Marzo 2003

MEMORIA E POESIA IN ANTONIO ERRICO

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Di oniriche ombre
e regolari frammenti
a.b.
 
 

 

 

Sono passate
le ansie, le attese,
le estati, gli inverni, le idee, le passioni. E i sogni: quelli ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti...

 

Più mi soffermo su queste ultime pagine di Antonio Errico (Angeli regolari, “I libri di Qui Salento”, Guitar Edizioni, Lecce 2002), più mi convinco che i codici espressivi, antichi e nuovi, più autentici di questo Autore sono rappresi nelle due pagine d’apertura, in “Dedicato”, nella parola serica che qui sgorga come per miracolosa partenogenesi, e che in filigrana riverbera dapprima in una sorta di snellissimo propileo saggistico (narrativo, di fatto, con nervature di analisi frutto di cospicue letture) che precede cinque cammei su Toma, Verri, la Merini, Bianciardi e Fiore figlio, e infine nel testo conclusivo, in annales anch’essi narrati, con la sfera del racconto tutta dentro il mondo, dentro la fantastica possibilità di rievocare, di rapportarsi, di reinterpretare elettivamente le proprie convinzioni e verità.

Il formidabile potenziale semantico ed ermeneutico insito in questa scrittura sta, infatti, nella capacità di Errico di trasgredire le norme di una progressiva linearità algidamente saggistica, dalla quale lo affranca anche il suo non volere o non potere schivare la poesia. Con la conseguenza estetica, che già Nietzsche osservava, che «solo sotto gli occhi della poesia si scrive in buona prosa». La poesia, dunque, diviene modalità linguistica di un atteggiamento esistenziale modulato in un arco di tempo che va dai folgoranti anni della prima adolescenza (sigillati dal colpo di pistola alla tempia di Luigi Tenco) alla drammatica cesura della «crepa che si apre all’improvviso», come tattile segno della discontinuità, quando «tante cose sono cambiate... sono passate le ansie, le attese, le estati, gli inverni, le idee, le passioni. E i sogni: quelli ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti».
Allora, l’opposizione della nuda realtà e della poesia è metafisica, nel senso che riposa su una frammentazione del vero e dell’immaginario? Direi di sì, se le significazioni della memoria colludono alle stesse origini del dire (quando esso è poetare), e nell’istante in cui l’effetto principale della scrittura è questa eversione destabilizzante della parola, del sistema codificato di un linguaggio che vorrebbe solo ricapitolare la storia e le storie.

In Errico è tutta fruibile nella sua immediatezza la redenzione del linguaggio come elemento e registro differenziale nei cammei di cui dicevamo. Altro e diversamente per la temperie interiore dello scrittore non potendo essere, comunque. Perché non di letture casuali o di superficie, di approcci mondanamente estemporanei parla Errico. Ma di contiguità e partecipazione dirette, e di non trascurabili complicità (con Verri, con Toma, con Fiore); o di officine accuratamente esplorate (Bianciardi) «seguendone le tracce per tredici anni, con passione e con pazienza, aspettando che il personaggio si completasse senza fretta»; o di condizioni da «onda di delirio» elegantemente trasportate in metafore (Alda Merini), con la follia che dissolve se stessa per mutarsi in «dolore che purifica», con la sofferenza che riemerge in «quintessenza della logica», con la poesia che è «luogo in cui si rinnova il caos originario».

Così, la trasfigurazione espressiva (narrativa) di Errico si realizza non solo nei contenuti e concetti ontologici, ma anche come tensione permanente tra realtà vera e fantasia significante, come «lunga narrazione di una storia che stringe nelle sue trame il passato, il futuro, il presente, l’assente, l’astratto, il concreto, l’incredibile, il vero, l’impossibile, l’accaduto, tutto quello che hai avuto, tutto quello che hai perduto». Cioè tutti gli interstizi (angusti) delle relazioni con l’altro da sé e tutti gli spazi (vitali) delle solitudini dentro di sé. Al modo delle relazioni e delle solitudini dei passeggeri del treno di Caproni, (non a caso, un poeta), di chi sale e chi scende tra stazione e stazione, mentre è sempre nero il buio delle gallerie e sempre trasmutante il paesaggio che snoda la corsa; mentre negli scompartimenti-compartimenti-stagni che separano vite transeunti «i discorsi si intrecciano, come i destini».

   
   
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