Giugno 2003

I MONITI DELLA BCE

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Europa
nell’occhio del ciclone
Furio Beltrami
 
 

La Germania, con la sua crescita vicina allo zero, la sua
disoccupazione
al di sopra
del 10 per cento,
potrebbe trascinare verso il fondo
l’intera area
continentale.

 

Il Vecchio Continente non è soltanto sempre più diviso sotto il profilo politico, ma è anche meno solido sul piano economico. L’area dell’euro, dopo essere cresciuta solo dello 0,8 per cento nel 2002, (contro il 2,4 per cento degli Stati Uniti), si appresta a fare altrettanto nel 2003. Le aspettative sono pressoché unanimi, incluse quelle dei più accreditati istituti privati. Siamo dunque lontani, anzi remoti, dalla ripresa della produzione del 2-2,5 per cento alla fine di quest’anno, come pronosticava con eccessivo ottimismo la Banca centrale europea alla fine dello scorso anno.
Le risposte di politica economica europee alla congiuntura corrente sono molto condizionate sul piano fiscale e timide (almeno finora) sul piano monetario. In più, l’euro si sta rivalutando fortemente e le incertezze che dominano i comportamenti degli operatori, dovute in parte all’instabilità di diversi scacchieri planetari (Vicino Oriente, Corea del Nord, vari Paesi dell’Africa e dell’America Latina), sono almeno prolungate, se non anche approfondite, dalle posizioni politiche di alcuni Paesi europei, che tendono di fatto a farle persistere.

La bassa crescita nel 2002 e la sua permanenza nel 2003 riguardano l’intero Continente, seppure con Germania e Italia in situazioni significativamente peggiori di quelle degli altri Stati dell’area. Non ci sono economie candidate a funzionare da locomotiva, mentre ce ne sono a fare da zavorra. La Germania, con la sua crescita vicina allo zero, la sua disoccupazione al di sopra del 10 per cento, lo scarso spazio di manovra che ha quanto a politiche economiche, le sue rigidità strutturali molto marcate, la sua minore competitività all’export dovuta all’euro in apprezzamento, e un sistema bancario debole, sembra assomigliare sempre di più al Giappone. Essa potrebbe trascinare verso il fondo l’intera area continentale.
Questo sembra essere il rischio interno maggiore. Le risposte di politica fiscale date da Germania, Francia e Italia sono andate soltanto nella direzione di dare spazio agli “stabilizzatori automatici” tramite la tolleranza di maggiori deficit di bilancio nella parte bassa del ciclo, e in deroga al Patto di stabilità.

Niente di più e di meglio. Fatto sta che i margini di autonomia fiscale dei Paesi sono stretti e che la politica fiscale ha effetti espansivi limitati e temporanei. In economia aperta è la politica monetaria che tende ad avere maggiore efficacia, anche se buona parte dei suoi effetti si fanno sentire attraverso i tassi di cambio. In aggiunta, adesso esistono condizioni di incertezza tali da rendere i comportamenti dei consumatori e degli investitori più difficili da influenzare attraverso le politiche macroeconomiche.
Ma è stata la politica monetaria comune a esser maggiormente carente e timida in questa fase. Preoccupata quasi esclusivamente dal controllo dei prezzi, nonostante l’euro in apprezzamento rendesse tali preoccupazioni meno forti, e anche refrattaria a considerare apertamente pure i bisogni della crescita, la Banca centrale europea ha mantenuto i tassi dell’interesse a breve invariati per quasi tutto intero il 2002. Neanche a fronte di un eclatante ulteriore rafforzamento dell’euro sul dollaro (di circa il 20 per cento) nei primi tre mesi del 2003 e di un altro abbassamento significativo del tasso di inflazione di base, la Bce è apparsa decisa a puntare al sostegno dell’economia europea. Un’Istituzione rivolta, ripiegata su se stessa, ultragelosa delle proprie prerogative di indipendenza, non disposta neanche ad interpretare il proprio mandato all’interno degli spazi che le lascia la specifica Carta costituzionale, ha finito per dividersi al suo interno e per restare quasi del tutto paralizzata. Quando, circa un anno fa, un Rapporto della Fondazione La Malfa proponeva di ribilanciare il mandato istituzionale della Bce, accomunando in esso sia obiettivi di stabilità dei prezzi che di crescita economica (un poco come in quello della Federal Reserve americana), esso fu considerato quasi sovversivo. Questa è ora diventata la posizione non solo di molta parte dell’accademia, ma anche di quasi tutto l’establishment europeo. Ultimo a sottoscriverla è stato il Governatore della Banca d’Inghilterra.
Le prospettive di un significativo e rapido riorientamento della politica monetaria comune europea non sembrano molto buone. E’ possibile che i tassi vengano ancora limati, ma in assenza di cataclismi, quali una crisi bancaria in Europa o una lunga guerra in qualche angolo del pianeta, un esame degli orientamenti di fondo dovrà attendere il cambio di leadership alla Bce e dipenderà in buona misura dagli orientamenti del suo nuovo capo e dagli equilibri di vedute che verranno a stabilirsi al suo interno.
In più, l’efficacia di stimolo di tassi d’interesse più bassi sarà decisamente più ridotta se dovesse continuare, come è possibile almeno per un certo numero di mesi, la tendenza dell’euro a rivalutarsi sul dollaro, nonostante il minor differenziale dei tassi d’interesse a favore dell’Europa e la continuata maggiore crescita dell’economia statunitense. Fino a quando prevarranno le preferenze verso investimenti in Europa rispetto agli Stati Uniti, per ragioni di sicurezza, ciò resta possibile.
Molti operatori si attendono che l’euro continui a rafforzarsi nel corso del 2003. Nulla di tutto questo sembra augurar bene per la ripresa economica in Europa. E i costi di questa non-crescita, non si sa quanto coscientemente, sono aumentati dalle posizioni politiche di quei Paesi europei che, invece di agire di concerto con gli Stati Uniti, di fatto prolungano le incertezze che smussano, in Europa e altrove, le tendenze al recupero dei consumi e degli investimenti.


