Giugno 2003

DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA BICAMERALE

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La lunga marcia
delle riforme istituzionali
M.B. - D.M.B.
 
 

I lavori in seno
all’Assemblea
si protraggono
per circa un anno
e mezzo:
il risultato è una
delle Costituzioni
più avanzate
del tempo, rigida,
garantista.

 

Nella vita di una comunità nazionale hanno un rilievo del tutto peculiare i processi e i momenti attraverso i quali si modellano gli assetti e gli ordinamenti complessivi, si stabiliscono gli ambiti e le modalità di esercizio dei diversi poteri, si organizzano ruoli e cariche, e dentro tutto questo, si fissano le regole del gioco elettorale. Ovviamente, c’è una gerarchia nella stessa tensione legislativa e ordinativa, esistono vari livelli di intensità e rilevanza, per cui le fasi di fondazione e rifondazione costituzionale impegnano più stagioni, anche incisive, di attività riformatrice e riordinatrice, e, a maggior ragione, di singole, pur importanti iniziative su temi circoscritti. E, naturalmente, le spinte in direzione della costruzione istituzionale si intrecciano a fattori sociali e politici, a conflitti di potere e strategie di lotta, influenzandoli e restandone a propria volta determinate. Il nostro Paese, come la sua storia costituzionale sin dall’unificazione insegna, non fa eccezione.
Com’è noto, alla costruzione dello Stato unitario si giunge per iniziativa della monarchia sabauda e sulla base delle leggi e degli ordinamenti sardo-piemontesi, la cui validità viene estesa agli ex Stati preunitari che via via entrano a far parte del Regno d’Italia. Lo Statuto Albertino del 1848 diventa la legge fondamentale anche della nuova entità e ne fissa la fisionomia nelle forme della monarchia costituzionale dentro cui, non senza contrasto, si farà strada il parlamentarismo. E’ emblematica la normativa relativa agli enti locali territoriali (comuni e province) organizzati sulla base della legge Rattazzi del 1859 e riformulata nel 1865, nel contesto del più generale sforzo amministrativo e legislativo compiuto dalla Destra storica.

