Giugno 2003

IL RAPPORTO TRA RICCHEZZA E FEDE ISLAMICA

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Le compartecipazioni
del Profeta
Nicholas George Taylor
 
 

La seconda
religione al mondo segue gli
insegnamenti
del Corano, il quale afferma che nessun musulmano deve guadagnare soldi dalla “riba”,
o usura, imponendo un divieto esteso
ai tassi d’interesse.

 

Alcuni dei clienti dello sceicco Saleh Kamel lasciano i soldi in deposito senza chiedere alcun interesse. Altri insistono per commercializzare gratis i servizi del Dallah AlBaraka Group di proprietà dello stesso sceicco. I clienti dell’uomo d’affari saudita non sono pazzi: sono musulmani. E l’AlBaraka Group, da lui controllato, opera secondo i dettami canonici della Legge islamica.
Invece di pagare interessi sui depositi, come le banche normali, AlBaraka investe i soldi nello scambio di beni e in altre transazioni commerciali, poi dà ai clienti una quota dei profitti. Invece di riscuotere interessi dai mutuatari, offre fondi per acquistare beni e per noleggiare attrezzature, poi aggiunge il proprio margine di profitto come parte dell’operazione. Questo tipo di procedure consente ai musulmani di svolgere le loro operazioni bancarie senza infrangere il precetto islamico che vieta il prestito a interesse. «Vengono da noi perché rispondiamo alle loro esigenze religiose», chiarisce il direttore generale in tunica grigia della consociata del gruppo in Bahrein, l’AlBaraka Islamic Investment Bank.
La banca offre una curiosa miscela di nuovo, di antico e di inaspettato. Il direttore ha un terminale di computer sulla scrivania per tenersi aggiornato sui movimenti del mercato mondiale. Fuori, nei corridoi e negli uffici, le segretarie indossano un velo nero. Ed è capitato che un giorno la banca ha ricevuto la visita di un insegnante di scuola superiore di Dubai che si lamentava perché la consociata non faceva abbastanza per promuovere i propri prodotti tra i musulmani osservanti. Quell’uomo se ne è andato con un gran fascio di moduli per gli amici che probabilmente avrebbero aperto un conto.
E’ tutta un’altra cosa rispetto a Wall Street, ma l’attività bancaria islamica è un’importante nicchia di mercato in espansione. Sebbene non si conoscano dati precisi, si valuta che l’ammontare mondiale dei fondi amministrati secondo i princìpi musulmani raggiunge cifre che superano i cento miliardi di dollari. Si possono trovare istituzioni finanziarie specialistiche islamiche in quasi tutti i Paesi musulmani, dalla Mauritania alla Malaysia, e quest’ultima è in corsa con il Bahrein per diventare il centro planetario del settore.
L’importanza di questa tendenza non è trascurata dai giganti bancari occidentali. La Citibank, un’unità produttiva della Citicorp statunitense, gioca da molto tempo in questo campo e ha in gestione parecchi miliardi di dollari in fondi islamici. Ha inaugurato in Bahrein una consociata bancaria islamica a tutti gli effetti, la Citi Islamic Investment Bank. Anche l’Abn-Amro Holding Nv, olandese, ha organizzato in questo emirato del Golfo Persico un gruppo di persone per operazioni bancarie di tipo islamico.
Il settore è solo poco più in là dei primi passi e rimangono molti ostacoli alla sua maggiore espansione internazionale. Ad esempio, non esiste mercato monetario accettabile per l’Islam. Né esistono regole contabili standardizzate. Ma gli esperti bancari sono ottimisti e ritengono che questi intoppi prima o poi potranno essere superati. «E’ un mercato destinato a registrare grandi sviluppi», prevede un funzionario dell’ufficio marketing della Hsbc Holdings Plc di Londra. «La consideriamo un’area ricca di opportunità».

