se stesso la riscoperta del leccese universo delle sue prime età come risolutiva fatalità di vita e di arte; condizione renitente a diaspore comune a non pochi intellettuali salentini, specialmente a poeti e ad artisti.
Di questa Lecce, per ciò, egli dà l’unica rivelazione in prosa a lui connaturale e possibile, che è quella mitico-autobiografica, rispecchiante invenzioni e stili della sua pittura. Fondamentale esperienza, riscontrabile, per quanto differenziata, sia nel versante pittorico nazionale (Campigli, Guttuso, Santomaso, Levi, Sironi, Birolli...), pugliese-barese (Cantatore, De Robertis, R. Spizzico...) e pugliese-salentino (Ciardo, Re, Della Notte, Mandorino...), sia in quello letterario, del quale, solo che si tenga conto della contiguità geoculturale di Puglia e Lucania, vanno sottolineate specialmente la poesia in lingua di L. Sinisgalli, R. Scotellaro, V. Fiore, V. Bodini, e quella in dialetto, con significative omonimie-sinonimie di titoli, di A. Pierro (‘A terra d’u ricorde, 1960), P. Gatti (A terra meje, 1976), N. G. De Donno (Paese, 1979).

Lecce vecchia è un rifacimento, in quattro paragrafi, di Geografia della mia città (“Basilicata”, 1-2, 1969, pp. 55-60). Il passaggio dalla prima alla seconda redazione è regolato principalmente da incrementi testuali e da generale rielaborazione visivo-pittorica.
Il primo paragrafo (pp. 114-116) riguarda un itinerario da Porta Napoli ad interni urbani arcaico-popolari, con una galleria di scenari e di figure di un estroso visualismo naturalistico-analogico. Così nei seguenti esempi, riguardino il divertissement di defiguranti accostamenti architettonici («Da fuori l’Arco a Carlo V c’è un’altrettanto monumentale vespasiana in lamiera, di un raffinato liberty, posta sotto l’ombroso ombrello di un gigantesco leccio che la ristora con la sua ombra. La vespasiana mi appare pur essa un castello, e ben più aulico dell’omaggio al grande Imperatore, con quel suo gioco di quinte a difesa della decenza»), o analogie cromatico-luministiche («Oggi poi, lavate le strade come sono di fresco, hanno colori brillanti, e i vecchi monumenti danno al biondo come il grano maturo. E’ la Città, così ondulata nella sua linea architettonica, una messe matura»), e luministico-astratte in funzione compositiva dell’intero quadro («Vedo che il tratto dal largo alla drogheria è deserto. Ma da quanti anni lo vedo sciabolato da quella luce? Sono sempre quelle lame iridescenti, luminose, che si scambiano gli ampi finestroni dei palazzi patrizi con la cupola maiolicata della chiesa, e anche con le più modeste facciate delle case [...]»).
Stessi incanti ad occhi aperti in spazi integrati di figure, fra deserto e silenzio metafisici e quasi ossessivi, mediatore sommo, e ricorrente, De Chirico (esplicitamente anche in Un pittore e la sua città, cit., p. 32: «La ferrovia diveniva deserta e senza voci, con una mestizia metafisica, da mistero dell’ora»):

Ogni tanto passa una carrozzella, e le ruote cerchiate di ferro e gli zoccoli del cavallo fanno sentire tutta la loro purezza metallica, che consegnano al selciato con scintille di fuoco.
Quando c’è silenzio pieno, ecco lì un ciclista, che si staglia sullo sfondo del convitto italo-albanese, che pedala senza avanzare di un palmo. Da quanto tempo pedala non lo so proprio, ma deve essere da parecchio e senza mai lasciare quel posto. Vorrei dargli una mano, farlo partire per togliermi come un peso dallo stomaco, ma ormai non vedo alcuna via d’uscita.

E notazioni ludico-illusionistiche distinguono folclorici tipi eterni della memoria immutabile. Oltre al ciclista, aristotelica macchietta di motore immobile, gl’imbianchini, calcinate immagini dionisiache dai plastici scorci tipizzati («E meno male che a distrarmi appaiono due ridenti imbianchini, inzaccherati di coriandoli bianchi, che si asciugano le bocche col dorso della mano all’uscita dalla mescita»), il droghiere, tautologica marionetta zoomorfa («Ma ecco la drogheria con il droghiere sulla soglia, che si stropiccia, come usa fare, le mani, allunga il collo di qua e di là dalla strada, aggiustandosi il fuoco delle lenti a pince-nez, e poi rientra per riaffacciarsi ancora allo stesso modo. Quando faccio per entrare, si gira e si porta dietro il banco di vendita; mi sembra un corvo con quel suo camice lungo, nero e lucido»), con le sue colorate delizie dentro trasparenti vetri, che la memoria dell’autore artista riporta ad un visionarismo naïf («toglie il coperchio da un vaso di vetro, prende le due margherite e me le porge. Io resto col palmo della mano aperto, e guardo le sferette di cacao perlinate di bianco, che si dilatano e diventano un prato di terra marrone con tanti fiori bianchi. Alzo gli occhi verso il droghiere, nel caso anche lui abbia visto il prato»).

