Occorre fare in modo che lumanità
viva in un mondo
in cui i Fidel Castro e i Saddam Hussein siano anacronismi plateali,
come il cannibalismo e la tratta degli schiavi.
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Profittando del rumore e della furia della guerra in Iraq, Fidel
Castro, con la brutalità alla quale ha ormai abituato il
mondo da 44 anni, ha assestato un nuovo scossone preventivo al popolo
di Cuba, in modo che si tolga dalla mente, ancora una volta, qualsiasi
speranza di una rapida e pacifica democratizzazione del regime.
In meno di una settimana circa 86 dissidenti sono stati arrestati,
giudicati e condannati a pene sproporzionate compreso lergastolo
e tre cubani che avevano dirottato unimbarcazione per
fuggire negli Usa sono stati fucilati dopo un processo farsa celebrato
in gran segreto e a velocità astronomica.
La Commissione per i Diritti Umani dellOnu presieduta
dalla Libia! ha approvato un esangue ammonimento alla dittatura
castrista, presentato da Perù e Paraguay, nello stesso tempo
in cui si respingeva la condanna formale per quei crimini proposta
dal Costa Rica. Lo zenit della codardia latinoamericana lha
raggiunto il presidente argentino Duhalde, quando ha spiegato che
il suo governo si rifiutava di censurare Castro «a causa dellembargo
nordamericano». Senza dubbio, le proteste per gli avvenimenti
di Cuba hanno avuto uneco senza precedenti nel mondo intero
e, per la prima volta, a dissentire sono stati anche alcuni dei
difensori a oltranza del regime castrista, ad esempio vari partiti
comunisti europei, e intellettuali tra questi, José
Saramago e Eduardo Galeano che avevano assistito in silenzio
e approvato precedenti misfatti di Castro. Comunque, adesso sappiamo
che questa dittatura declinante e putrescente, prima di scomparire,
assesterà ancora qualche colpo di coda, aggiungendo sofferenze
e sconforto a un Paese sfortunato che ha avuto il triste privilegio
di subire il più lungo regime autoritario di tutta la storia
latino-americana.
Cè un fatto su cui, in ogni caso, non si possono nutrire
dubbi: questo regime sta andando verso il tramonto e non sopravviverà
un solo istante alla morte di Castro. Arriverà non unaltra
dittatura, ma una democrazia appoggiata da tutti i cubani. Allinizio
sarà, ovviamente, una democrazia piuttosto imperfetta, ma
nulla le vieterà di raggiungere in breve quegli alti livelli
di rappresentatività e di funzionalità che hanno Paesi
come Cile e Costa Rica.
Perché, allora, tanti che sono fiduciosi sul futuro democratico
di Cuba si dicono pessimisti riguardo allIraq? Ho discusso
su Saddam e i bombardamenti americani che hanno sepolto il governo
di questo satrapo e di decine di suoi complici. Fossero daccordo
o contrari alla guerra, tutti convenivano su una considerazione:
è impossibile che dalle rovine dellIraq possa mai sorgere
un sistema democratico degno di tale nome. Le mie obiezioni sul
fatto che non esiste alcun motivo, culturale storico o politico,
in grado di impedirlo, si scontrava con un muro di scetticismo con
varie motivazioni. La prima: il popolo iracheno non tollererà
un sistema politico che arriva sulle baionette e sui carri armati
di un esercito invasore e rifiuterà lo Stato di Diritto considerandolo
un puro alibi degli occupanti. Certo, un intervento militare non
è mai un metodo ideale per passare da una dittatura a una
democrazia, ma molti esempi dimostrano che il fiorire della democrazia
è stata la felice conseguenza di un conflitto bellico. La
Germania e il Giappone oggi funzionali democrazie
prima del secondo conflitto mondiale avevano raggiunto un grande
sviluppo industriale, ma erano società autoritarie con una
scarsissima (Germania) e nulla (Giappone) esperienza di democrazia.
E il fatto che lo Stato di Diritto vi sia giunto con un esercito
doccupazione e dopo una devastante sconfitta militare non
ha impedito a tedeschi e giapponesi di appropriarsi di un sistema
di governo e di organizzazione della società che rispettasse
i diritti umani e aprisse formidabili possibilità di progresso
per i cittadini.

