Giugno 2003

GUERRA E DOPOGUERRA

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La leggenda
dell’indice spartitore
Aldo Bello
 
 

E’ qui, in questo gran lago salato, che quella Storia dovrà fare ritorno,
se intende ritrovare l’armonia perduta dopo sanguinose guerre civili,
laceranti eresie, scismi religiosi, scempi coloniali, ideologie totalitarie.

 

Il conflitto era ancora in corso, e già da tempo si discuteva sul modo di esportare un sistema democratico in un Iraq che non ne aveva mai sentito parlare e che, al pari di altre aree islamiche, tutto o tanto possedeva, tranne gli anticorpi a nuove satrapie. Due erano le linee di pensiero dominanti, l’una e l’altra in rotta di collisione: quella secondo cui gli anglo-americani dovevano replicare l’esperienza condotta con successo in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale; e l’altra, che riteneva necessaria un’amministrazione multilaterale, anche con rappresentanti di Paesi rimasti fuori dalla spedizione, sotto l’egida dell’ONU. I sostenitori della seconda tesi (i maggiori dei quali fortemente interessati da contratti per estrazione di greggio o per fornitura di beni e servizi per miliardi di dollari) consideravano irrilevante che a “pagare con vite e sangue” fossero stati solo gli anglosassoni, né tenevano conto che, da una parte, c’era stato un precedente tutt’altro che edificante, quello della Somalia che, lasciata dagli americani, l’ONU aveva abbandonato a se stessa e ai suoi “signori della guerra” che tuttora la dilaniano per bande armate, e che, dall’altra, Cuba poteva comminare pesanti condanne al carcere e far eseguire fucilazioni dopo processi sommari, mentre la stessa ONU emetteva un pallido comunicato subito irriso dal “faro di luce”, com’è definito dagli inconsolabili paleomarxisti euro-latinoamericani quel campione di libertador che è Fidel Castro.

E meno che mai ai Paesi che formavano l’asse più innaturale della storia moderna (Germania al traino della Francia, col Belgio di complemento, da una parte, e Federazione Russa dall’altra) era sorto il ragionevole dubbio che, appoggiando prima dello scoppio del conflitto l’iniziativa alleata, avrebbero potuto esercitare una pressione decisiva su Baghdad, e nel contempo allontanare l’immagine di un’Europa divisa, costringere Saddam Hussein all’esilio, ed evitare le rovine fisiche e morali di un conflitto armato e degli strascichi post-bellici.
Comunque, se proprio di guerra doveva trattarsi, la domanda preliminare era e resta: chi, fra gli anglosassoni e l’ONU, poteva essere il migliore o maggior portatore di una cultura democratica con i suoi valori, sistemi, metodi e procedure? Ebbene: chi conosce il Palazzo di Vetro newyorkese e le sue agenzie sostiene – non del tutto a torto – che sotto il profilo istituzionale l’ONU non è rapportata veramente ai princìpi democratici. Il suo organismo più importante, il Consiglio di Sicurezza, è un sinedrio la cui composizione (cinque membri permanenti con diritto di veto: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito; e dieci eletti a rotazione ogni due anni) e le cui procedure di voto si basano su rapporti di forza esistenti alla fine della seconda guerra mondiale, vale a dire a sessant’anni fa. Le istituzioni internazionali (Banca mondiale e Fondo monetario internazionale) sono a loro volta rapportate a princìpi “tecnocratici”, nel senso etimologico del termine: a governarle è, appunto, la tecnica, e il cosiddetto controllo democratico viene esercitato non dalle loro assemblee (una sola riunione di tre giorni all’anno) ma dai mercati finanziari che quotidianamente acquistano o meno i loro titoli.

Le altre agenzie specializzate sono “burocratiche”, anche in questo caso nel significato etimologico: dominano gli uffici dei loro Segretariati, a loro volta controllati dagli uffici degli Stati membri. In sintesi: le Nazioni Unite possono trasferire procedure tecniche e amministrative, non valori e princìpi di democrazia.

