Giugno 2003

FONTI ENERGETICHE E FUTURO

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Il “Fattore P”
Jeremy Rifkin
Premio Nobel per l’Economia
 
 

Avverto qualcosa di disperato in questa ossessione per il petrolio, e in questo senso credo che il “Nuovo Mondo” sia oggi l’Europa.

 

Il petrolio è al centro delle tre grandi crisi che stiamo vivendo. La prima è la crisi nel Medio Oriente. Se vi si susseguono guerre a catena, i prezzi del greggio possono andare alle stelle, gli islamisti potrebbero lanciare lo slogan “petrolio per l’Islam”, chiedendo ai sauditi di imporre un embargo, i pozzi potrebbero essere messi a ferro e a fuoco, come avvenne nel 1999 nel Kuwait. Cosa accadrebbe se il prezzo per barile salisse a 50, a 60 o a 70 dollari? L’economia globale oggi è così fragile che un consistente aumento dei prezzi petroliferi può avere effetti devastanti sull’economia planetaria a lunghissimo termine.
Le altre due crisi connesse al petrolio sono altrettanto gravi. Il riscaldamento dell’atmosfera è persino più preoccupante sul lungo periodo: abbiamo bruciato enormi quantitativi di combustibili fossili per finanziare il nostro sviluppo e ora paghiamo il conto. Gli scienziati avevano avvertito che l’accumulo di biossido di carbonio e l’effetto serra avrebbero provocato radicali mutamenti climatici. Negli Stati Uniti, però, questo veniva considerato un problema astratto. Fino a quando l’America è stata sconvolta da siccità e spaventosi incendi. In Europa ci sono state grandi inondazioni. Nel Sud-Est asiatico una nube marrone ha coperto metà del continente e ha causato migliaia di vittime per problemi respiratori, oltre a un declino del 10 per cento della produzione agricola. Enormi iceberg si sono staccati dalle banchise polari e si sono sciolti o stanno sciogliendosi negli oceani, il cui livello si sta innalzando. Tutto questo è sotto i nostri occhi e la gente comincia a rendersi conto che abbiamo alterato la biochimica del pianeta, creando una crisi senza precedenti, la più grave che il genere umano dovrà affrontare. E a costi elevatissimi per l’intero settore industriale.

La terza crisi connessa al petrolio è il solco tra il Nord e il Sud del mondo. Concordo con chi richiede l’azzeramento del debito del Terzo Mondo. Ma non basta, perché quel debito si riformerà in brevissimo tempo. Per trent’anni, da quando nel 1973 il prezzo del greggio salì da 3 a 12 dollari al barile, i Paesi in via di sviluppo (Pvs) hanno chiesto prestiti al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale per comprare petrolio e modernizzare le proprie economie. Oggi, 83 centesimi di ogni dollaro che questi Paesi ricevono in prestito serve a ripagare gli interessi pregressi sui debiti. E l’immigrazione illegale in Europa e negli Stati Uniti sta diventando un flusso inarrestabile: non si può fermare questa che è la più grande migrazione della storia umana, perché non si può impedire che i disoccupati dei Paesi indebitati si riversino dove ci sono opportunità di lavoro.
Quale può essere, allora, la via d’uscita? Gli esperti americani del Geological Survey e del Dipartimento dell’Energia situavano attorno al 2040 il picco dei consumi petroliferi, cioè il momento in cui la metà delle riserve mondiali saranno state consumate. E’ il momento a partire dal quale il prezzo del petrolio comincerà a salire inesorabilmente, a prescindere da qualsiasi fattore esterno. Ma ora alcuni dei migliori geologi del mondo, che hanno sviluppato nuovi modelli di analisi e di previsione, sostengono che il picco sarà raggiunto prima: i pessimisti indicano il 2010, gli ottimisti il 2020 oppure il 2030. Non so chi abbia ragione, ma la differenza è di soli vent’anni. Siamo alla vigilia del tramonto di un grande ma breve periodo della nostra storia, quello dell’energia prodotta da combustibili fossili, iniziata con il carbone in Inghilterra e conclusasi con il petrolio del Medio Oriente. Tutto ciò deve costringerci a riflettere, a dare inizio ad una discussione seria su come costruire un’infrastruttura e una strategia per uscire dall’era dei combustibili fossili ed entrare in quella dell’idrogeno, l’unica fonte di energia rinnovabile che si può immagazzinare. Altrimenti, le attuali infrastrutture energetiche finiranno senza alcun dubbio per collassare.

