Giugno 2003

CRISI FIAT E DINTORNI

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Potere e leadership:
le rughe di un mito
Claudio Alemanno
 
 

Il caso Fiat può
diventare un esempio di modernità
se si utilizza come
laboratorio pilota
per affermare
una nuova cultura
manageriale.

 

La crisi del ciclista nasce quando pedalando in salita si rende conto di essere in discesa. La sindrome del ciclista ora ha colpito anche la Fiat. Nelle classifiche internazionali si collocava al quinto posto nel 1990, mentre è scesa al tredicesimo nel 2000. Cosa è successo nell’arco di un decennio? C’è un forte odore d’incenso nella sede di Corso Marconi e nei corridoi del Lingotto. Copre silenzi e domande inevase. Silenzio sul lungo atteggiamento silente del management (120 top manager con faccia cementizia). Silenzio sulle ragioni che hanno prodotto la coincidenza di più crisi: di prodotto, di marketing, di finanza, di organizzazione.

Gli italiani credevano nell’eternità della Fiat, improvvisamente hanno scoperto la sua fallibilità. I risparmiatori più fedeli la osservano ormai con la stessa curiosità riservata ad una donna avvolta nel sudario del burqa (altro segno dei tempi). Sul fronte del lavoro c’era l’orgoglio dell’appartenenza. Adesso quadri e operai devono lottare contro l’invisibilità.
I numerosi sensori accesi per monitorare la crisi hanno fatto riaffiorare tic antichi, partorendo piani e cordate di salvataggio. Attorno al nuovo ordito si sono intrecciate trame di palazzi politici e salotti finanziari, sono germogliati Vice con la vocazione dei tutor, sono nati consorzi-elmetto formati con sodalizi improvvisi. Un classico del folklore italiano che s’intreccia con il declino di un impero celeste.
Tutto ciò potrebbe essere accettato dall’establishment e dalla pubblica opinione con la solita miscela di fatalismo e pazienza francescana se la Fiat non fosse un’icona del capitalismo italiano, se non avesse quel forte radicamento sul territorio che la rende di fatto Stato nello Stato, un crocevia determinante per le politiche di sviluppo e la crescita sociale. Storicamente la famiglia Agnelli è stata animata da un forte rispetto per le istituzioni e da un illuminato liberalismo che hanno consentito di tenere costantemente aperto il dialogo politico e il dialogo sociale. Con questi due fari sempre accesi ha potuto svolgere con profitto attività d’impresa per oltre un secolo, instaurando sul mercato nazionale una salda egemonia di prodotto e di costume (andare in Fiat era economico e bello).
Una maxiazienda in un Paese di scarse fortune industriali crea di fatto un cartello politico-amministrativo, ma si espone anche ai rischi di una cultura politica adulatrice, tendente a sterilizzare l’indipendenza d’impresa. Nel mare aperto della competizione globale questa forma di gentleman agreement si è progressivamente deteriorata. Il reato di lesa maestà è stato derubricato in facoltativo timore reverenziale.
Il risveglio è stato brusco e traumatico. La necessità di sopravvivenza e la volontà di potenza sono costrette a rincorrere tematiche che non assicurano più un’agevole coabitazione, né la possibilità di un lobbistico controllo del mercato. Nell’agonia di un’idea di gestione e di prodotto c’è più il dolore della fabbrica che quello dell’azienda. C’è l’agonia di un valore impresa identificativo dei valori sociali nazionali. All’improvviso un mito italiano vacilla e diventa simbolo del declino del sistema-Paese.
In positivo c’è una cambiale dal credito illimitato accordata all’azienda e alla sua dirigenza. Si continua a credere nel sole anche quando non brilla. In un Paese che ha sempre percepito i capitalisti come prìncipi del male (anche tra Cristo e Barabba le simpatie popolari andavano a Barabba) la famiglia Agnelli ha rappresentato una gradita e salvifica eccezione. Le riserve attuali riguardano il come questo credito verrà amministrato.

Messi da parte i richiami flautati dei finanzieri d’assalto, l’operazione rilancio parte dalla ricapitalizzazione, dal nuovo board del Lingotto, dal nuovo organigramma, da una nuova identità operativa. Nel nuovo Consiglio di amministrazione ci sono segnali di novità (Umberto Agnelli, Giuseppe Morchio, Luca di Montezemolo) e segnali di continuità (Alessandro Barberis, Franz Grande Stevens). Si ha la sensazione che le preferenze vadano ad un lavoro di squadra più che alla ricerca di acuti di grandi tenori. Tuttavia esistono e resistono logiche ed emozioni stratificate che possono produrre pericolose sacche d’instabilità di fronte al realismo pragmatico sollecitato dalle logiche del mercato globale. Come le lobbies interne animatrici di partiti aziendali. Come i patti di sindacato che premiano una progettualità finanziaria ispirata al culto del capitalismo prussiano (il fondamentalismo capitalista dei neoconservatives che produce nevrosi, potere e carriere all’ombra di circuiti finanziari dominanti). Come gli obblighi sulla trasparenza amministrativa e sull’informazione aziendale relegati nel girone delle virtù morali. Si tratta di capire se la filosofia gestionale sarà dominata dal “capitalismo d’influenza” che predilige i meccanismi dell’ingegneria finanziaria o da politiche industriali adottate per creare valore reale utilizzando procedure di sicura trasparenza.