Questo primo Stato italiano, “monoclasse” e indotto a scelte sempre più accentratrici, imperniate più tardi sulla figura del prefetto e del ministero degli Interni, difende la propria natura censitaria con una legge elettorale (anch’essa anteriore all’Unità) che prevede collegi uninominali, il ballottaggio e un corpo elettorale eccezionalmente esiguo. Tale configurazione costituzionale si modifica lentamente, ricevendo comunque un discreto impulso con l’avvento della Sinistra di Depretis al potere. Anche in questo caso un “grappolo” di riforme molto significative sul piano civile e sociale, amministrativo e istituzionale-elettorale segnala il cambio di passo, la marcia di avvicinamento verso uno Stato “pluriclasse”, verso la dialettica più ravvicinata tra Corona e Parlamento, tra sovrano e primo ministro, ma anche verso l’affermazione della centralità della “questione meridionale” come questione sociale e politica e non più in meri termini di ordine pubblico.
Accanto alla revisione della legge comunale e provinciale, con l’elettività del sindaco, all’equiparazione dell’elettorato amministrativo a quello politico, ai tentativi per riordinare e rendere funzionale la presidenza del Consiglio, spicca la legge di riforma elettorale del 1882. Significò l’ampliamento del suffragio ai cittadini maschi, maggiorenni e alfabeti, o con un carico di imposta non inferiore a 20 lire (rispetto alle 40 precedenti), e soprattutto l’introduzione dello scrutinio di lista, con la risagomazione della circoscrizione territoriale in 135 collegi, più ampi rispetto a prima. Tutto questo tendeva a temperare il carattere urbano “progressista” del voto, bilanciandolo con altro, e altrettanto numeroso, più controllabile e conservatore, specie nelle regioni meridionali. Gli elettori superavano così i due milioni (meno del 7 per cento della popolazione residente) e i votanti non erano assai più di un milione e 200 mila.
Non c’è spazio per diffondersi sull’evoluzione del quadro istituzionale fin qui delineato, in particolare in età crispina e giolittiana. Ma si devono almeno ricordare il potenziamento della giustizia amministrativa a sostegno dell’Esecutivo, la richiesta revisione dell’intero assetto burocratico-amministrativo nel senso del decentramento, più tardi smentita dal ritorno all’uniformità e all’accentramento, la legge del 1904 sul riordinamento dei ministeri e quella del 1910 sulle Camere di commercio.
Sul terreno istituzionale-elettorale, l’allargamento ulteriore del suffragio, fino all’universale maschile del 1913, deve ancora servire a compensare il crescente voto radicale e socialista settentrionale, immettendo nella competizione le masse analfabete meridionali. Allo stesso modo si penserà di utilizzare il voto moderato cattolico (Patto Gentiloni), mentre l’alto numero delle circoscrizioni (508) e il sistema uninominale garantirebbero la personalizzazione del voto e la manipolazione elettorale.
Alla vigilia del Fascismo, e subito dopo il suo avvento, i meccanismi elettorali subiscono in pieno l’urto del momento. La riforma del 1919 (scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale a suffragio universale maschile) porta il numero degli elettori sui 10 milioni (circa un terzo della popolazione), ma paradossalmente finisce per non ostacolare la fuoriuscita dal regime liberale e rappresentativo. Il resto lo compie la legge Acerbo, combinando scrutinio di lista e sistema maggioritario, e ritoccando ancora i collegi, restringendone il numero e ritagliandoli su basi “storiche”. E’ ormai evidente che ogni iniziativa è tesa solo a garantire la definitiva supremazia della dittatura, che comunque si preoccupa tempestivamente di liquidare, non a caso, l’evoluzione in corso degli ordinamenti degli enti locali, elimina le maggiori cariche elettive, indirizza la materia sui binari delle competenze tecniche degli “addetti ai lavori”, sul controllo formale da parte dei podestà e sul ruolo preminente dei segretari comunali, nel frattempo “statizzati”.
Il passaggio successivo, e fondamentale, si compie alla ripresa della vita democratica, con la presenza dei partiti di massa, l’esperienza maturata in seno ai CLN e la stessa mobilitazione popolare antifascista. Tra l’aprile 1945 e il giugno 1946, la fondazione istituzionale dell’Italia risorta si avvia celermente. Prima con la formazione della Consulta e del ministero per la Costituente, poi con le prime tornate elettorali amministrative, infine con il referendum istituzionale e con le elezioni per l’Assemblea Costituente: queste ultime, regolate sulla base del decreto legge luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, con procedure che includono il suffragio universale esteso alle donne, la rappresentanza proporzionale, il metodo di scrutinio per il riparto dei seggi (573, rispetto ai 32 collegi). I lavori in seno all’Assemblea Costituente si protraggono per circa un anno e mezzo; lavorano alla redazione di una nuova carta costituzionale un gruppo ampio di 75 deputati, suddivisi in tre sottocommissioni, e più tardi un comitato tecnico di 18 membri. Il risultato è una delle Costituzioni più avanzate del tempo, rigida, garantista. La sua architettura ha seguito uno schema di democrazia progressiva, per cui si è guardato prima all’uomo (diritti e doveri del cittadino) nella sua individualità e nel quadro sociale; quindi nei rapporti con la comunità (famiglia e scuola); poi, rispetto alla sfera economica e a quella politica.
Nei decenni successivi, mentre per un verso la stessa Costituzione è stata in certa misura come “ibernata”, dando vita a una perversa dialettica tra Costituzione “formale” e Costituzione “materiale”, si sono avuti ancora un paio di momenti di notevole lavorìo a sfondo istituzionale, fino alla prima metà degli anni Settanta (Regioni, Statuto dei lavoratori, finanziamento pubblico dei partiti). Tra il 1951 e il 1953 ci fu un deciso tentativo, senza esito, di modificare il regime fondato sulla proporzionale in senso maggioritario e con l’attribuzione di un premio di maggioranza (la cosiddetta legge truffa). Per il resto, soltanto interventi marginali, fino al referendum del 1991 sulla monopreferenza. Tra il 1983 e il 1985 ha operato l’apposita Commissione presieduta dal liberale Bozzi, diretta antesignana delle Bicamerali poi guidate da De Mita e successivamente da D’Alema, per una generale riforma delle istituzioni. Ingente produzione cartacea, ma nessun esito pratico. Dopo, è proprio storia odierna.

   
   
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