McArthur portò la democrazia in Giappone e i Viceré di Sua Maestà contribuirono a far diventare l’India dei Punjab e dei Moghul la democrazia più popolosa del mondo perché quei valori e quei princìpi li avevano nel Dna personale ed erano speculari a funzioni morali e libertarie, cioè liberali; non furono allora, e continuano a non essere, valori e princìpi fondanti di un’ONU ormai obsoleta.
Il dibattito è aperto, anche perché è stato carsicamente già avviato sul piano storico e politico, incentrato sull’esperienza dell’“Impero”. Impero è parola che suscita nello stesso tempo repulsione e consenso. In Europa è associata, particolarmente per le forze socialdemocratiche, alla brutalità e all’imperium, cioè alla negazione delle legge universale; mentre all’area conservatrice, soprattutto britannica, piace perché ritenuta fondata su un’autentica superiorità morale. Sicché, considerata nel contesto della spedizione in Iraq, rappresenterebbe la saldatura storica tra l’Impero inglese e la sua presunta filiazione, l’Impero americano, prosecuzione del dominio anglosassone. Questa rappresentazione – è stato scritto – è puro antiquariato vittoriano, ma nel suo revisionismo coglie una verità: nella fase ascendente, i grandi Imperi dell’antichità sono stati anche formidabili globalizzatori e propulsori di progresso.

Questo fu anche l’Impero britannico, iniziato da Disraeli, e ultimo fra gli Imperi occidentali. Che fu sfruttamento coloniale e oppressione, come non avrebbe immaginato il suo profeta, l’inglese nato in India Rudyard Kipling, e quale non avrebbe approvato l’inglese di origine polacca Joseph Conrad, il capitano di navigazione che narrò di avventure e di politica. Ma che in pieno Ottocento fu anche promotore di sviluppo (esportando scuole, ospedali, beni civili, altri servizi di organizzazione sociale), e fu soprattutto protagonista di battaglie di civiltà quali quella dell’esploratore David Livingstone, che risalì lo Zambesi e scoprì i laghi Vittoria, Niassa, Tanganica e Bangweulu, che poi si smarrì in quel cuore di tenebra e ritrovato da Stanley, ma che nel frattempo aveva condotto una vasta campagna contro la tratta degli schiavi. Preceduto, in quest’opera, dal colonnello Samuel White Baker, il quale, per organizzare la prima spedizione antischiavista del Continente Nero, traversò il deserto della Nubia trasportando su affusti di cannone e su centinaia di tronchi di pini di Trieste trainati da cammelli le sezioni di tre piroscafi e di una trentina di grosse imbarcazioni a vela, varandoli nelle acque del lago Alberto, e con questa flotta diede la caccia ai mercanti di carne umana che razziavano uomini, donne e bambini tra Khartum e Gondokoro.

Quando il dittatore dello Zimbabwe, Mugabe, paragona gli attuali dirigenti britannici a queste figure che contribuirono non poco a metter fine a un errore millenario, non va lontano dalla realtà: si avverte ancora oggi l’eco della dimensione etica dell’Impero britannico, sperimentale alchimia di interessi nazionali e di valori universali, di utilitarismo e di idealismo. E cripticamente imperiale sembrò essere il nuovo ordinamento internazionale prefigurato da Londra a partire dal ‘98, e ancor più dal ‘99, nel mezzo della guerra in Kosovo. L’attacco alla Serbia parve voler fondare il telaio di un motore-Occidente a guida anglosassone destinato a scrivere con le armi una legalità rivoluzionaria, con l’ONU chiamata a ratificarla a fatto compiuto. Ma proprio la guerra in Kosovo cominciò a mettere a nudo un nervo sensibile: come hanno suggerito alcuni documenti Nato, in quel ‘99, all’interno dell’amministrazione democratica americana nacque un retropensiero: dopo il Kosovo, la Nato doveva entrare nell’Asia centrale per difendere i diritti umani e abbattere brutali Stati di polizia, ma lungo le rotte di esportazione del petrolio del Mar Nero. Era il progetto di passaggio degenerante da un Impero morale ad uno strumentale.