Poiché i tassi di risparmio crescono e vengono creati nuovi prodotti, il settore può contare su un’espansione annuale almeno del 10-15 per cento. Specifica Samuel L. Hayes, docente di Finanza alla Harvard Business School: «Non credo che ci siano limiti di crescita per l’attività bancaria islamica». Il potenziale demografico del settore è enorme. L’Islam è, per diffusione, la seconda religione al mondo, dopo il Cristianesimo. Il suo miliardo e passa di fedeli segue gli insegnamenti del Corano, il quale afferma che nessun musulmano deve guadagnare soldi dalla “riba”, o usura, imponendo un divieto esteso ai tassi d’interesse.
Fino a poco tempo fa, questo insegnamento non impediva a molti musulmani di concludere affari con banche convenzionali. Ma ora, con la forte ripresa del sentimento religioso, sta crescendo la richiesta di servizi bancari di tipo islamico e le banche rispondono con una gamma più vasta di offerte. «Nuove idee e una nuova tecnologia stanno attirando nuovi clienti», afferma Iqbal Abmad Khan, direttore generale della Islamic Investment Company of the Gulf (Bahrein). «Stiamo vivendo una fase molto interessante».
La crescita dell’integralismo islamico aiuta indirettamente a stimolare lo sviluppo. Sempre più clienti e impiegati di compagnie di assicurazioni, di fondi pensionistici e grandi industrie fanno pressione perché le aziende seguano la Legge islamica. E molti musulmani che si sono arricchiti con gli alti prezzi del petrolio, già a partire dagli anni Settanta e Ottanta, ora si stanno avviando alla pensione e vogliono orchestrare affari e faccende spirituali. Nel frattempo, la diffusione dei computer ha facilitato transazioni troppo lunghe per contabili che devono vedersela con la penna e con i libri mastri.

In alcuni Paesi il settore riceve anche una spinta regolatrice. Iran, Pakistan e Sudan, ad esempio, hanno approvato una legislazione che obbliga il loro sistema bancario secondo i princìpi islamici. Altri Paesi a prevalenza musulmana, come la Malaysia e l’Indonesia, vantano invece floride istituzioni islamiche accanto alle banche convenzionali. Tra queste figurano sul mercato la Goldman Sachs & Co. e la Dresdner Bank: entrambe negoziano beni economici per conto di clienti islamici. La United Bank del Kuwait amministra vari miliardi di dollari di fondi leasing, usando denaro islamico per finanziare compagnie azionarie di prim’ordine negli Stati Uniti. E la banca commerciale britannica Robert Fleming & Co. ha lanciato da qualche anno un fondo di investimento che ha raccolto oltre 100 milioni di sterline (superando i 300 miliardi di vecchie lire italiane) di investimenti in azioni ordinarie accettabili per l’Islam. Il che significa niente fabbriche di birra, distillerie, compagnie che fanno speculazioni, o banche in stile occidentale.

