Giugno 2003

DALLE ROVINE ALLA DEMOCRAZIA

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Giurassiche satrapie
Mario Vargas Llosa
 
 

Occorre fare in modo che l’umanità viva in un mondo
in cui i Fidel Castro e i Saddam Hussein siano anacronismi plateali, come il cannibalismo e la tratta degli schiavi.

 

Profittando del rumore e della furia della guerra in Iraq, Fidel Castro, con la brutalità alla quale ha ormai abituato il mondo da 44 anni, ha assestato un nuovo scossone preventivo al popolo di Cuba, in modo che si tolga dalla mente, ancora una volta, qualsiasi speranza di una rapida e pacifica democratizzazione del regime. In meno di una settimana circa 86 dissidenti sono stati arrestati, giudicati e condannati a pene sproporzionate – compreso l’ergastolo – e tre cubani che avevano dirottato un’imbarcazione per fuggire negli Usa sono stati fucilati dopo un processo farsa celebrato in gran segreto e a velocità astronomica.
La Commissione per i Diritti Umani dell’Onu – presieduta dalla Libia! – ha approvato un esangue ammonimento alla dittatura castrista, presentato da Perù e Paraguay, nello stesso tempo in cui si respingeva la condanna formale per quei crimini proposta dal Costa Rica. Lo zenit della codardia latinoamericana l’ha raggiunto il presidente argentino Duhalde, quando ha spiegato che il suo governo si rifiutava di censurare Castro «a causa dell’embargo nordamericano». Senza dubbio, le proteste per gli avvenimenti di Cuba hanno avuto un’eco senza precedenti nel mondo intero e, per la prima volta, a dissentire sono stati anche alcuni dei difensori a oltranza del regime castrista, ad esempio vari partiti comunisti europei, e intellettuali – tra questi, José Saramago e Eduardo Galeano – che avevano assistito in silenzio e approvato precedenti misfatti di Castro. Comunque, adesso sappiamo che questa dittatura declinante e putrescente, prima di scomparire, assesterà ancora qualche colpo di coda, aggiungendo sofferenze e sconforto a un Paese sfortunato che ha avuto il triste privilegio di subire il più lungo regime autoritario di tutta la storia latino-americana.
C’è un fatto su cui, in ogni caso, non si possono nutrire dubbi: questo regime sta andando verso il tramonto e non sopravviverà un solo istante alla morte di Castro. Arriverà non un’altra dittatura, ma una democrazia appoggiata da tutti i cubani. All’inizio sarà, ovviamente, una democrazia piuttosto imperfetta, ma nulla le vieterà di raggiungere in breve quegli alti livelli di rappresentatività e di funzionalità che hanno Paesi come Cile e Costa Rica.

Perché, allora, tanti che sono fiduciosi sul futuro democratico di Cuba si dicono pessimisti riguardo all’Iraq? Ho discusso su Saddam e i bombardamenti americani che hanno sepolto il governo di questo satrapo e di decine di suoi complici. Fossero d’accordo o contrari alla guerra, tutti convenivano su una considerazione: è impossibile che dalle rovine dell’Iraq possa mai sorgere un sistema democratico degno di tale nome. Le mie obiezioni sul fatto che non esiste alcun motivo, culturale storico o politico, in grado di impedirlo, si scontrava con un muro di scetticismo con varie motivazioni. La prima: il popolo iracheno non tollererà un sistema politico che arriva sulle baionette e sui carri armati di un esercito invasore e rifiuterà lo Stato di Diritto considerandolo un puro alibi degli occupanti. Certo, un intervento militare non è mai un metodo ideale per passare da una dittatura a una democrazia, ma molti esempi dimostrano che il fiorire della democrazia è stata la felice conseguenza di un conflitto bellico. La Germania e il Giappone – oggi funzionali democrazie – prima del secondo conflitto mondiale avevano raggiunto un grande sviluppo industriale, ma erano società autoritarie con una scarsissima (Germania) e nulla (Giappone) esperienza di democrazia. E il fatto che lo Stato di Diritto vi sia giunto con un esercito d’occupazione e dopo una devastante sconfitta militare non ha impedito a tedeschi e giapponesi di appropriarsi di un sistema di governo e di organizzazione della società che rispettasse i diritti umani e aprisse formidabili possibilità di progresso per i cittadini.