Questa serie episodico-ritrattistica è conclusa dal grande grottesco della processione funebre per la morte del Carnevale, locale «pupazzo, bianco di farina, più morto di un morto», variante del più diffuso topos folclorico della «maschera mortuaria» e dello «spirito inferico e ctonio»4, con dispersione finale di suoni e colori in ultraleccesi labirinti viari d’antica storia, e ad un estremo d’informale tensione rappresentativa:

Dal fondo della via avanza una macchia nera, luttuosa, accompagnata da un suono di tamburelli e grida dolorose, che la sfilacciano e la ricompongono come fosse la tela di Penelope. Io gelo, sto fermo, chiudo gli occhi perché ho paura di guardare. Aspetto che arrivi da me e mi sorpassi. E’ un tempo incalcolabile, e quando socchiudo gli occhi il volto del pupazzo, bianco di farina, più morto di un morto, mi guarda con un sogghigno satanico; è composto sul carretto tirato a mano e inghirlandato e cosparso di scarti di verdura; lo accompagnano nenie funebri che vorrebbero essere comiche e non lo sono. E’ Carnevale, morto, che percorre le strette vie dalla toponomastica suggestiva, mitica, colorata, superstiziosa, favolosa: Idomeneo, Alcantarine, Re Tancredi, Protonobilissimi, Sinagoga, Mondo Nuovo...

Nel secondo paragrafo (pp. 116-120) prevalgono interni domestici con trasfigurate elaborazioni episodiche e concertata attenzione a totalità ambientali, a spazi e figure di vissuta quotidianità. Qui il flusso di memoria tende al richiamo di un nascente erotismo, di prime sensazioni visive-seduttive della bellezza femminile. Per liberarsi dalla paura della funebre processione carnevalesca, si trova, il fanciullo, nella vicina casa delle “signorine”; una di esse lo aveva tirato su da una finestra a piano rialzato; gliene resta come una malia di corpo profumato e di visione di nudo; quest’ultima, forse non immotivatamente, contrappuntata da un rovescio visivo:

[...] mi tese le braccia, io le presi le mani e lei mi tirò a sè e sollevandomi mi depose dentro casa. Un volo breve, che avrei voluto non avesse fine, perché, oltretutto, la giovane donna aveva smosso un delicato profumo di tuberosa che si portava addosso.
[...] due cose mi distraevano al momento, in un tempo breve e ricorrente, ed erano le immagini del rosa del seno che le avevo scorto nell’attimo del sorvolo e il teschio con le scritte, le cui lettere sembravano bastoni minacciosi, fatte col catrame sotto la finestra che, come ho già detto, era ad altezza d’uomo.

L’attrazione per questa «ragazza [...] bella e profumata» è poi replicata nell’apparizione dell’«altra altrettanto bella, con occhi lucenti e neri, con capelli a casco, che da un lato del viso disegnavano un pezzo di falce», obliterata la secondaria sensazione olfattiva, e ricostituita, nelle offerte memorialistiche, la primaria attenzione visiva (si avverta l’inconscio metalinguistico «disegnavano») con assai intensi modi cromatico-lineari, ripresi ancora – non senza suggestioni fin de siècle alla Toulouse-Lautrec, e dei primi del Novecento, picassiane (La toilette, 1906) – nella terza e ultima figura femminile, analogico compendio colto della pierrottiana maschera lunare, in malato eccesso di bianco e nero:

Una delle ragazze, non la mia protettrice, si calca il cappellino a cloche, s’incipria di bianco, che la raffigura a Pierrot malato, mettendo in risalto gli occhioni vellutati e bistrati, si ritocca le labbra col rossetto, si tira la calza, incurante di me che la osservo e fisso lo sguardo sul pezzuolo di carne rosa, nuda, che appare sopra la giarrettiera.