Passiamo all’analisi delle singole prese di posizione della Bce. Essa non si fida della legge finanziaria italiana 2003. Né delle misure prese da alcuni altri Paesi per tener fede al Patto di stabilità. I comunicati di Francoforte sono carichi di preoccupazioni sui conti pubblici di molti Paesi dell’area euro. Essi sostengono: «Non ci si attende che Grecia, Francia e Italia riescano a soddisfare i requisiti di risanamento per il 2003». E neanche i risultati del 2002 possono essere considerati soddisfacenti, dal momento che «in Italia la riduzione del rapporto tra debito e Prodotto interno lordo è principalmente riconducibile a un’operazione finanziaria con un significativo effetto una tantum sul debito».
La Bce non si era mai espressa prima con altrettanta chiarezza. Nei primi tempi si era limitata ad alludere ai Paesi reprobi, senza tuttavia nominarli. Il principale accusato sul capitolo della finanza pubblica è la Francia, unico tra i Paesi comunitari a non avere approvato i criteri di risanamento e che non ha incluso nei suoi programmi l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2006. Ma altri tre, Italia, Portogallo e Grecia, secondo gli economisti della Banca centrale non riusciranno quest’anno a mettere in atto l’impegno che i loro ministri, a differenza di quello francese, hanno sottoscritto il 7 ottobre 2002: una correzione strutturale dei conti di «almeno lo 0,5 per cento del Prodotto interno lordo ogni anno».
La Germania, invece, sembra uscire meglio (guarda caso) dall’analisi. Ma non è stata proprio la Germania nel 2002 a oltrepassare di parecchio la soglia di Maastricht, con il 3,75 per cento? L’economista Giacomo Vaciago, ad esempio, ribatte: «Non so come faccia la Bce a non accorgersi che la Germania sta molto peggio di noi». A Francoforte rispondono che la Germania ha, sì, peccato gravemente nel 2002, ma gli impegni che ha preso per il 2003 sono credibili; Berlino avrebbe potuto far meglio, perché anche nel 2003 il disavanzo pubblico resterà «prossimo al limite del 3 per cento», ma a quanto si può prevedere oggi l’impegno alla riduzione strutturale del deficit di almeno lo 0,5 per cento dovrebbe riuscire a mantenerlo, (e poi si dice che la Bce non è una pura e semplice proiezione della vecchia Bundesbank!).
Dunque, la Germania viene giudicata più credibile; mentre, sempre per i conti del 2003, «in Italia e in Portogallo l’effetto di misure temporanee è in qualche misura incerto». Precisa freddamente l’Italia: «E’ vero che nella nostra legge finanziaria 2003 ci sono misure una tantum, ma è anche vero che il rapporto deficit/Pil è lontano dal 3 per cento. Forse nel 2004 le entrate e le spese saranno sostenibili a lungo termine e quindi non ci sarà più bisogno di una tantum». La Banca centrale europea, tuttavia, si dice preoccupata anche per gli anni successivi. A proposito del 2004, non menziona di preciso alcun Paese, ma nota che «il conseguimento degli obiettivi dipende dall’effettiva realizzazione delle ipotesi di crescita, non sempre realistiche, su cui si basano gli scenari previsti dai diversi Paesi». Per l’appunto, il “programma di stabilità italiano” contiene una previsione di crescita nel 2004 pari a +2,9 per cento, superiore a quella di tutti gli altri Paesi che negli anni scorsi hanno conseguito risultati simili ai nostri, e inferiore soltanto a quelle di Spagna, Irlanda e Grecia, che sono costantemente cresciute più in fretta.
Sempre senza fare nomi, la Bce teme che a causa delle previsioni troppo ottimistiche «in diversi Paesi» il deficit pubblico potrebbe superare il limite del 3 per cento. Per il 2004, gli uffici della Commissione europea hanno indicato questo rischio a proposito dell’Italia. Più in generale, la Banca conferma che «le prospettive di crescita per l’economia dell’area dell’euro nel 2003 si sono deteriorate rispetto alle attese precedenti»; non indica, però, la nuova previsione, che secondo quanto anticipato dal presidente Wim Duisenberg dovrebbe collocarsi attorno all’1 per cento. Può essere questo un motivo valido per rilassare un po’ la disciplina di bilancio? Su questo argomento, che divide gli economisti in due campi opposti, la Bce continua a schierarsi dal lato del rigore, e risponde di no. Nei Paesi con gravi squilibri strutturali, (questa è la tesi di Francoforte), diminuire le tasse senza tagliare la spesa non riesce ad alimentare la fiducia di operatori economici e cittadini, tutti consci che senza un risanamento dovranno tornare a pagare più tasse in un futuro neanche tanto lontano.

   
   
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