Malgrado le radici religiose, si tratta di affari molto concreti, con reali obiettivi di impresa, sfide e limitazioni. Gli investitori islamici, come gli investitori di tutto il mondo, non intendono farsi spennare. Gli interessi sono banditi, ma la maggior parte delle operazioni commerciali islamiche usa i tassi d’interesse di mercato come parametro. La differenza sta nei sottintesi imperativi di tipo etico e anche qui saltano fuori alcune significative eccezioni. Molti prodotti che da poco stanno emergendo aprono nuove frontiere alla finanza islamica. Ma alcuni sono così fluttuanti che non è chiaro se riceveranno l’approvazione degli studiosi e degli esperti della Legge coranica che esercitano un potere immenso nel decidere quali pratiche siano accettabili e quali altre no.
Prendiamo la gestione delle passività, in cui le banche cercano di fare l’uso più redditizio dei saldi di cassa a breve termine, mentre hanno abbastanza denaro disponibile per far fronte ai prelievi del cliente. «E’ uno dei terreni più delicati dell’attività bancaria islamica», sostiene Abdelhak el-Kafsi, a capo del settore bancario di tipo islamico presso l’Arab Banking Corp., o Abc, controllata dai governi del Kuwait, della Libia e degli Emirati Arabi. Delicato, quanto? Nel suo ufficio dalle pareti nude, in Bahrein, affacciato sul blu del Golfo Persico, il funzionario vestito all’occidentale delinea alcune delle insidie nascoste. A differenza delle banche convenzionali, quelle islamiche non possono dare o prendere a prestito denaro per andare incontro alle necessità di gestione della liquidità a breve termine, puntualizza Kafsi. Questo le scoraggia dall’investire a lungo termine, nel timore di poter avere problemi a mobilizzare fondi in fretta e furia.
La maggior parte degli affari dell’Abc si svolge secondo i sistemi bancari tradizionali. Ma, nell’intento di espandere l’operatività islamica, è stato ideato un prodotto per risolvere la complessa questione del mercato monetario. Il progetto è stato quello di vendere titoli azionari di una consociata che conducesse operazioni di scambio e leasing secondo metodi accettabili per l’Islam. L’attività imprenditoriale dell’azienda è stata strutturata in modo che i titoli segnino regolari aumenti di valore. Le banche e gli altri partecipanti sul mercato li permutano a breve termine o con scadenza quindicinale, investendo la liquidità in eccedenza e mobilizzando fondi quando necessario. La Chemical Banking americana permuta titoli su contratti leasing.
Fin qui, tutto bene. Ma progetti come questi possono essere varati solo quando i consiglieri religiosi dichiarano la loro conformità alla Legge islamica, la Shari’a. Il guaio è che i titoli di credito possono essere interpretati come uno strumento che comporti il pagamento di utili, anche se, alle spalle, hanno un bene tangibile. Diversi gruppi di “dottori della legge”, cioè di mullah, hanno punti di vista discordanti sull’accettabilità di queste operazioni. Alcuni, soprattutto nel Sud-Est asiatico, optano per un approccio accomodante, mentre altri sono più rigorosi. Il Comitato per la Shari’a formato da studiosi islamici nominati come consulenti dalla Al Rajhi Banking and Investment dell’Arabia Saudita, ad esempio, pretende regolarmente di vedere i beni materiali alla base delle operazioni commerciali nelle quali i suoi banchieri investono per conto dei clienti. Per i membri del Comitato, l’investimento in un titolo di mercato monetario intangibile sarebbe l’equivalente di un anatema.
Riluttanze religiose di questa natura hanno finora impedito al sistema bancario islamico di svilupparsi in qualcosa di più di un mercato specializzato. Al Rajhi – una delle maggiori banche del mondo a operare esclusivamente secondo linee di condotta islamiche – ha un attivo di oltre 15 miliardi di dollari. Citicorp e Abn-Amro, invece, hanno attività superiori ai 300 miliardi di dollari a testa. Dar al-Maal al-Islami, un gruppo con sede a Ginevra controllato dal principe saudita Mohamad al Faysal al Saud, ha un attivo totale di soli cinque miliardi di dollari.