Parliamo con franchezza. Quando nel 1973 venne imposto l’embargo, tutti ci precipitammo a cercare fonti alternative. Le abbiamo trovate, ma sono limitate. Il Mare del Nord ha raggiunto il picco nel 2002. Il Mar Caspio lo raggiungerà nel 2010. L’Europa importa grossi quantitativi dalla Russia e l’America ha siglato con la stessa Russia un accordo energetico. Ma le riserve russe si stanno esaurendo. Mosca non possiede i megagiacimenti del Medio Oriente e sta creando una falsa sensazione di sicurezza inondando il mercato di greggio a basso costo. Non illudiamoci: il sottosuolo del pianeta è già stato scandagliato ed è improbabile che si scoprano nuovi giacimenti importanti a costi di estrazione accessibili. Di fatto, le ultime grandi riserve di petrolio e di gas sono in Medio Oriente, cioè nella regione più instabile del mondo. E il controllo delle ultime grandi riserve sarà decisivo nei prossimi anni, quando il picco della produzione coinciderà con il periodo di massima espansione demografica ed economica di Paesi come l’India e la Cina, che avranno un fabbisogno energetico molto superiore al nostro.
In termini monetari, noi americani spendiamo più denaro per proteggere militarmente le risorse petrolifere del Golfo di quanto è il valore del petrolio importato da quella regione. E la situazione è destinata a peggiorare quando i grandi consumatori di greggio, Cina e India incluse, si renderanno conto che le ultime fonti di petrolio sono concentrate in Medio Oriente. Dobbiamo aspettarci un aumento delle tensioni in quest’area, delle attività militari, rischi di altre guerre.
Ma la posta in gioco è più alta. E’ in atto un cambiamento fondamentale nei rapporti tra Europa e America. L’Europa sta lentamente cominciando a ridurre la propria dipendenza dagli idrocarburi e dai combustibili fossili e a muoversi verso le energie rinnovabili. Si è posta l’obiettivo di produrre con energia rinnovabile il 22 per cento dell’elettricità e il 12 per cento del fabbisogno energetico totale entro otto anni, e a Johannesburg ha proposto di raggiungere a livello mondiale l’obiettivo del 15 per cento del fabbisogno prodotto con energie rinnovabili, soprattutto con l’idrogeno. Ma gli Usa si sono opposti.
Mentre l’Europa ha individuato la giusta direzione, gli Stati Uniti restano aggrappati al vecchio regime energetico. Avverto qualcosa di disperato in questa ossessione per il petrolio, e in questo senso credo che il “Nuovo Mondo” sia oggi l’Europa. L’Ue può fare un salto qualitativo di portata storica. Dovrebbe mobilitare le compagnie petrolifere come Bp e Dutch Shell (che si stanno muovendo in questa prospettiva, al contrario dell’americana Exxon Mobil), la società civile, la finanza, i governi, per dire: progettiamo uno schema in cui operare per uscire dalla schiavitù degli idrocarburi e dei combustibili fossili, con l’obiettivo di diventare la superpotenza mondiale all’idrogeno del XXI secolo. Ci vorranno molti anni, si dovranno superare difficoltà tecniche e politiche, ma è la sola strada possibile: e l’Europa ha cominciato a percorrerla.

   
   
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