Giugno 2003

IL RAPPORTO TRA RICCHEZZA E FEDE CRISTIANA

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Il calvinismo di Calvino
William J. Bouwsma
Docente emerito di Storia alla Berkeley University
 
 

Calvino riteneva che la propaganda di certi gruppi settari
a favore del
comunismo
minacciasse di
sovvertire l’ordine
e di trasformare il mondo intero in una foresta di briganti.

 

La prudenza, ossia la virtù di premunirsi contro pericoli futuri, era estremamente attraente per un uomo ansioso come Calvino, almeno quanto lo era per altri umanisti. Pur mettendo gli uomini in guardia contro una fiducia eccessiva nella propria capacità di prevedere il futuro, Calvino pensava che l’ignorarlo fosse una sorta di sfida che Dio lanciava all’abilità inventiva degli esseri umani. Dio, diceva Calvino, ha «piacere di nasconderci tutti gli avvenimenti futuri di modo che, nel considerarli incerti, noi prepariamo dei rimedi contro di loro». Raccomandava «il confronto con gli avvenimenti del passato» per insegnare la prudenza. Cristo, come osserva Calvino, nella parabola delle vergini savie e delle vergini folli aveva insegnato «a provvedersi con cura delle cose necessarie a percorrere il cammino della vita». Calvino minimizzava la tensione tra la prudenza e la fede: Dio «ci guida sempre con lo spirito della prudenza».
Non c’è dunque da sorprendersi che l’idea di una possibile interpretazione imprudente delle beatitudini disturbasse Calvino; egli le commentò quindi con molta attenzione. Era d’accordo che non dobbiamo resistere al male, ma ciò non significa che non dobbiamo sforzarci di allontanarlo da noi. Porgere l’altra guancia può forse soltanto suscitare un’ira maggiore nel nostro nemico, perciò dovremmo tener presente l’intenzione di quella prescrizione, che è di ridurre i conflitti. La pazienza che si manifesta nel cedere il mantello a chi ci ha già portato via la tunica è senz’altro lodevole, ma non impedisce di portare in tribunale una causa vincente. Dobbiamo dare a chi chiede, ma non essere prodighi. Dobbiamo prestare senza speranza di ricevere, ma ciò non impedisce di esigere un interesse; lo scopo di quel comandamento è semplicemente quello di stimolare la spontaneità nel dare. Calvino “interpretava” nella stessa linea altri comandamenti. «Vendi tutto ciò che hai» non va «applicato alla lettera», e l’esempio dei gigli del campo non deve impedire qualsiasi previdenza, ma soltanto quella che nasce dalla mancanza di fede. Il “non giudicate” si applica solo ai giudizi ispirati da malanimo.

Calvino raccomandava diverse strategie prudenziali per sopravvivere in un mondo malvagio. La diffidenza nei riguardi del prossimo gli pareva inevitabile. «Ci sono modi di fare delle differenze tra le persone», raccomandava, «che sarebbe follia trascurare», e «Dio ci permette di stare in guardia dinanzi a sconosciuti». Sapeva bene che i cristiani si trovano talvolta in situazioni in cui è necessario usare sistemi normalmente proibiti, e non esitava a raccomandare di farlo.
Concedeva pure che le emergenze possono giustificare l’adozione di misure straordinarie. Probabilmente turbato dalle sue proprie affermazioni, Calvino avanzò una sorta di raison d’église per difendere la predicazione illegale degli apostoli: «In periodi di disordine è necessario tentare molte cose che sono contrarie alle abitudini stabilite, specialmente quando si tratta di difendere la religione e l’adorazione di Dio». «La nostra vocazione», notava, «non si limita sempre ai doveri ordinari, perché talvolta Dio impone ai suoi servitori dei ruoli nuovi e insoliti».
Nonostante l’attaccamento all’interiorità, Calvino era in pari tempo assai sensibile alle apparenze. «Un vestito sporco e rotto disonora una persona, mentre uno pulito e decoroso le guadagna molto favore». Parlava talvolta come un Baldassar Castiglione di classe media: «Come i vestiti che un uomo indossa, o la sua carrozza e i suoi gesti possono rovinare e talvolta migliorare l’impressione che egli produce, così il decorum adorna tutte le sue azioni». La sua preoccupazione per la pubblica decenza si esprimeva pure nel rifiuto di credere che Isaia fosse andato in giro letteralmente nudo per ordine del Signore. «Non bisogna pensare», ammoniva, «che il profeta si sia mostrato senza coprire quelle parti che sono considerate disonorevoli». La rilevanza della reputazione per la vita sociale la rendeva persino più importante dell’apparenza.
«Un cristiano», esortava, «dovrebbe sempre occuparsi di organizzare la sua vita per l’edificazione del suo prossimo». Ma non era insensibile ai vantaggi mondani della buona reputazione. Quando è cattiva, si hanno «difficoltà nell’ottenere ciò che si vorrebbe dal prossimo»; e si può anche far l’esperienza di «rinvii e rimproveri da varie parti».