In armonia con questa indugiante ritrattistica femminile – accanto alla «vecchia grossa, pesante, masso di carne con in grembo un gatto enorme, castrato perché non desse scandalo in quel gineceo», come in un incupito materico-fulgente espressionismo scipioniano («Le figlie febbrili, belle, tanto belle che di simili, per quanto ebbi a girare il mondo, non ne vidi altre»), con surrettizi echi enfatici di melodrammismo pucciniano (Manon Lescaut, 1893, libretto di D. Oliva, L. Illica e M. Praga, atto I, arie di Des Grieux: “Tra voi belle” e “Donna non vidi mai”) – sono ripresi gl’interni domestici, i quali, da un’iniziale serialità finesecolare e crepuscolare, trascorrono a divagazioni di meraviglie e miracoli; precisamente, l’originario oggettualismo arredativo e decorativo è commutato in animistico scherzo: un atteggiamento edonistico-defigurativo, che si ritrova in Suppressa astratto pittore di aulici personaggi storici:

E trovavo tutto bello, animato, mosso: l’uccello dal becco lungo, che fioriva su due steli unghiati da una colonnina di gesso; il donnone con le torri in testa per corona, sotto il riflesso del vetro, veniva avanti e si ritraeva, reggendo una accartocciata bandiera mentre posava i piedi su un mansueto ma folto crinato leone, tenuto come scendiletto; i quadri alle pareti, inclinati in avanti, s’inchinavano di più quando mostravo maggiore interesse nel guardarli, come quello col pagliaccio che brandiva alto un coltello e teneva la bocca spalancata; e con codesto personaggio di quadri ve ne erano altri, che certamente raccontavano una stessa storia [quella, ovviamente, di Pagliacci di R. Leoncavallo, 1892]. C’era pure una grossa campànula di metallo posta su una cassetta, che aveva un disco girevole e che avrebbe potuto risucchiare tutto come una pianta carnivora gigantesca.

Altri spettacoli, al filtro di una memoria gratificata di deformate meraviglie: in prospettive aeree d’abbagliante cromatismo («il cielo verde della sera», «i palpabili tramonti di sangue»), la facciata delle Alcantarine, con la «croce in ferro, sbilenca» in cima alla chiesa, e il sottostante bassorilievo della Veronica, che nelle giornate di nuvolo «diveniva panno vero, grosso e rosso con nel mezzo la pallida immagine»; il monello beffarda maschera-mostro («un piccolo pugno batteva al vetro della finestra e un volto coetaneo sgangherato, con le pieghe agli angoli della bocca spalancata a un sorriso seghettato dalla mancanza di qualche dente, mi mostrava una lingua paonazza, lunga da coprirgli il mento»); il comico-ieratico vecchio erogatore d’acqua d’acquedotto; l’ortolano «strabico e di pelo bianco repellente», che «d’estate vende ghiaccio e grattate colorate con sciroppi dai colori meravigliosi, dal turchese al rubino, al bianco, al verde», ma che è sempre disponibile per altri servizi («Indossa una livrea di cocchiere, nera con i bottoni d’oro e in testa un gibus e monta a cassetta del carro funebre»).

Il terzo paragrafo è quello centrale di Lecce vecchia (pp. 120-122). Un singolare tempo d’estate si coniuga con lo spazio cittadino familiare all’artista che vi abitava, nei pressi dell’Arco di Carlo V, e non lontano dall’aprirsi di campestri umori e fragranze. Ma è un guardarvi insolito, che esclude le tipizzazioni figurative dell’estate infocata e arsa di un Sud uguale ad ogni Sud, e si concentra in un tempo diluviano e in un’acquatica Lecce semisommersa. Il mistero di questa apparizione della città è inspiegabile allo stesso autore, il quale rifugge da freudiane analisi, compreso dell’immotivazione, nonché di simile occorrenza, di visioni e sensazioni primarie della vita. Sicché conveniente pare solo osservare come questo rivivente fenomenismo naturalistico si complichi, per gemmazione spontanea, di analogie storico-fantastiche del paesaggio urbano, e come uno scenario di natura, oggettivo e circostanziale, si dispieghi correlativamente ad un altro di colta memoria, e sublime, della città («i segni dell’antica civiltà»):

La vecchia Città si profumava di campagna, e mille campi sembravano mietuti di fresco tra le sue mura. Aveva solo occhi rivolti al cielo, e spazzini (pochi) che spingevano i ponti in mezzo alle vie più centrali.
Erano i ponti delle passerelle di ghisa su piccole ruote, che spinte facevano un rumore terrificante come colubrine, del Grande Imperatore Carlo Quinto qui celebrato, che sparassero. Esse consentivano il passaggio da un lato all’altro della strada divenuta impraticabile. Avevano il passamano e il fondo zigrinato per non renderlo sdrucciolevole; nel mezzo del passamano anche un’asta per accendere il fanale rosso se accadeva di sera. E questo avvicinava nel ricordo lontano il traffico che la Città aveva intrattenuto con la Serenissima, che si era degnata lasciarci come disperato pegno d’amore la via San Marco.
E’ nel pianto della pioggia che la ritrovavamo. Con la fronte dietro i vetri della finestra noi vedevamo questa tomba d’acqua far affiorare i segni dell’antica civiltà.
Il cielo continuava a farsi sciabolare dalla tempesta, e i vascelli di Lepanto correvano in alto, ma, nelle schiarite, ragazzi scalzi uscivano fulminei dai bassi e pestavano pozze d’acqua.