E’ il Regno Unito, dunque, che può ridare un senso all’Occidente, facendo del suo liberale interventismo diplomatico, e in casi estremi del suo bilanciante interventismo armato uno strumento per concepire l’Impero morale come iniziativa multinazionale, e non come una pura e semplice estroflessione degli Stati Uniti. Perché, in questo caso, la sua visione sarebbe fortemente ridimensionata, diventando simile all’azione di uno qualsiasi dei re di Numidia benvoluti dai Cesari soltanto perché, quando richiesti, fornivano alle spedizioni di Roma un’ottima cavalleria, (sia pure, a differenza, con i vizietti del saccheggio e dello stupro di massa). Sta a Londra ricostruire un solido reticolo tra America e Unione europea, e tra Ue e mondo arabo. Altrimenti, persistendo la frattura lungo la linea di displuvio prodotta dal decisionismo americano, il Regno Unito non potrà essere più un ponte atlantico, né un traino europeo, né un propositivo punto d’incontro e di dialogo con l’Oriente, vicino e lontano che sia, in un Occidente che rischia di entrare complessivamente in crisi.

Leggenda (ma non tanto) vuole che sia stato l’indice di Churchill, alla fine della prima guerra mondiale, a disegnare la mappa del Vicino Oriente, quando vennero tracciati quei confini della Transgiordania, della Siria, dell’Iraq, del Libano, dell’Arabia Saudita, dello Yemen e, poi, della nebulosa di Emirati affacciati sul Mar Rosso e sul Golfo Persico, che fecero tramontare due sogni: quello di una Mitteleuropa estesa da Berlino a Damasco, perseguito da Naumann; e quello di uno Stato arabo unico per il quale aveva perduto la vita (per volontario “fuoco amico”) il colonnello Thomas Edward Lawrence, l’archeologo, orientalista e uomo dei servizi segreti britannici noto come Lawrence d’Arabia, autore dei “Sette pilastri della saggezza”, conquistatore di Damasco, che aveva guidato la guerriglia nel deserto contro le truppe turco-tedesche dell’Impero Ottomano. Quel dito spartitore aveva segnato linee di demarcazione tali che, senza tener conto di etnie turche, turcomanne, arabe, curde, armene, palestinesi, né di vari e conflittuali gruppi sciiti, sunniti, drusi, maroniti, alawiti, ismaeliti, contenevano di per se stesse le radici delle future guerre regionali che avrebbero fatto di questo scacchiere uno dei punti più roventi del pianeta. Emblematici, fra gli altri, i casi del Kurdistan e dell’Armenia, repubbliche di effimera esistenza, poi sopraffatte e smembrate, la prima da Turchia, Russia, Iraq e Iran, e la seconda da Turchia (col primo genocidio del XX secolo) e Russia. La decisione di concedere un “focolare” agli ebrei, nucleo originario dello Stato d’Israele, avrebbe poi complicato la situazione, alimentando integralismi, odii e scontri armati per la vita e per la morte, e, per converso, multipli sogni di espansionismi, dalla Grande Siria aspirante all’assoggettamento del Libano, a un Grande Israele che includesse tutte le aree di memoria biblica; dal Grande Iraq che ritiene il Kuwait una sua provincia storica, alla Grande Turchia, che considera Mosul e Kirkuk territori irredenti e i Paesi turcofoni medio-e-centrali dell’Asia zone di diretta influenza.

Erano stati gli inglesi ad abbattere l’Impero di Topkapi, disintegrandolo, e poi a dare dignità di nazione laica alla Turchia di Ataturk. Ed erano stati gli stessi inglesi a volere, dopo qualche breve fase di transizione, la dinastia hashemita sul trono giordano, su quello iracheno una monarchia ereditaria di emiri sciiti, su quello arabo la dinastia saudita, su quello egiziano la dinastia di Fuad I, confermando su quello persiano (il Trono del Pavone) la dinastia dei Pahlavi, su quello yemenita una dinastia di imam sayditi... Londra si era distaccata con sufficiente serenità dal proprio Impero, trasformandolo in Commonwealth, senza transitare per i bagni di sangue di tipo indocinese o algerino che avevano finito con l’umiliare grandeur, leader e forze armate francesi. Londra, pertanto, dovrebbe avere sufficiente understatement per aggiustare la rotta americana, nel nome di storia e storie nostre e di un universo mediterraneo ricco di risorse umane, culturali, religiose che non possono essere semplicemente sopraffatte da strategie politico-economiche, sia pure in forma di democrazia esportata, o imposta.