Nelle riflessioni sulla società, il passaggio di Calvino da un idealismo cosmico a una visione pragmatica si nota specialmente nel suo atteggiamento verso la gerarchia. Non la rifiutò: riteneva che la gerarchia fosse utile a certi scopi e a determinate condizioni. Attribuiva a Dio il fatto che alcuni fossero elevati al rango di «principi, aristocratici, nobili e tutti i gradi dei magistrati e dirigenti», poiché «è necessario che vi sia un certo ordine tra noi». Ma non vedeva nella gerarchia una manifestazione dell’Ordine in quanto tale: era semplicemente uno dei modi possibili di organizzazione sociale. Appartiene soltanto alla police extérieure. Ma dinanzi a Dio, e in linea di principio, tutti gli esseri umani sono uguali. Spiritualmente «non c’è distinzione tra uomo e donna, servo o padrone, povero e ricco, grande e piccolo».
Pur essendo disposto ad accettare per motivi pratici le differenze sociali esistenti, non ne era necessariamente un ammiratore. Aborriva la schiavitù e si rallegrava che fosse sparita da tutta Europa, eccetto la Spagna, dove ne attribuiva la sopravvivenza all’influenza dei barbari africani e turchi. E’ meglio salariare dei servi che possedere degli schiavi. Tuttavia, poiché i patriarchi dell’Antico Testamento l’avevano praticata e gli apostoli l’avevano tollerata, Calvino non poté condannarla in via assoluta.
«Onori, ricchezza e classe sociale», osserva, «si accompagnano quasi sempre all’orgoglio, perciò è difficile domare con un’umiltà volontaria coloro che sono pieni d’arroganza e quasi incapaci di riconoscere che sono uomini anch’essi». Notava inoltre che i grandi uomini, coloro la cui ascesa era stata originariamente motivata dal loro coraggio e dalla loro iniziativa, una volta giunti al sommo tendevano a perdere quelle virtù a causa dell’ambizione «della quale nulla è più servile». Gli onori terreni, pensava, legano gli uomini «come catene d’oro, che impediscono loro di compiere il loro dovere». Un personaggio importante «se è saggio guarderà con sospetto la sua propria grandezza, per evitare che essa diventi un ostacolo per lui». Calvino se la prendeva pure con altri vizi dei grandi, tra i quali annoverava la furia di andare a caccia, che a lui sembrava insensata e distruttiva. «Quando un cacciatore insegue la preda, spende molte più energie che un operaio o un contadino. Vediamo che persino i re e i grandi personaggi di corte quando vanno a caccia ne sono talmente accecati che non vedono i pericoli né sentono la stanchezza». Lo spreco da parte dei grandi, tanto più riprovevole quanto più cospicuo, lo offendeva profondamente.