Il caso Fiat può diventare un esempio di modernità se si utilizza come laboratorio pilota per affermare una nuova cultura manageriale, capace di potenziare una democrazia industriale aperta alla più ampia partecipazione sociale. Nell’elaborazione di ragionamenti su cose, fatti, scenari e previsioni vorremmo vedere attuata la rivincita di Kant su Machiavelli. Muove nella direzione di un rinnovato illuminismo la proposta di fare della Fiat una public company europea (azionariato diffuso), ripensando il sistema della sua ricapitalizzazione. Nascerebbe così il primo marchio automobilistico europeo.
Dalla Fiat si attendono segnali per elevare il livello di coesione sociale nel momento in cui risparmiatori e consumatori si configurano come due poli di un arco voltaico. A remare contro c’è la difficile congiuntura borsistica. Ma in positivo ci sarebbe un atto di fiducia verso il mercato unito al coraggio di proporre un caso di scuola per l’evoluzione futura del capitalismo europeo. A un tempo una sfida economica per scongelare investimenti e consumi e un’opportunità politica per accelerare quei processi integrativi che l’architettura costituzionale della Convenzione europea può proporre solo in modo virtuale. Sarebbe una salutare lezione di europeismo in un momento delicato dell’Ue multilaterale per il risorgere di uno spirito nazionalista che spazia dalla rinazionalizzazione delle politiche economiche e finanziarie agli accordi di reciprocità, disseppellendo dopo vent’anni i vecchi arnesi del protezionismo.
Di fronte ad un gruppo sempre più nutrito di sentimenti svenduti, una rete di concreti interessi transnazionali irrobustirebbe il processo integrativo dando nuova linfa all’idea di un’Europa federata. Nel lungo periodo la nuova Fiat dovrà privilegiare una strategia di movimento rispetto ad una strategia di posizione e un capitale movimentista sarebbe un utile contraltare al movimentismo politico.
Ciò potrebbe produrre qualche iniziale defaillance organizzativa ma sarebbe grave se i protagonisti del rinnovamento dovessero restare incatenati ai ceppi di accordi ispirati da interessi extraziendali. La public company consentirebbe di allentare il rigore dei vincoli fissati dalle banche creditrici avendo come referenti diretti il mercato e patti di sindacato più flessibili. Gli istituti di credito sono solo preoccupati del loro denaro, lo rivogliono indietro nei tempi e nei modi previsti dagli accordi sottoscritti. Non hanno un loro piano di risanamento anche perché non hanno la cultura per una diretta partecipazione al rischio industriale (le nostre banche non sono attrezzate per lavorare come banca universale, sul modello largamente impiegato in Germania).
Da noi fa anche molta fatica ad affermarsi la saggezza del pragmatismo americano. Nel caso Fiat il dialogo costante col socio GM può essere sfruttato per accelerare l’operazione di ricambio culturale. Quest’approccio operativo a noi sembra importante (forse più del capitale conferito da General Motors) dopo la triste sorte toccata ad altre aziende del nostro tessuto industriale.
Ci riferiamo in particolare ad alcune cessioni effettuate nel contesto delle dismissioni delle Partecipazioni Statali. Hanno portato capitali stranieri in Italia, ma hanno bloccato o compromesso lo sviluppo e l’affermazione dei nostri prodotti sui mercati internazionali determinando fenomeni palesi di deindustrializzazione. Si pensi ai danni che in termini di marketing, di politica commerciale e di strategia aziendale ha prodotto lo smembramento di aziende come Montedison, Enichem, Nuovo Pignone, Breda, Snia, Farmitalia, ecc. Alla Fiat tutto questo non è accaduto e non deve accadere. Al contrario, in conformità al suo apprezzato modello cosmopolita dovrà ancorare il futuro economico alla promozione dell’integrazione sociale e all’incivilimento delle realtà urbane periferiche. Nell’era dei mercati globalizzati ad una grande impresa si chiede una triplice responsabilità: la tradizionale produzione di valore, il rispetto e la difesa dell’ecosistema, la promozione di modelli di cultura planetaria rispettosi delle tradizioni e dei valori locali.