La vecchia città, che «aveva solo occhi rivolti al cielo», come se lassù fosse culminata la sua storia («e i vascelli di Lepanto correvano in alto»: la battaglia di Lepanto del 1571 segna il trionfo dei Cristiani sui Turchi, simbolizzato nella facciata di Santa Croce), è qui rappresentata in chagalliana composizione fabulatoria di natura e storia e mito, il cui assoluto figurale è nell’inseparabilità concreta e stratificata di questi elementi compositivi. La prosa di Suppressa si dà sempre come un notes di pittura, che è pittura di un leccese tuttuno, storico e geografico, e sempre scontati reinventivi automatismi di memoria. La pioggia, schermo deformativo dello sguardo fisico e visiva astrazione, ha ancora altro esito espressivo: vista non più da «dietro i vetri della finestra», ma dalla terrazza, suggerisce artifici di bibliche vedute, un diorama diluviano della città, prefigurazione di una sua reale dispersione e cancellazione:

Da lassù gli si spiegò un paese sconosciuto. La cupola maiolicata di san Luigi sembrava a portata di mano, e grande come una mongolfiera colorata sospesa a metà, in sosta non permessa. Pensò a un mezzo pianeta che si liquefacesse nell’iride della maiolica, sostenuto da un cordone di terrazze da costa africana; l’altra chiesa, proprio di fronte, e le case che aveva accanto crollavano assieme al cielo, infracidite. Infracidite erano le quinte tenute nel cortile del teatro Paisiello, e annerivano le statue di cartapesta.
Era uno spettacolo nuovo, incredibile finanche.

E’ questo uno dei momenti di maggiore astrazione figurativa del paesaggismo urbano di Suppressa, riflesso di un’ideologia negativa delle cose della storia, geometria vuota e bianca intorno a superstiti immagini annerite del passato, che contraddistingue la sua pittura di evocazione storica; se non proprio ricorrenza di quei levigatissimi fossili e legni deposti a riva dal mare, ricercati dall’artista per attingervi o ridestarvi estremi segni umani.

Si alternano, inoltre, all’antico confine di Porta Napoli, tra città e campagna, fantastiche rappresentazioni del passato e del presente. Procedimenti analogici collegano, dentro il recinto della lapide ai Caduti di Dogali, un’agave macabra e decomposti oggetti di rifiuto con massacri e morti di italiani in Africa; e la vista storicamente affascinata e divertita “intravede” nei bassorilievi dell’obelisco a Ferdinando I di Borbone fasti e trionfi d’ancien régime:

bandiere con aste dorate, pennacchi, nappe di velluto, fastose fanfare, ricche uniformi dai complicati alamari, cavalli con le criniere sciolte e i denti scoperti dal morso...

mentre le figure del carrettiere e dei caprai rievocano natura e vita primordiali, in «simbiosi perfetta» con spazi e tempi della «nobile Città». In ogni caso è attiva una prima lingua d’invenzione pittorica, così nell’oggettualismo caotico e policromo del costume storico, come nel vitalismo espressionistico della figura del carrettiere, tipica del Suppressa pittore:

Passò invece ben vivo un carro dalle ruote enormi tirato da un superbo cavallo, con su ritto il carrettiere, gonfio di vino per vincere la pioggia, che cantava a voce spiegata una canzone oscena, presa a prestito da un aedo popolare assai noto, e che diceva della donna che quando invecchia perde ogni virtù, che i peli le si arricciano sul ventre, e la chitarra non le suona più. Un canto, per i tempi che correvano, ben più vistoso di un vessillo sovversivo, provocatorio, una sfida che usciva da un corpo stracarico di energia, che sconfiggeva i putridi umori suoi e altrui.
Con l’acqua i caprai avrebbero ritardato il loro giro per la vecchia Città. Passavano col loro gregge due volte al giorno, mattino e pomeriggio e s’annunziavano col suono di un campanaccio legato al collo della capra capinfila. Il latte era schiumoso nei recipienti quando veniva tirato dalle mammelle con abili mani.

(1 - continua)

   
   
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