Il suo atteggiamento riservato nei riguardi delle differenze sociali si riflette nel rispetto con cui trattava le cosiddette “arti meccaniche”; le lodava, assieme alle arti liberali, come doni di Dio che mostrano «l’acutezza della mente umana». «Tutti i tipi di artigiani, che suppliscono ai bisogni della gente», proclamava, «sono ministri di Dio e hanno lo stesso scopo degli altri ministri, ossia la conservazione della razza umana». Dio solo è il loro «autore e maestro».
Talvolta, forse per svergognare le classi superiori, Calvino diceva che i poveri e gli umili sono più ricchi dei grandi, moralmente e sotto altri profili. «Quasi in ogni tempo», diceva, «il popolo comune, per quanto trascinato dalla sua selvatichezza e ignoranza, è meno irreligioso che i nobili e i cortigiani, o altri individui astuti che pensano di superare tutti per talento e furbizia». Calvino affermava di credere che i poveri e gli umili fossero probabilmente più felici dei ricchi. Sono «liberi dall’invidia, da tumulti e contese». Ricavano altrettanto piacere dal loro umile modo di vita: «I contadini e gli artigiani apprezzano la carne di porco e di bue, il formaggio e la quagliata, le cipolle e i cavoli non meno di quanto i ricchi godano dei loro sontuosi banchetti». I discepoli di Cristo «non avevano grandi ricchezze, ma vivevano a casa loro, del lavoro delle loro mani, non meno felicemente di quanto facciano i più ricchi tra gli uomini». Tra gli umili i vincoli familiari sono più stretti. «Gli uomini di classe subalterna», pensava, «abituati a un genere di vita più tranquillo e modesto, soffrono di più quando devono separarsi dalla moglie e i figli, che non coloro che sono sospinti dall’ambizione o quelli che le grandi ricchezze trascinano di qua e di là». Sono anche più amichevoli e ospitali: «un invito da parte di un povero è più diretto e franco», perché i poveri «non temono il disonore se non possono ricevere splendidamente i loro ospiti, in quanto sono più vicini all’antica abitudine di rapporti reciproci». Alcuni di questi sentimenti fanno pensare che Calvino conoscesse meglio i libri, specialmente quelli di ispirazione stoica, che non la realtà della vita delle classi subalterne.
Calvino accennava pure alla maggiore santità degli umili, alla più grande probabilità che fossero contati tra gli eletti, e alle incerte prospettive di salvezza per i grandi e i potenti. «La ricchezza di per sé non ci impedisce di seguire Iddio», osservava, «ma la natura umana è talmente depravata che è quasi certo che coloro che se la passano bene saranno soffocati dalle loro ricchezze». Cristo aveva inizialmente «riunito attorno a sé una chiesa formata da gente comune». A differenza degli apologeti della Controriforma, che sottolineavano la discendenza di Cristo dal re Davide, Calvino insisteva sulle sue umili origini. Sosteneva che «Dio, facendo apparire il suo Figlio sotto le misere spoglie di un mendicante, gli ha conferito un ornamento migliore che se lo avesse fatto rifulgere di tutte le insegne dei re». Dava rilievo al fatto che Cristo, fin dall’infanzia, era stato un lavoratore. Riteneva persino che Cristo fosse un analfabeta.
Il suo senso pratico si manifestava pure nella sua consapevolezza delle realtà di una società urbana e di un’economia mercantile. Si rendeva conto che «oggi sarebbe impossibile rovinare Venezia o Anversa senza che ne derivasse un gran danno a molte nazioni». Al pari di altri umanisti, Calvino difendeva la ricchezza. Dichiarava che «i beni di per sé e per la loro natura non sono affatto da condannare; anzi, è una bestemmia contro Dio disapprovare la ricchezza, come se un uomo che la possiede debba essere totalmente corrotto. Infatti, donde vengono le ricchezze, se non da Dio?». Sosteneva poi che le disuguaglianze materiali fossero inevitabili e non necessariamente indesiderabili. Dopo tutto, la «variabile mescolanza di ricchi e poveri» è determinata dalla Provvidenza. Non è ingiusto che i poveri mangino «pane ordinario e una dieta ridotta», mentre i ricchi si nutrono «più abbondantemente, secondo le loro possibilità», purché lo facciano «con temperanza, senza dimenticare gli altri», e avendo cura dei poveri.
Di conseguenza, Calvino rifiutava l’interpretazione letterale del consiglio che Cristo aveva dato al giovane ricco di vendere tutto ciò che aveva per darlo ai poveri. Riteneva che in questa materia occorresse usare buon senso. Cristo aveva inteso semplicemente obbligare il giovane ricco a riconoscere il suo «vizio nascosto». «Un contadino che debba vivere del proprio lavoro e mantenere la famiglia peccherebbe se vendesse la sua piccola fattoria, salvo che ne fosse obbligato», pensava Calvino, e aggiungeva: «Conservare ciò che Dio ha posto nelle nostre mani è cosa più virtuosa che distruggere tutto, purché manteniamo la nostra famiglia con semplicità e diamo qualche cosa ai poveri». Calvino si opponeva decisamente all’idea di «svaligiare i ricchi» per «trattare umanamente i poveri». Questo atteggiamento influì sulla sua interpretazione della parabola del ricco e di Lazzaro. Secondo lui, essa non andava intesa come una critica della ricchezza in quanto tale, poiché termina dicendo che Lazzaro è accolto nel seno di Abramo, che era un uomo ricco. L’insegnamento da trarne è che «Dio, nella sua grazia e infinita bontà, chiama ugualmente ricchi e poveri alla salvezza». Il cielo è aperto «a tutti coloro che hanno usato della loro ricchezza correttamente o che hanno sopportato la povertà con pazienza». Dio «nel renderci parte del corpo del suo Figlio ci fa nuovamente signori del mondo, perciò possiamo legittimamente godere come di cose nostre di tutto ciò che Egli ci dà così abbondantemente».