Si obietta che Berlino e Tokyo avevano una forte industrializzazione e che l’Iraq, al contrario, è immerso nel sottosviluppo. E Panama, allora? L’intervento militare che ha spodestato Noriega ha provocato dolorose perdite umane e importanti danni materiali, ma il popolo ha accettato il recupero della democrazia. Perché non potrebbe accadere la stessa cosa con l’Iraq?
La seconda: in Iraq impera l’islamismo, una religione che, non avendo mai sperimentato un processo di secolarizzazione in nessuna società araba, è incompatibile con uno Stato laico e con un’autonoma legalità, cioè non subordinata al potere religioso. Inoltre, quella irachena è una società non integrata né sotto il profilo etnico né religioso, e la molteplicità delle divisioni che la frammentano e la portano sempre a un passo dalla disintegrazione rende impossibile un comune denominatore condiviso sulle regole del gioco – o principio costituzionale – che sia cemento per la costruzione di una democrazia. Se questa nascesse, durerebbe il tempo di un sospiro, squarciata da forze centrifughe i cui obiettivi sono incompatibili tra loro. Ma neanche questo mi convince.
Il fatto che non esista un Paese arabo democratico indica che, finora, la tradizione autoritaria è stata tanto forte da schiacciare le aspirazioni a una vita con maggior libertà, nel contesto di una legalità perseguita da tutti i popoli repressi e miserabili del mondo. Per i dittatori arabi l’Islam è stato uno strumento di dominazione, come il Cristianesimo per secoli, fino a quando il progresso economico, la cultura liberale e lo spirito civile hanno saputo abbattere la roccaforte teologico-autoritaria dietro cui si trinceravano i princìpi dei despoti. Non soltanto la Turchia è una società al cui interno la religione musulmana, praticata dalla maggioranza della popolazione, coesiste con uno Stato laico; ma anche in Asia la democrazia si è aperta varchi, certo timidamente, in società nelle quali sembrava che l’Islam dovesse chiuderle per sempre le porte. Il caso più interessante è quello della popolosa Indonesia. Perché il maltrattato e affamato popolo iracheno dovrebbe respingere un sistema politico che riconosca i diritti umani, lo liberi dalle angherie e dalle torture, gli consenta di combattere gli abusi autoritari e le corruzioni, di emancipare le donne dalla loro condizione di schiave?
La transizione da un regime chiuso a un sistema aperto in Paesi che non vantano tradizioni di libertà e di legalità è difficile, ma non impossibile. Ma una cosa è sicura: in una lunga prospettiva storica, la democrazia è sempre stata una sostanziale rivoluzione per tutte le società, dal momento che ha messo fine a un’antichissima tradizione autoritaria e dispotica, dura e vile come quella che ha vissuto l’Iraq. Le divisioni etniche e religiose, secondo il parere degli scettici, possono essere tacitate da un regime che si basi sulla forza. La mia tesi è opposta. La dittatura non annulla, ma aizza le divisioni. Per una società nella quale esistono molte e importanti differenze etniche e religiose, il sistema flessibile e di reciproche concessioni rappresentato dalla democrazia è l’unico in grado di salvare l’integrità territoriale, con decentramenti e autonomie regionali in grado di rendere possibile la convivenza.
C’è chi sorride, pensando a un secondo Belgio o a una seconda Svizzera. Ma nulla vieta che ciò sia possibile. Certo, ci sono difficoltà gigantesche, in Iraq, ma non superiori a quelle che a suo tempo dovettero superare proprio Belgio e Svizzera, che oggi sono additati come paradigmi di progresso e di civiltà. Occorre fare in modo che l’umanità viva, finalmente, in un mondo in cui i Fidel Castro e i Saddam Hussein siano anacronismi plateali: esattamente come lo sono, ora, il cannibalismo e la tratta degli schiavi.

   
   
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