Si obietta che Berlino e Tokyo avevano una forte industrializzazione
e che lIraq, al contrario, è immerso nel sottosviluppo.
E Panama, allora? Lintervento militare che ha spodestato Noriega
ha provocato dolorose perdite umane e importanti danni materiali,
ma il popolo ha accettato il recupero della democrazia. Perché
non potrebbe accadere la stessa cosa con lIraq?
La seconda: in Iraq impera lislamismo, una religione che,
non avendo mai sperimentato un processo di secolarizzazione in nessuna
società araba, è incompatibile con uno Stato laico
e con unautonoma legalità, cioè non subordinata
al potere religioso. Inoltre, quella irachena è una società
non integrata né sotto il profilo etnico né religioso,
e la molteplicità delle divisioni che la frammentano e la
portano sempre a un passo dalla disintegrazione rende impossibile
un comune denominatore condiviso sulle regole del gioco o
principio costituzionale che sia cemento per la costruzione
di una democrazia. Se questa nascesse, durerebbe il tempo di un
sospiro, squarciata da forze centrifughe i cui obiettivi sono incompatibili
tra loro. Ma neanche questo mi convince.
Il fatto che non esista un Paese arabo democratico indica che, finora,
la tradizione autoritaria è stata tanto forte da schiacciare
le aspirazioni a una vita con maggior libertà, nel contesto
di una legalità perseguita da tutti i popoli repressi e miserabili
del mondo. Per i dittatori arabi lIslam è stato uno
strumento di dominazione, come il Cristianesimo per secoli, fino
a quando il progresso economico, la cultura liberale e lo spirito
civile hanno saputo abbattere la roccaforte teologico-autoritaria
dietro cui si trinceravano i princìpi dei despoti. Non soltanto
la Turchia è una società al cui interno la religione
musulmana, praticata dalla maggioranza della popolazione, coesiste
con uno Stato laico; ma anche in Asia la democrazia si è
aperta varchi, certo timidamente, in società nelle quali
sembrava che lIslam dovesse chiuderle per sempre le porte.
Il caso più interessante è quello della popolosa Indonesia.
Perché il maltrattato e affamato popolo iracheno dovrebbe
respingere un sistema politico che riconosca i diritti umani, lo
liberi dalle angherie e dalle torture, gli consenta di combattere
gli abusi autoritari e le corruzioni, di emancipare le donne dalla
loro condizione di schiave?
La transizione da un regime chiuso a un sistema aperto in Paesi
che non vantano tradizioni di libertà e di legalità
è difficile, ma non impossibile. Ma una cosa è sicura:
in una lunga prospettiva storica, la democrazia è sempre
stata una sostanziale rivoluzione per tutte le società, dal
momento che ha messo fine a unantichissima tradizione autoritaria
e dispotica, dura e vile come quella che ha vissuto lIraq.
Le divisioni etniche e religiose, secondo il parere degli scettici,
possono essere tacitate da un regime che si basi sulla forza. La
mia tesi è opposta. La dittatura non annulla, ma aizza le
divisioni. Per una società nella quale esistono molte e importanti
differenze etniche e religiose, il sistema flessibile e di reciproche
concessioni rappresentato dalla democrazia è lunico
in grado di salvare lintegrità territoriale, con decentramenti
e autonomie regionali in grado di rendere possibile la convivenza.
Cè chi sorride, pensando a un secondo Belgio o a una
seconda Svizzera. Ma nulla vieta che ciò sia possibile. Certo,
ci sono difficoltà gigantesche, in Iraq, ma non superiori
a quelle che a suo tempo dovettero superare proprio Belgio e Svizzera,
che oggi sono additati come paradigmi di progresso e di civiltà.
Occorre fare in modo che lumanità viva, finalmente,
in un mondo in cui i Fidel Castro e i Saddam Hussein siano anacronismi
plateali: esattamente come lo sono, ora, il cannibalismo e la tratta
degli schiavi.
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