Calvino riteneva che la proprietà privata fosse essenziale per l’ordine sociale: «La conservazione della società umana esige che ciascuno possieda ciò che è suo: che gli uni si procurino dei beni comprandoli, altri li ottengano per diritto ereditario, altri per donazione, e che ciascuno accresca i propri mezzi con l’intelligenza, la forza fisica o con altri talenti. In una parola, l’ordine politico esige che ciascuno conservi ciò che è suo». Calvino riteneva che la propaganda di certi gruppi settari a favore del comunismo minacciasse di «sovvertire l’ordine» e di «trasformare il mondo intero in una foresta di briganti in cui, senza contare e senza pagare, ciascuno piglia per sé ciò che può afferrare». Pensava che la Scrittura fosse così evidentemente contraria al comunismo, «che nessuno lo può ignorare». Negava che la Chiesa apostolica lo avesse praticato.
Calvino considerava il denaro come cosa ovvia, «in quanto strumento di comunicazione reciproca tra le persone, usato specialmente per comprare e vendere delle mercanzie». Pur con qualche riserva, aveva una buona opinione del commercio, spingendosi fino a difendere Giuseppe che aveva preso le greggi e le terre degli Egiziani impoveriti in cambio del grano del faraone. «Nessuno», diceva, «si separa liberamente da ciò che possiede». Riteneva che il commercio marittimo, nonostante i suoi abusi, fosse «di non poca utilità per gli uomini”. La mentalità commerciale del suo secolo si rispecchia vivacemente nella metafora economica che egli usa per caratterizzare la vita dei santi. «Coloro che spendono utilmente ciò che Dio ha depositato presso di loro, si dice che fanno commercio. Si può effettivamente paragonare la vita dei fedeli a un commercio, infatti essi dovrebbero trattarsi reciprocamente in modo da conservare la loro associazione; e l’abilità con cui ciascuno esegue il dovere che gli è imposto e segue la sua vocazione, la capacità di fare ciò che è giusto, e gli altri suoi doni, sono considerati come mercanzie, poiché il loro scopo e il loro uso consiste nel facilitare l’intercomunicazione tra persone». Calvino lodava i mercanti come persone che servono la comunità civile: essi «non solo lavorano duramente, ma si espongono a molti disagi e pericoli».

Pertanto, capiva il valore delle convenzioni formali che facilitano le transazioni commerciali: tra queste, in primo luogo, l’uso di contratti precisi e affidabili, tanto importanti per ridurre le ansietà di chi si mette in affari. E poi gli interessi. Calvino si diede da fare per separare l’ingiunzione di Cristo di «prestare senza aspettarsi niente in cambio» dal normale prestito commerciale. Controbatté l’opinione convenzionale secondo cui «ogni forma di usura va condannata senza eccezione»: sosteneva che, trattandosi di ricchi, «l’usura è permessa liberamente». Il suo atteggiamento al riguardo è però permeato di una certa dose di ripugnanza: «Vanno condannate come ingiuste soltanto quelle esazioni in cui il creditore, perdendo di vista l’equità, schiaccia e opprime il debitore. Senza dubbio non vorrei patrocinare l’usura, anzi vorrei che il nome stesso venisse bandito dal mondo; ma su un punto di tale importanza non oso dire più di ciò che le parole di Dio ci fanno sapere. E’ chiarissimo che agli antichi era proibita l’usura, ma dobbiamo riconoscere che ciò faceva parte della loro costituzione politica. Ne consegue che oggi l’usura non è illegale, purché non contravvenga all’equità e alla fraternità».
L’ambivalenza e l’incoerenza di Calvino in questioni sociali ed economiche derivavano in parte dal suo sforzo, in questo come in altri casi, di rimanere in equilibrio tra due estremi. Voleva evitare sia di approvare che di condannare i prestiti a interesse. Non poteva dire che le ricchezze non rappresentano un pericolo per la vita cristiana, ma voleva in pari tempo dissociarsi da coloro che ritenevano che la povertà fosse di per sé una virtù.

   
   
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