E’ vero: proprio la guerra irachena ha messo in evidenza i profondi contrasti tra americani, europei e musulmani genericamente considerati. E’ stato scritto che, a differenza degli europei, gli statunitensi non hanno espulso Dio dal loro discorso pubblico, (“Dio benedica l’America”), e non lo hanno esiliato in un pudico ambito privato o in un sia pure impegnato contesto solidaristico, ma lo ritengono una fonte ispiratrice per i giusti e un centro essenziale della loro dimensione sociale, senza che questo tolga alcunché alla separazione tra Repubblica e Chiesa, alla libertà di pensiero, ai valori civili della nazione. Ciò chiarisce anche la differenza tra Cristianesimo e Islam riguardo il modo di intendere la dimensione collettiva della religione. E’ ormai soltanto dell’universo islamico questo stato di cose: la sfera del potere e della politica è inestricabilmente fusa con quella della religione.

Ciò comporta l’identificazione del cittadino-suddito con il credente fedele e la contrapposizione delle minoranze integriste al crociato-infedele, che è sempre e comunque occidentale. Così si perpetua il perverso strettissimo rapporto tra guerra e religione, (l’ammissibilità etica della guerra in nome della religione), dai tempi dell’Europa carolingia come fortezza cristiana a quelli della predicazione per reciproche e violente conversioni, a questi giorni di malintese jihad, mentre solo intelligenti spiriti musulmani si pongono dilemmi, interrogano la coscienza individuale, sono impegnati a produrre in qualche modo un corto circuito tra ciò che appartiene a Cesare e ciò che è afferente a Dio, perché in futuro si aprano varchi alla democrazia.

Ci vollero sei anni a McArthur per realizzare la mutazione genetica dell’Impero da teocratico a democratico. Ma il Giappone aveva sempre tenuto d’occhio l’Occidente, per lo meno mutuandone tecnologia, sistemi industriali, tecniche di produzione e di commercio, mentre i gruppi integristi ritengono tutti questi satanici strumenti di contaminazione della propria antropologia culturale e spirituale: in questo modo, due universi che un giorno confinavano (compenetrandosi), ora indiscriminatamente si fronteggiano. E il Mediterraneo sembra avere un muro nel cuore. Ed è questo che, come ha scritto Predrag Matvejevic, sembra votarle al destino di un mondo “ex”, e la stessa Unione europea si compie senza tenerne alcun conto: nasce un’Europa separata dalla “culla dell’Europa”, privata della sua infanzia e della sua adolescenza. Col baricentro della Storia inclinato oltre l’Atlantico, a predisporre progetti esterni (estranei) al Mare Nostrum e alle sue purtroppo accanite frontiere.

Eppure, non è solo nel Nuovo Mondo e nei formicai del basso ventre sino-indiano che è l’Asia Inferiore che si giocheranno ruoli decisivi per l’avvenire del mondo. E’ anche qui, in questo gran lago salato interno, che salda tre continenti, che quella Storia dovrà fare ritorno, se intende ritrovare l’armonia perduta dopo sanguinose guerre civili, laceranti eresie, scismi religiosi, scempi coloniali, ideologie totalitarie. Perché qui tutto è stato già pensato, vissuto e consumato. E qui, dunque, può essere il luogo di un’utopia possibile che travalichi l’inattuale stato di cose, l’inquietante ritardo della cultura e delle culture, della politica e delle politiche, dispiegate in un mare unico e frantumato: ancora ponte e fossato.

   
   
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