La lingua provoca guasti, risacche, corti circuiti;
può divenire una giostra impazzita che non segue la musica
e scaraventa per aria le certezze...
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Non scrivo del libro, mi sembrerebbe un freddo esercizio di stile,
ideale per altri, falso per me. Scrivo sul libro, vale a dire di
te con te. Tanto va a finire che parlerò di me con me stesso
attraverso il tuo libro. Ma non è forse il destino dun
libro riuscito far parlare di sé chi lo legge? Cosaltro
spinge nella vita a regalare un libro che ci appartiene, che ci
ha deliziato e scavato, se non il desiderio, la vanità, lurgenza
di raccontarci attraverso interposta invenzione.
Angeli regolari. Me laspettavo, non soltanto perché
so di lei, perché gli irregolari che hai incontrato, affratellato,
smarrito...
Lo stile è in ciò che si perde.
Ecco inconsapevole allora Soriano, in questo come negli altri tuoi
libri. Artisti, pazzi e criminali, quel raccontare di pugili, attori,
detective, calciatori, ballerini di tango alla frutta. Vita inevasa.
Cè ancora Caproni, cè sempre. Anelli dun
cerchio nellacqua, il sasso lanciato è il nome.
E soprattutto Pavese. Questo nitore nel racconto di fumo, tabacco
e passaggi di tempo, questo intagliare parole fedeli come intagliare
una cornice per un figlio e che dentro, per quadro, ci metta una
voce prima che un volto.
Un angelo forse, meglio.
Le assenze. Bisognerebbe inventarsele. Ci risparmieremmo questo
pudore stretto, questo sguardo di lupo che non ci fa guardare negli
occhi degli altri quando parliamo, sempre persi dietro un non so,
un non si può dire, unironia per fortuna. Devi perdonare
la mia conoscenza barbarica, posticcia di Verri, Fiore, Toma. Incontrati
tardi, al momento giusto cioè. Forse questo mi ha salvato
dalla memoria, dal guardare con il sangue: la militanza. Divaghiamo
un istante.
Onore ai giardinieri dei tao, alla società per fazioni che
soccorre il ricordo dei pochi poeti con cui vale la pena scottarsi.
Onore al merito, senza arroganza, ironia, con simpatia e rispetto.
Ma cosa centra tutto questo con ledizione, la distribuzione,
la promozione duna materia, di un oggetto che manca allappello
e di cui solo importa: il libro. Le parole, i versi, il testo, lunica
ragione per cui di un autore si può accertare la vita. Tutto
il resto, la memoria diretta, la confidenza del caso, i tic, le
nevrosi, i rifiuti damore e di noia, non servono a farlo viaggiare
ma a piantarlo nella palla di vetro con lacqua e la neve artificiale.
Una scossa e simbianca il souvenir. Scriveva Sylvia Plath:
Meraviglia ai tuoi pronipotini. / Niente paura. Non succederà
niente.

Se davvero ci importa far leggere Verri a scuola, rileggerlo, regalarlo
perché si parli di noi stessi per interposta invenzione,
se davvero ci preme che la storia dal Petruzzelli in su non confermi
la solita partita a tressette col morto, non serve una stampa, una
fotocopia, una sagra, una scampagnata in memoriam, ma unedizione
che si qualifichi come progetto, vero e proprio piano di lavoro,
immagine e comunicazione. Tutto il resto continuerà nel frattempo,
ciascuno per come sa, con gli strumenti del proprio agire, con i
legittimi mi ricordo. Restare altrimenti orfani a lungo, giocherellando
con la memoria come Chaplin con il mappamondo, porta appena al rancore,
al rimorso, al cuore che scoppia così tra le mani. La militanza,
che non attende gli eventi, passerelle, vetrine e madrine cariatidi
del potere, sopravvive solo con ciò che è tanto, troppo
ancora da farsi con serietà, lasciando fuori dal branco lo
spontaneismo, lapprossimazione, il folclore che al solito
uccide.
Toma, Verri, Fiore conosciuti tardi. Se ho frequentato Pasolini,
Lorca, Pavese, Kafka, Brodskji e non so chi, è per aver vissuto
da strabico questa terra, ogni terra comunque. Distacco e stupore,
noia e realismo, mai naturalismo. Oltre ogni chiarezza e volontà,
perché le cose tornano e ticchettano per i loro ingranaggi,
improvvise, e si scopre ma questo non è mai un passaggio
indolore, una cognizione di piacere liberatorio , si sa che
sono le stesse di sempre con un velo, una complicazione che fascina
ancora. Noi abbiamo solo la lingua per vestito.
E la lingua che agisce, mentre la sfera psicoanalitica, il
rapporto allinfanzia, alla soglia, al sesso è appena
un ghiacciolo destate, un riparo, un ristoro. E la lingua
il conflitto, il complesso con cui sintelaia unideologia
di letteratura, politica e convivenza. Noi abbiamo appunto la lingua
come lanterna di Diogene, come prova dellesistenza tanto di
unepoca quanto del nostro indirizzo. Dei possibili mutamenti.
La lingua provoca guasti, risacche, corti circuiti; può divenire
una giostra impazzita che non segue la musica e scaraventa per aria
le certezze presunte. Semina discariche di segni e asterischi, rimandi,
varianti, a capo. Spazi bianchi in sovrabbondanza. Lo sapeva bene
Verri. Ma non cè nulla deroico in questa frana
che sfida e sposa il nulla per farne letteratura, personaggi sfiniti
che tornano a moltiplicarsi, sfrangiarsi negli specchi e nel fango,
nella deriva di storie, nomi e nel tempo. Forse è solo un
regresso prenatale, un naufragio nel liquido amniotico dove sinceppano
i suoni e la luce è negata, è un farfuglio di contorni
indefiniti lo spazio, dove i rumori, i decibel sopravanzano e il
fuori dal grembo risuona abbrutito.
Mentre si scrive si riscrive soltanto. Daltra parte sappiamo
che il significato è un sasso in bocca al significante.
Sandro Penna: Sempre fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so
parlare daltre cose.
/ Le altre cose son tutte noiose. / Io non posso cantarvi Opere
Pie.
Ecco allora il solito, necessario retorico se: se tu,
un tu generico, non avessi incontrato-vissuto Verri, Toma o Fiore,
ti saresti consegnato ad altro e con te linvenzione. Saresti
stato attraversato e parlato altrimenti. Così in balia dellincongruo,
di una certa marea, un autore ha ben poche scappatoie, peggio quando
è agito dalla memoria di stagioni generazionali, canzoni,
partite, rivolte, figure che per forza restano angeli adesso, morsi
di luce in platea, contro il ventaglio dellassenza, del tempo
squadernato, e le orecchie alle pagine sono gli anni, non so se
i passati o i nuovi a venire.
Quelli che.
Cè il caro Beppe Viola nel libro. Altra scuola, persa,
sdoganata da pecoroni cronisti dassalto incuranti delle risposte,
laureati in tattiche daudience e cazzeggio. Viene voglia di
una certa violenza a guardarli, niente di grave, sia chiaro, ma
una scoppola, una rigenerante disoccupazione.
E poi lelegante Calvino. Rigoroso, luterano nella sua-tua
adulta leggerezza. Nellordine. Non della catalogazione, ma
duna foschia, un bordone, uno schiumare tra desideri, playback
di passioni, fughe e destini alla Wenders.
Involontariato disposto a tutto, direbbe mastro il fu
Carmelo.
Angeli
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