Giugno 2003

EUROPA E STATI UNITI DOPO LA CRISI IRACHENA

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L’Atlantico più largo
Walter Bondrigo
 
 

Era dalla fine
degli anni Venti che sui giornali francesi e tedeschi non si leggeva una critica così netta dei valori degli Stati Uniti.

 

Vi era chi lo temeva e vi era chi lo sperava. Ma erano in molti a credere che dopo la crisi irachena il mondo non sarebbe stato più lo stesso, e che le categorie con le quali lo si poteva comprendere non sarebbero state più le stesse. Per quanto rilevante, la crisi irachena non è stata la causa del cambiamento, ma ne è stata nello stesso tempo l’effetto e il rivelatore. L’ordine “atlantico”, costruito all’indomani della seconda guerra mondiale, aveva come ragione primaria quella di contenere l’espansione del comunismo internazionale. La difesa della civiltà occidentale – dei suoi valori, del suo modello politico liberale, della sua economia di mercato – rispetto al nuovo ordine del comunismo realizzato, da Varsavia a Pechino, aveva permesso per più di mezzo secolo di unire nella stessa logica di azione i Paesi dell’Europa occidentale e le democrazie nordamericane, insieme a nazioni come il Giappone, la Corea del Sud o la Turchia.
Questa contrapposizione tra due civiltà radicalmente opposte aveva fatto aggio sulla logica antica delle relazioni internazionali: la logica delle prossimità e delle rivalità territoriali, delle affinità o dei contrasti etnici e religiosi, della potenziale competizione o complementarità tra le economie. Una logica la cui validità aveva continuato ad esser sostenuta da un numero sempre più ristretto di studiosi e di uomini di Stato, per i quali né la contrapposizione al comunismo internazionale né la generale espansione del modello liberaldemocratico e del modello dell’economia di mercato avrebbero sostanzialmente modificato la logica antica che vigeva prima dell’avvento delle società di massa nel XIX secolo.

Ciò a cui abbiamo assistito da qualche mese (e continuiamo a registrare ancora oggi) costituisce un’indubbia conferma di questa visione “realistica” delle relazioni internazionali. La questione non è stata soltanto la sostanziale coincidenza di visione sull’Iraq tra Paesi come la Francia, la Germania, la Russia, la Cina. La questione è stata che Francia e Germania hanno considerato la crisi irachena come inizio di un ordine mondiale diverso da quello “atlantico”. Un ordine nel quale il continente euroasiatico si contrappone a quello americano, e l’Europa e il suo modello culturale e sociale si contrappongono agli Stati Uniti e al mondo anglosassone, al loro modello “liberista”.
Chiunque ricordi la dichiarazione franco-tedesca di Berlino del 1996, con la sua solenne affermazione dell’indissolubilità e della perennità dei legami transatlantici, non potrà non notare la straordinaria analogia con le dichiarazioni diplomatiche dell’Europa d’anteguerra, che puntualmente significavano l’inverso di quello che si sarebbe realizzato di lì a poco.
Sul piano ideologico c’è un tremendo ritorno alla fine degli anni Venti, sia in Germania sia in Francia. Seppure con parole diverse – ma spesso neanche troppo – vi è la riproposizione della contrapposizione resa celebre da Carl Schmitt tra le “potenze di terra” e le “potenze di mare”: le prime contenute dall’emisfero dell’Atlantico, le seconde da quello spazio sempre fluido e talvolta indistinto che va dagli Urali al Reno.
Era dalla fine degli anni Venti che sui giornali francesi e tedeschi non si leggeva una critica così netta dei valori degli Stati Uniti, un’affermazione così perentoria della alterità dell’Europa continentale rispetto al modello anglosassone, una presa di distanza e un disprezzo così palesi, così espliciti nei confronti dell’Inghilterra. E se lo slogan della destra reazionaria francese di allora era “né Mosca né New York”, caduto il comunismo la Russia sembra diventata non soltanto un alleato strategico, ma addirittura un alleato di civiltà contro quella americana.

Per quanto si siano potuti a ragione imputare al comportamento degli Stati Uniti un eccesso di unilateralismo e una ruvidezza di stampo texano, è evidente come la situazione determinatasi sia stata in primo luogo il risultato delle volontà di Francia e Germania, due Paesi che hanno giocato pesantemente la carta dei rispettivi interessi nazionali, sotto la falsa coscienza di volerli far passare come l’interesse dell’Europa intera. Ma era stata la Elf-Total-Fina transalpina ad aver firmato contratti straordinariamente vantaggiosi per 50 miliardi di dollari col regime di Saddam Hussein, e non un’ipotetica società petrolifera “europea”. Ed era stata la Germania ad avere forti interessi economici nell’industria chimica irachena, non la Spagna o l’Italia.
Attualmente, il punto fondamentale è comprendere se davvero il resto dell’Europa vorrà seguire Francia e Germania nella loro volontà di potenza. Una volontà che passa innanzitutto attraverso l’affermazione della propria egemonia sul Vecchio Continente, ottenuta anche attraverso nuove istituzioni dell’Unione europea, modellate secondo i propri desideri.
Non si tratta di divagazioni storicistiche. Chiunque esamini gli articoli della futura Costituzione europea prodotti fino a questo momento dal Presidium della Convenzione non può non essere colpito dal fatto che essi corrispondono quasi alla lettera al modello istituzionale tedesco da un lato, e al modello amministrativo francese dall’altro. Vi è una completa esclusione di ogni altra tradizione costituzionale, e in particolare di quelle del Regno Unito e dei Paesi dell’Europa del Nord.
Che il rapporto tra le nazioni del mondo abbia acquistato una fluidità impossibile nell’era dell’espansione del comunismo internazionale non è di per sé una realtà negativa, come evidentemente non lo è il fatto che l’Europa possa avere una voce più importante nelle vicende mondiali, soprattutto in quelle che la riguardano da vicino. Ma vi è una differenza fondamentale tra questo e il considerare un fatto positivo la fine dell’ordine “atlantico”, con un’Europa che dovrebbe mettere gli Stati Uniti sullo stesso piano della Cina come alleato. Sarebbe davvero tragico se il brutale “realismo” congiunto degli eredi del nazionalismo di De Gaulle e del genetico neutralismo della socialdemocrazia tedesca dovesse diventare la regola di comportamento dell’intera Europa. Immaginare che vi sia una contrapposizione strutturale di interessi con gli Stati Uniti significa non soltanto dimenticare – e sarebbe già un fatto straordinario – che la civiltà americana è figlia della civiltà europea, ma anche che la sola possibilità posseduta da un’Europa declinante sul piano demografico e della sua influenza economica nel mondo per proteggere e sviluppare i propri valori e i propri interessi materiali è di rafforzare i legami con l’altra sponda dell’Atlantico.

Anche dopo la fine del comunismo internazionale, quindi, proprio dal punto di vista “realistico” l’evento più negativo per l’Europa sarebbe la tentazione da parte degli Stati Uniti di ritirarsi nel neo-isolazionismo, senza sentirsi più vincolati al destino del Vecchio Continente.
Ma forse è proprio questo che alcuni in Europa auspicano: favorire le tendenze isolazionistiche da sempre presenti nella società e nella politica americana, nella speranza che ciò permetterà l’emergere dell’Europa come forza egemone sulla scena mondiale. Un gioco, questo, di cui è difficile calcolare i guadagni, ma di cui è fin troppo facile intuire gli enormi pericoli.

   
   
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