Marzo 2003

LETTERA AD ANTONIO ERRICO SU “ANGELI REGOLARI”

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Voci del tempo
squadernato
Pierluigi Mele
 
 

 

 

La lingua provoca guasti, risacche, corti circuiti; può divenire una giostra impazzita che non segue la musica e scaraventa per aria le certezze...

 

Non scrivo del libro, mi sembrerebbe un freddo esercizio di stile, ideale per altri, falso per me. Scrivo sul libro, vale a dire di te con te. Tanto va a finire che parlerò di me con me stesso attraverso il tuo libro. Ma non è forse il destino d’un libro riuscito far parlare di sé chi lo legge? Cos’altro spinge nella vita a regalare un libro che ci appartiene, che ci ha deliziato e scavato, se non il desiderio, la vanità, l’urgenza di raccontarci attraverso interposta invenzione.
Angeli regolari. Me l’aspettavo, non soltanto perché so di lei, perché gli irregolari che hai incontrato, affratellato, smarrito...
Lo stile è in ciò che si perde.
Ecco inconsapevole allora Soriano, in questo come negli altri tuoi libri. Artisti, pazzi e criminali, quel raccontare di pugili, attori, detective, calciatori, ballerini di tango alla frutta. Vita inevasa.
C’è ancora Caproni, c’è sempre. Anelli d’un cerchio nell’acqua, il sasso lanciato è il nome.
E soprattutto Pavese. Questo nitore nel racconto di fumo, tabacco e passaggi di tempo, questo intagliare parole fedeli come intagliare una cornice per un figlio e che dentro, per quadro, ci metta una voce prima che un volto.
Un angelo forse, meglio.

Le assenze. Bisognerebbe inventarsele. Ci risparmieremmo questo pudore stretto, questo sguardo di lupo che non ci fa guardare negli occhi degli altri quando parliamo, sempre persi dietro un non so, un non si può dire, un’ironia per fortuna. Devi perdonare la mia conoscenza barbarica, posticcia di Verri, Fiore, Toma. Incontrati tardi, al momento giusto cioè. Forse questo mi ha salvato dalla memoria, dal guardare con il sangue: la militanza. Divaghiamo un istante.
Onore ai giardinieri dei tao, alla società per fazioni che soccorre il ricordo dei pochi poeti con cui vale la pena scottarsi. Onore al merito, senza arroganza, ironia, con simpatia e rispetto. Ma cosa c’entra tutto questo con l’edizione, la distribuzione, la promozione d’una materia, di un oggetto che manca all’appello e di cui solo importa: il libro. Le parole, i versi, il testo, l’unica ragione per cui di un autore si può accertare la vita. Tutto il resto, la memoria diretta, la confidenza del caso, i tic, le nevrosi, i rifiuti d’amore e di noia, non servono a farlo viaggiare ma a piantarlo nella palla di vetro con l’acqua e la neve artificiale. Una scossa e s’imbianca il souvenir. Scriveva Sylvia Plath: Meraviglia ai tuoi pronipotini. / Niente paura. Non succederà niente.

Se davvero ci importa far leggere Verri a scuola, rileggerlo, regalarlo perché si parli di noi stessi per interposta invenzione, se davvero ci preme che la storia dal Petruzzelli in su non confermi la solita partita a tressette col morto, non serve una stampa, una fotocopia, una sagra, una scampagnata in memoriam, ma un’edizione che si qualifichi come progetto, vero e proprio piano di lavoro, immagine e comunicazione. Tutto il resto continuerà nel frattempo, ciascuno per come sa, con gli strumenti del proprio agire, con i legittimi mi ricordo. Restare altrimenti orfani a lungo, giocherellando con la memoria come Chaplin con il mappamondo, porta appena al rancore, al rimorso, al cuore che scoppia così tra le mani. La militanza, che non attende gli eventi, passerelle, vetrine e madrine cariatidi del potere, sopravvive solo con ciò che è tanto, troppo ancora da farsi con serietà, lasciando fuori dal branco lo spontaneismo, l’approssimazione, il folclore che al solito uccide.
Toma, Verri, Fiore conosciuti tardi. Se ho frequentato Pasolini, Lorca, Pavese, Kafka, Brodskji e non so chi, è per aver vissuto da strabico questa terra, ogni terra comunque. Distacco e stupore, noia e realismo, mai naturalismo. Oltre ogni chiarezza e volontà, perché le cose tornano e ticchettano per i loro ingranaggi, improvvise, e si scopre – ma questo non è mai un passaggio indolore, una cognizione di piacere liberatorio –, si sa che sono le stesse di sempre con un velo, una complicazione che fascina ancora. Noi abbiamo solo la lingua per vestito.
E’ la lingua che agisce, mentre la sfera psicoanalitica, il rapporto all’infanzia, alla soglia, al sesso è appena un ghiacciolo d’estate, un riparo, un ristoro. E’ la lingua il conflitto, il complesso con cui s’intelaia un’ideologia di letteratura, politica e convivenza. Noi abbiamo appunto la lingua come lanterna di Diogene, come prova dell’esistenza tanto di un’epoca quanto del nostro indirizzo. Dei possibili mutamenti. La lingua provoca guasti, risacche, corti circuiti; può divenire una giostra impazzita che non segue la musica e scaraventa per aria le certezze presunte. Semina discariche di segni e asterischi, rimandi, varianti, a capo. Spazi bianchi in sovrabbondanza. Lo sapeva bene Verri. Ma non c’è nulla d’eroico in questa frana che sfida e sposa il nulla per farne letteratura, personaggi sfiniti che tornano a moltiplicarsi, sfrangiarsi negli specchi e nel fango, nella deriva di storie, nomi e nel tempo. Forse è solo un regresso prenatale, un naufragio nel liquido amniotico dove s’inceppano i suoni e la luce è negata, è un farfuglio di contorni indefiniti lo spazio, dove i rumori, i decibel sopravanzano e il fuori dal grembo risuona abbrutito.
Mentre si scrive si riscrive soltanto. D’altra parte sappiamo che il significato è un sasso in bocca al significante.
Sandro Penna: Sempre fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so parlare d’altre cose.
/ Le altre cose son tutte noiose. / Io non posso cantarvi Opere Pie.

Ecco allora il solito, necessario retorico “se”: se tu, un tu generico, non avessi incontrato-vissuto Verri, Toma o Fiore, ti saresti consegnato ad altro e con te l’invenzione. Saresti stato attraversato e parlato altrimenti. Così in balia dell’incongruo, di una certa marea, un autore ha ben poche scappatoie, peggio quando è agito dalla memoria di stagioni generazionali, canzoni, partite, rivolte, figure che per forza restano angeli adesso, morsi di luce in platea, contro il ventaglio dell’assenza, del tempo squadernato, e le orecchie alle pagine sono gli anni, non so se i passati o i nuovi a venire.

Quelli che.
C’è il caro Beppe Viola nel libro. Altra scuola, persa, sdoganata da pecoroni cronisti d’assalto incuranti delle risposte, laureati in tattiche d’audience e cazzeggio. Viene voglia di una certa violenza a guardarli, niente di grave, sia chiaro, ma una scoppola, una rigenerante disoccupazione.
E poi l’elegante Calvino. Rigoroso, luterano nella sua-tua adulta leggerezza. Nell’ordine. Non della catalogazione, ma d’una foschia, un bordone, uno schiumare tra desideri, playback di passioni, fughe e destini alla Wenders.
“Involontariato disposto a tutto”, direbbe mastro il fu Carmelo.
Angeli

   
   
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