L’espansione è ulteriormente frenata dalla mancanza di un accordo internazionale su come le banche islamiche debbano essere regolamentate. Nel 1993 Albaraka dovette chiudere una consociata nel Regno Unito dopo che la Bank of England sollevò questioni sulla mancanza di un’ultima fonte di credito. E l’assenza di standard contabili comuni rende arduo per gli osservatori esterni valutare la forza finanziaria di istituzioni individuali.
Il Bahrein, nello sforzo di farsi accettare come centro mondiale del sistema bancario islamico, varò una campagna per risolvere questi problemi. Funzionari del suo organismo finanziario si incontrarono regolarmente con le banche di credito ordinario per appianare intoppi nell’attività. La campagna ricevette un’ulteriore spinta dal fatto che questo minuscolo Paese, con una popolazione di 600 mila abitanti, ha centinaia di banchieri, conseguenza dell’emergenza del Bahrein nell’ultimo quarto di secolo come baricentro finanziario dell’area, ruolo che fu un tempo di Beirut.
Di recente, la stabilità del Bahrein è stata scossa da una serie di attentati, e da scontri fra polizia e integralisti islamici. Malgrado questi avvenimenti, la posizione geografica di questo Paese presenta vantaggi considerevoli: è vicino all’Arabia Saudita, sede dei due luoghi più sacri dell’Islam, La Mecca e Medina, e ad alcuni dei più rilevanti patrimoni del mondo islamico. Anche se il veto sulla “riba” è antico come il Corano, le prime istituzioni finanziarie dei tempi moderni condotte secondo direttive islamiche nacquero solo negli anni Cinquanta, quando alcune casse di risparmio rurali furono istituite in Egitto, durante la rivoluzione di Nasser. Offrivano solo rudimentali facilitazioni di deposito, e la prima istituzione islamica completa non fu creata che nel 1975.
La Dubai Islamic Bank, come venne chiamata, fu fondata negli Emirati Arabi da un uomo d’affari appoggiato dall’emiro locale. Cominciava la sua vita proprio quando il boom del petrolio trasformava Dubai da una sgangherata cittadina portuale costruita con mattoni di fango in una brulicante città di grattacieli scintillanti. Ma presto la banca esaurì le opportunità di investimento a Dubai e fu obbligata a guardare all’estero. Purtroppo per i clienti, la scelta dei partner stranieri ebbe solo un parziale successo. Sul versante positivo, furono stabiliti legami con Kleinwort, la banca mercantile britannica che stava progettando un affare lucroso con le operazioni finanziarie islamiche. Con un volume annuo per questo tipo di prodotto di quasi sette miliardi di dollari, Kleinwort è uno dei maggiori speculatori occidentali nel campo. Sul fronte negativo, la banca di Dubai depositò fondi con la Bank of Credit & Commerce International. Quando la Bcci crollò, nel 1991, tra le accuse di frode per molti miliardi di dollari, alla banca di Dubai restò una perdita di 50 milioni di dollari. Secondo i princìpi di compartecipazione ai rischi del sistema bancario islamico, le perdite vennero passate agli investitori sotto forma di profitti più bassi. Il fiasco, collegato a perdite analoghe in due altre banche islamiche in Egitto e in Qatar, segnò uno spartiacque per l’attività bancaria islamica.
Da una parte, suggerì ai professionisti di prestare più attenzione agli attivi dei bilanci. Con la guerra del Golfo appena finita e le enormi somme necessarie per finanziare la ricostruzione del Kuwait, una nuova generazione di banche di investimento islamiche si accinse a organizzare operazioni finanziarie per un nuovo gruppo di clienti esigenti. La combinazione di circostanze «obbligò il sistema bancario islamico a diventare più innovativo», sostiene Ahmed al Janahl, direttore generale in Bahrein dell’International Investment Group, con base in Kuwait.
Oggi, la Dubai Islamic Bank presenta il volto tradizionale del sistema bancario islamico. Nella hall dell’edificio a otto piani che è la sua sede centrale, cassieri baffuti in bianche vesti e acconciatura beduina servono i clienti sotto un pannello dorato su cui un passo del Corano descrive minutamente il divieto islamico dell’usura. I membri del personale infarciscono i loro discorsi di proverbi e riferimenti religiosi. Con attivi che superano i due miliardi e mezzo di dollari, «il nostro primo e principale scopo è di presentare servizi di tipo islamico ai musulmani, seguendo la giusta procedura per ottenere profitto», afferma Osman Mukhtar, a capo degli investimenti e delle relazioni estere della banca. Altre società islamiche sono invece decise a portare nel mondo musulmano la moderna attività di investimento. Le punte più avanzate di questo tentativo sono l’International Investment Group, o Lig, di proprietà di investitori pubblici e privati kuwaitiani e del gruppo AlBaraka; e la Islamic Investment Company of the Gulf, o Licg, di proprietà di Dar al-Maal al-Islami.
Di recente la Lic è stata pioniera di una delle prime emissioni pubbliche del mondo islamico con il lancio della National Real Estate del Kuwait. Ha anche varato con successo un fondo leasing usando denaro islamico per finanziare investimenti di capitale di compagnie americane e ha organizzato strutture consorziate di finanziamento a imprese del Medio Oriente, compresa la Saudi Cable.
La Licg, nel frattempo, ha organizzato operazioni di finanziamento a medio termine (per esempio, due progetti autostradali in Turchia) che coinvolgono fornitori di capitali islamici insieme ad agenzie di credito per l’esportazione e banche occidentali. «Tutte le nostre transazioni sono regolate con grande precisione per assicurare la partecipazione sia delle istituzioni tradizionali sia di quelle locali», conferma Khan, il direttore generale di origine indiana della Licg in Bahrein, che ha lavorato in due banche di investimento statunitensi. Simili combinazioni di finanziamento convenzionale e islamico potrebbero essere una chiave per la futura crescita del settore. Finora, miscele di questo genere si sono dimostrate difficili a causa delle complessità legali e per la riluttanza delle banche islamiche a investire a lungo termine. Ma diversi professionisti sia islamici sia occidentali sembrano ottimisti, dato che le crescenti richieste di investimenti da parte del mondo islamico attraggono i banchieri occidentali che cercano nuove e lucrose opportunità. Nel mondo musulmano «c’è un gran vassoio di fondi a cui attingere», sostiene Tony Asselly, direttore della banca di investimento britannica Schroder Asselly & Co. «Data la scarsità di capitale e viste le necessità dei progetti su larga scala, varrebbe la pena esplorarlo».

   
   
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