Giugno 2003

ORO BLU PER IL SUD

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Se avanza il deserto
Roberto Di Capua
 
 

Per uno scherzo della storia,
ad Arborea, vicino Oristano, una delle aree più aride
d’Italia, si coltiva la pianta più
assetata del mondo.

 

Si dice: è necessario realizzare un piano idrico concreto, estendendo gli invasi, magari con i vecchi laghetti artificiali collinari degli anni Cinquanta e poi introducendo finalmente sistemi di irrigazione moderni. E infine dovremo anche ripensare le coltivazioni, per renderle compatibili con l’acqua disponibile. Conti necessari, perché si va dai 15 mila metri cubi per la coltivazione di un ettaro di riso allo zero per quella di un’analoga superficie seminata a frumento. Perciò si aggiunge: un tempo si coltivavano i cereali invernali, come il frumento, appunto, che si semina a ottobre e si raccoglie a giugno, beneficiando dell’autunno mediterraneo; poi in molte zone il frumento è stato soppiantato dai cereali estivi, come il mais, che ha bisogno di molta acqua: serve allora uno studio a livello europeo delle coltivazioni, dei costi e delle ricadute di una possibile riconversione per tornare al passato. E non è cosa facile, almeno nel breve periodo.
I kiwi, per esempio. Negli anni in cui questo frutto veniva venduto a mille lire a pezzo, i coltivatori si buttarono di slancio su questo che era considerato un nuovo oro verde. Così, siamo diventati il primo produttore mondiale, sopravanzando la stessa Nuova Zelanda. Senza considerare che non sarà un caso se la terra-madre è verde come il frutto: il kiwi richiede 9 mila metri cubi di acqua per ettaro all’anno, cioè il doppio delle fragole e molto più del pomodoro o dell’arancio, che pure sono prodotti idroesigenti. L’ulivo e la vite, presenti nel Sud da due millenni prima di Cristo, si possono coltivare quasi in assenza di acqua. Eppure, in molte regioni, come la Puglia, la Basilicata o il Lazio, fu proprio la vite a lasciare il posto al kiwi, e soltanto ora, con il prezzo di questo frutto sceso a picco, qualcuno sembra essersi pentito e sta tornando all’antica vite.

Naturalmente, non è semplice chiedere agli agricoltori di abbandonare una coltura intensiva che reclama moltissima acqua, ma che spunta un buon prezzo sul mercato, almeno fino a quando l’acqua sarà pressoché gratuita. Del resto, la coltivazione è solo l’anello intermedio della catena: non la si può cambiare senza considerare tutte le conseguenze che si avrebbero a monte, come l’acquisto dei mezzi tecnici necessari per quel tipo di prodotto, e a valle, nel settore della trasformazione. Per ogni intervento si deve analizzare l’impatto sull’economia e anche sulla tradizione della zona.
A volte il cambiamento di coltura richiede anche un profondo cambiamento di cultura. Prendiamo il caso del riso sardo. Per uno scherzo della storia ad Arborea, vicino Oristano, nel Campidanese, una delle aree più aride d’Italia, si coltiva la pianta più assetata del mondo. Dopo la bonifica portata a termine nel periodo fascista, la zona venne colonizzata dai veneti che vi portarono la polenta e la coltivazione del riso. Per un buon raccolto, l’avido chicco chiede dai 15 ai 20 mila metri cubi per ettaro di acqua, tanto che negli anni difficili, come i tre ultimi trascorsi, la produzione si dimezza.
Un’altra tradizione nefasta per il consumo di acqua è la tecnica dell’immersione per “forzare” gli agrumeti a produrre maggiori quantità di arance, di mandarini e di limoni, tipica del Catanese. Sei aziende meridionali su cento usano l’immersione, e ben 56 su cento usano la vecchia irrigazione superficiale con i solchi. Soltanto 14 aziende su cento sono passate ai sistemi a goccia o a spruzzo, che hanno il pregio di innaffiare esclusivamente dove è necessario. Basterebbe adottare queste tecniche per quintuplicare le risorse disponibili e fermare il deserto che avanza, in virtù delle acque salmastre con le quali si irrigano le terre, una volta prosciugata la parte di acqua dolce presente in falda. In mancanza di acqua di superficie, infatti, i nostri coltivatori fanno ricorso alla vecchia arte italiana dell’arrangiarsi. Come in città si sopperisce alla mancanza di mezzi pubblici con i motorini, così nelle campagne, in assenza di acquedotti, ciascuno si fa scavare il suo bravo pozzo artesiano. Il 65 per cento degli agricoltori meridionali si approvvigiona in questo modo. Con la logica conseguenza che le falde idriche si abbassano e che gli antichi pozzi, quelli scavati a mano anche in tempi non lontani, si stanno prosciugando.

Non sono soltanto gli agricoltori a dover cambiare metodi di produzione. Sacrifici si impongono anche al settore industriale. Alcuni esempi. Le acciaierie Ilva di Taranto consumano 20 milioni di metri cubi di acqua potabile all’anno. Se utilizzassero invece le acque reflue, si libererebbe un quantitativo di acqua sufficiente per irrigare 20 mila ettari. Per non parlare della Fiat di Melfi, del Poligrafico di Foggia o le turbine delle centrali idroelettriche sarde, che scaricano a mare acqua pulita. Non mancano poi delle vere e proprie follie, riservate però agli sport d’élite. In Sardegna durante gli open di golf di un paio di anni fa, qualcuno lanciò l’idea di investire due miliardi di euro di fondi strutturali per la realizzazione di nuovi campi. Si arrivò così al paradosso che la regione sarda, mentre da un lato chiedeva aiuti per la grande sete, dall’altro era socia del campo di Is Molas a Santa Margherita, che pompa milioni di metri cubi dal Rio Pula. Contro lo scempio ambientale di un altro campo, quello di Is Arenas, in provincia di Oristano, è intervenuta anche la Commissione europea.
La mania del golf ha contagiato anche la Basilicata. A Policoro, dove le coltivazioni delle fragole vanno morendo e i trattori si incolonnano a chiedere acqua, dovrebbe sorgere un altro grande campo verde. Sprechi inaccettabili in tempi di siccità, come i cannoni sparaneve che prosciugano le sorgenti ad alta quota di regioni assetate come l’Abruzzo, contro i quali il presidente del Wwf si batte da anni.

Anche i consumi alimentari dovranno una volta o l’altra cambiare, evitando i pomodori a Natale e le arance a ferragosto, perché le serre impiegano grandi quantità di acqua. E’ stato precisato dai responsabili Unesco per la desertificazione che ogni uovo ha dentro di sé mille litri di acqua, utilizzata per produrlo e pulirlo, ma non li comprende nel suo prezzo, perché questo viene scaricato sulla collettività.
Un “Atlante dell’acqua” pubblicato di recente spiega come si può in qualche modo sfuggire alla desertificazione applicando le conoscenze tradizionali, quelle degli antichi: «C’è un fiume nel cielo – dicevano i greci – basterebbe saperlo vedere. E invece abbiamo trasformato la terra in un tavolo di biliardo sul quale l’acqua continua a scivolare. Non c’è una siepe, una masseria, una pietra a trattenerla. Bisognerebbe tornare ai muri a secco che trattengono umidità per tirarla fuori nei momenti di siccità. Ma oggi li smontano per costruire recinzioni di ville».

   
   
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