Per uno scherzo della storia,
ad Arborea, vicino Oristano, una delle aree più aride
dItalia, si coltiva la pianta più
assetata del mondo.
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Si dice: è necessario realizzare un piano idrico concreto,
estendendo gli invasi, magari con i vecchi laghetti artificiali
collinari degli anni Cinquanta e poi introducendo finalmente sistemi
di irrigazione moderni. E infine dovremo anche ripensare le coltivazioni,
per renderle compatibili con lacqua disponibile. Conti necessari,
perché si va dai 15 mila metri cubi per la coltivazione di
un ettaro di riso allo zero per quella di unanaloga superficie
seminata a frumento. Perciò si aggiunge: un tempo si coltivavano
i cereali invernali, come il frumento, appunto, che si semina a
ottobre e si raccoglie a giugno, beneficiando dellautunno
mediterraneo; poi in molte zone il frumento è stato soppiantato
dai cereali estivi, come il mais, che ha bisogno di molta acqua:
serve allora uno studio a livello europeo delle coltivazioni, dei
costi e delle ricadute di una possibile riconversione per tornare
al passato. E non è cosa facile, almeno nel breve periodo.
I kiwi, per esempio. Negli anni in cui questo frutto veniva venduto
a mille lire a pezzo, i coltivatori si buttarono di slancio su questo
che era considerato un nuovo oro verde. Così, siamo diventati
il primo produttore mondiale, sopravanzando la stessa Nuova Zelanda.
Senza considerare che non sarà un caso se la terra-madre
è verde come il frutto: il kiwi richiede 9 mila metri cubi
di acqua per ettaro allanno, cioè il doppio delle fragole
e molto più del pomodoro o dellarancio, che pure sono
prodotti idroesigenti. Lulivo e la vite, presenti nel Sud
da due millenni prima di Cristo, si possono coltivare quasi in assenza
di acqua. Eppure, in molte regioni, come la Puglia, la Basilicata
o il Lazio, fu proprio la vite a lasciare il posto al kiwi, e soltanto
ora, con il prezzo di questo frutto sceso a picco, qualcuno sembra
essersi pentito e sta tornando allantica vite.

Naturalmente, non è semplice chiedere agli agricoltori di
abbandonare una coltura intensiva che reclama moltissima acqua,
ma che spunta un buon prezzo sul mercato, almeno fino a quando lacqua
sarà pressoché gratuita. Del resto, la coltivazione
è solo lanello intermedio della catena: non la si può
cambiare senza considerare tutte le conseguenze che si avrebbero
a monte, come lacquisto dei mezzi tecnici necessari per quel
tipo di prodotto, e a valle, nel settore della trasformazione. Per
ogni intervento si deve analizzare limpatto sulleconomia
e anche sulla tradizione della zona.
A volte il cambiamento di coltura richiede anche un profondo cambiamento
di cultura. Prendiamo il caso del riso sardo. Per uno scherzo della
storia ad Arborea, vicino Oristano, nel Campidanese, una delle aree
più aride dItalia, si coltiva la pianta più
assetata del mondo. Dopo la bonifica portata a termine nel periodo
fascista, la zona venne colonizzata dai veneti che vi portarono
la polenta e la coltivazione del riso. Per un buon raccolto, lavido
chicco chiede dai 15 ai 20 mila metri cubi per ettaro di acqua,
tanto che negli anni difficili, come i tre ultimi trascorsi, la
produzione si dimezza.
Unaltra tradizione nefasta per il consumo di acqua è
la tecnica dellimmersione per forzare gli agrumeti
a produrre maggiori quantità di arance, di mandarini e di
limoni, tipica del Catanese. Sei aziende meridionali su cento usano
limmersione, e ben 56 su cento usano la vecchia irrigazione
superficiale con i solchi. Soltanto 14 aziende su cento sono passate
ai sistemi a goccia o a spruzzo, che hanno il pregio di innaffiare
esclusivamente dove è necessario. Basterebbe adottare queste
tecniche per quintuplicare le risorse disponibili e fermare il deserto
che avanza, in virtù delle acque salmastre con le quali si
irrigano le terre, una volta prosciugata la parte di acqua dolce
presente in falda. In mancanza di acqua di superficie, infatti,
i nostri coltivatori fanno ricorso alla vecchia arte italiana dellarrangiarsi.
Come in città si sopperisce alla mancanza di mezzi pubblici
con i motorini, così nelle campagne, in assenza di acquedotti,
ciascuno si fa scavare il suo bravo pozzo artesiano. Il 65 per cento
degli agricoltori meridionali si approvvigiona in questo modo. Con
la logica conseguenza che le falde idriche si abbassano e che gli
antichi pozzi, quelli scavati a mano anche in tempi non lontani,
si stanno prosciugando.
Non sono soltanto gli agricoltori a dover cambiare metodi di produzione.
Sacrifici si impongono anche al settore industriale. Alcuni esempi.
Le acciaierie Ilva di Taranto consumano 20 milioni di metri cubi
di acqua potabile allanno. Se utilizzassero invece le acque
reflue, si libererebbe un quantitativo di acqua sufficiente per
irrigare 20 mila ettari. Per non parlare della Fiat di Melfi, del
Poligrafico di Foggia o le turbine delle centrali idroelettriche
sarde, che scaricano a mare acqua pulita. Non mancano poi delle
vere e proprie follie, riservate però agli sport délite.
In Sardegna durante gli open di golf di un paio di anni fa, qualcuno
lanciò lidea di investire due miliardi di euro di fondi
strutturali per la realizzazione di nuovi campi. Si arrivò
così al paradosso che la regione sarda, mentre da un lato
chiedeva aiuti per la grande sete, dallaltro era socia del
campo di Is Molas a Santa Margherita, che pompa milioni di metri
cubi dal Rio Pula. Contro lo scempio ambientale di un altro campo,
quello di Is Arenas, in provincia di Oristano, è intervenuta
anche la Commissione europea.
La mania del golf ha contagiato anche la Basilicata. A Policoro,
dove le coltivazioni delle fragole vanno morendo e i trattori si
incolonnano a chiedere acqua, dovrebbe sorgere un altro grande campo
verde. Sprechi inaccettabili in tempi di siccità, come i
cannoni sparaneve che prosciugano le sorgenti ad alta quota di regioni
assetate come lAbruzzo, contro i quali il presidente del Wwf
si batte da anni.

Anche i consumi alimentari dovranno una volta o laltra cambiare,
evitando i pomodori a Natale e le arance a ferragosto, perché
le serre impiegano grandi quantità di acqua. E stato
precisato dai responsabili Unesco per la desertificazione che ogni
uovo ha dentro di sé mille litri di acqua, utilizzata per
produrlo e pulirlo, ma non li comprende nel suo prezzo, perché
questo viene scaricato sulla collettività.
Un Atlante dellacqua pubblicato di recente spiega
come si può in qualche modo sfuggire alla desertificazione
applicando le conoscenze tradizionali, quelle degli antichi: «Cè
un fiume nel cielo dicevano i greci basterebbe saperlo
vedere. E invece abbiamo trasformato la terra in un tavolo di biliardo
sul quale lacqua continua a scivolare. Non cè
una siepe, una masseria, una pietra a trattenerla. Bisognerebbe
tornare ai muri a secco che trattengono umidità per tirarla
fuori nei momenti di siccità. Ma oggi li smontano per costruire
recinzioni di ville».
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