Giugno 2003

GUERRA E DOPOGUERRA AMERICA-IRAQ

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Un messaggio rassicurante
Milton Friedman
Premio Nobel per l’Economia
 
 

Sono convinto
che una volta
distribuiti i semi
dell’economia
di mercato in un Paese arabo,
le radici possono farsi profonde,
e anche
in tempi brevi.

 

C’è stata agitazione in Borsa, com’è inevitabile in tempi di guerra. Qualcuno ha mai visto un mercato tranquillo in una situazione di incertezza? Io no. E sono una persona anziana. Comunque, per quel che riguarda l’economia, l’impatto della guerra e del dopoguerra non avrà effetti dirompenti. O meglio: l’impatto vero e proprio sarà molto modesto. Guerre come quelle contro l’Iraq alla resa dei conti sono molto circoscritte e in fondo anche contenute dal punto di vista dei costi. Non stiamo certamente parlando di un impatto globale, di una guerra a tutto campo. Perciò mi affido alle condizioni di fondo dell’economia prima dello scoppio del secondo conflitto nel deserto mediorientale.
E le condizioni di fondo per me erano e sono rimaste sostanzialmente buone: l’inflazione è rimasta sotto controllo, la produzione in rialzo, la disoccupazione ha oscillato fra il 5,5 e il 6 per cento. Tutto ciò ci dice che si è costantemente rimasti su un livello storicamente molto buono. Non vorrei sembrare provocatorio, ma davanti a tanto rumore e a tanta volatilità, la situazione dei fondamentali economici mi sembra davvero poco interessante, direi anche alquanto scontata. E non credo che ci sarà un “double dip”, vale a dire una doppia ricaduta in recessione.
Ovviamente, fin dall’inizio erano chiare le premesse: con una guerra lunga, il fattore tempo avrebbe avuto un impatto piuttosto negativo; una guerra corta, al contrario, non avrebbe potuto influire negativamente sui fondamentali: al contrario, avrebbe contribuito a dare una spinta psicologica di ottimismo. Per “guerra corta”, visto che ogni guerra ha i propri tempi, si prevedeva un conflitto della durata di poco meno o poco più di tre mesi, parentesi cronologica entro la quale non potevano esserci problemi creati dall’impatto psicologico e tanto meno dalla volatilità dei mercati internazionali.
Soprattutto durante le prime due settimane di guerra l’impressione generale era che non vi fossero segnali di vitalità negli investimenti di capitale, e anche il petrolio era rimbalzato. Ebbene, io credo che il mercato si sia abituato a condizioni di volatilità, anche sul fronte petrolifero. Quel che ci deve interessare è indubbiamente il medio periodo. E ad esempio per il greggio si è convinti che nel medio periodo i prezzi saranno abbastanza bassi, anche dopo le correzioni che si sono avute con l’avvio della guerra. E arriviamo agli investimenti di capitale. Torno a dire: sarà necessario, e importante, vedere come si comporteranno i fondamentali.

E parliamo della ricostruzione. Questa prenderà parecchio tempo, ma intanto le incertezze determinate dalla seconda guerra nel deserto iracheno dovrebbero essere state superate. Comprese quelle di chi si dice convinto che sia impossibile introdurre l’economia di mercato in un Paese arabo. Io, al contrario, sono convinto che una volta distribuiti i semi dell’economia di mercato, le radici possono farsi profonde, e anche in tempi brevi. Si veda quel che sta succedendo in Cina: l’economia di mercato si è diffusa abbastanza agevolmente, ha fatto miracoli e ritengo che sarà impossibile ormai eradicarla. E si consideri che la Cina, dal punto di vista di apertura, di attitudine, di educazione verso l’economia di mercato partiva da molto più indietro. L’Iraq, in fondo, (ma su questo non sono un esperto), aveva un sistema economico centralizzato per alcuni aspetti, ma aperto per altri aspetti. C’erano industrie, negozi, proprietà agricole. Il concetto di proprietà privata o quello del commercio fanno parte della tradizione araba. La regione irachena era uno dei punti di passaggio tradizionali per i traffici con l’Oriente. E mi sembra che si tratti già di un punto di partenza più che ottimo. Ora, premesso che mi sono rammaricato che fosse necessario entrare in guerra, chiarisco che il 2003 per me è la continuazione del 1991: se avessimo completato quella campagna allora, estromettendo Saddam Hussein, non avremmo avuto i problemi che poi si sono ripresentati. Avremmo chiuso il cerchio a quell’epoca, e la storia non avrebbe avuto seguito. Problemi, dicevo. In primo luogo con la Francia: abbiamo avuto una forte divergenza di vedute con Parigi, anche a livello di opinione pubblica, e non soltanto di governi. Detto questo, l’interesse comune resta nel commercio, nel libero commercio, essenziale per aiutare la crescita dell’economia. E questo interesse alla fine prevarrà sulle differenze e sulle incomprensioni. Sono convinto che tensioni di questo tipo non possono che essere temporanee.

Per quel che riguarda le Nazioni Unite, mi sia consentita una brevissima premessa. Le Nazioni Unite, a voler analizzare oggettivamente la loro attività, hanno funzionato molto male negli ultimi cinquant’anni. Il fatto che abbiano di nuovo funzionato male nella circostanza americano-irachena non è stata per me una sorpresa. Sottolineato tutto questo, non mischierei l’Onu con le prospettive della crescita economica. Credo che se la prosperità dell’economia mondiale fosse dipesa dall’Organizzazione delle Nazioni Unite oggi saremmo molto più indietro di dove siamo. E’ nell’ordine naturale delle cose: chiusa una guerra, si volta pagina, si deve necessariamente guardare al futuro, alle ricostruzioni, allo sviluppo, all’azione creatrice della democrazia, a rapporti più sereni tra i popoli e a rapporti più equilibrati tra aree diverse del pianeta. E di volta in volta, il resto verrà.

   
   
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