L’aristocrazia dell’industria meccanica è ancora una certezza europea, ma deve liberarsi dal linguaggio ellittico del potere finanziario per scaldare e coltivare l’interesse dei consumatori e dei risparmiatori. Se il governo italiano volesse sponsorizzare il progetto della public company europea avrebbe molte frecce al suo arco: ha una forte tradizione europeista che gli consente un accesso credibile nelle varie Cancellerie e ha buoni rapporti con la Presidenza americana per spiegare l’opportunità di questa soluzione lungo il percorso integrativo.
Alla base ci dovrebbe essere una convinta ambizione italiana ed europea alla modernizzazione che passa attraverso una visione meno elitaria del capitalismo di bandiera e delle sue logiche d’influenza. Meno cesarismo fordista e più democrazia industriale. I delusi dal mercato darebbero sicuro credito a questa opportunità, che consentirebbe di rinnovare dalle fondamenta le ragioni di prestigio di un marchio che ha reso famosi un prodotto e una famiglia.

C’è un nesso sempre più stretto tra psicologia ed economia. Non a caso il Nobel per l’economia 2002 è andato allo psicologo Daniel Kalneman per le sue teorie sulle illusioni cognitive, che hanno aperto la strada agli studi sulla finanza comportamentale. Si vanno sviluppando ricerche economiche sempre più sofisticate sugli effetti prodotti dal reddito sulla felicità individuale. Negli Stati Uniti si è costituito un gruppo di lavoro per studiare se sia “oggettivamente” definibile la felicità. Con lo scopo dichiarato di valutare la ricchezza nazionale sulla base di un nuovo indice del benessere, sostitutivo del PIL (a questi studi è impegnato l’economista Alan Kruger).
Viene dunque rivalutato il momento psicologico delle scelte economiche, fattore che a nostro avviso darebbe proficue sollecitazioni al coinvolgimento in Fiat di un azionariato diffuso, con potere di rappresentanza nella gestione e nel controllo.
Oltre al momento della ricapitalizzazione c’è anche la necessità di adottare in tempi brevi nuove politiche aziendali. Nell’era degli Internet Cafè l’innovazione del prodotto dev’essere accompagnata da una rigenerazione dell’immagine e da una profonda revisione della politica commerciale.
Secondo un rapporto recente della Commissione Ue comprare una Fiat 600 a Londra costa il 59,5% in più rispetto a Madrid (la questione ovviamente non riguarda solo la Fiat, essendosi rilevata per ogni modello in circolazione una differenza tra il 20% e il 18% tra i Paesi più cari e quelli meno cari). Al di là delle decisioni che adotteranno gli eurocrati di Bruxelles sulla convergenza dei prezzi, appare evidente l’interesse dei consumatori ad usufruire di politiche aziendali tendenti ad uniformare i prezzi almeno nell’area euro (vale la pena ricordare che la Fiat attualmente detiene il 30% del mercato interno e l’8,9% del mercato europeo). Comunque, per restituire prestigio al marchio occorre uscire dalla logica dominante dei prodotti pastorizzati che tendono alla omogeneizzazione dei gusti e dei consumi.
Occorre inoltre rinnovare profondamente le politiche di marchio e di comunicazione in ragione di un prodotto con forte proiezione multinazionale. Adesso ci sono Mercedes, Audi e Bmw in giro per Mosca, dopo la conversione al credo capitalista. Una vera delusione per chi ricorda i fasti di Togliattigrad. Ma c’è soprattutto l’impegno nella ricerca di tecnologie alternative all’uso della benzina e del gasolio. In California per gli Zev (“Zero emission vehicle”) e gli Ev (“Electric vehicle”) esistono già crediti fiscali fino a 4 mila dollari per veicolo e contributi statali per altri 5 mila. E recentemente il Presidente Bush ha stanziato 1,2 miliardi di dollari per accelerare le ricerche sull’auto ad idrogeno.
Cosa fa l’Europa in questo settore? E cosa fa l’Italia? Anche in questa direzione la voce di una società automobilistica europea sarebbe più ascoltata nelle sedi politiche e istituzionali, abituate da sempre ad avere più sensibilità per le richieste avanzate dal capitalismo di prima schiera.
Se si accetta l’idea moderna di una primaria responsabilità sociale dell’impresa è facile immaginare la necessità di cercare più stretti rapporti di connessione tra società e impresa. In questo senso la nuova dirigenza Fiat renderebbe un buon servizio alla società civile se le consentisse di registrare nel cuore forme nuove e attive di partecipazione.

   
   
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