Giugno 2003

CENTO UOMINI DI FERRO

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La classe dirigente
che mancò
Rubens Carriero
 
 

Quell’occasione
storica
andò perduta,
e gli ottimistici
entusiasmi di Dorso e di Rossi Doria
furono destinati
ben presto
a naufragare.

 

Un club di cervelli, il Partito d’Azione, un gruppo di intellettuali generosi e ricchi di idee, capaci di intuizioni profonde sullo sviluppo della società italiana in regime democratico; oppure un esercito con troppi generali e con pochi o nessun soldato; o ancora – come maliziosamente scrisse Guglielmo Giannini – un insieme di persone che «non sanno quel che vogliono, ma lo vogliono subito»; o infine un’élite incapace di procedere seguendo percorsi comuni, divisa com’era all’interno dal gran numero di galli a cantare?
Tutto e il contrario di tutto è stato detto e scritto sull’argomento, sul Partito e sui suoi uomini, che si chiamavano Bobbio, Foa, Parri, La Malfa, Galante Garrone, Salvemini, Dorso, Rossi Doria, De Martino: come dire, il meglio dell’intellettualità italiana del dopoguerra. Alcuni anni fa, Ernesto Galli Della Loggia, in un polemico saggio apparso su “Il Mulino”, provò a demolire l’azionismo, in modo particolare quello torinese, per respingerlo nella sfera dell’inattualità e relegarlo in un contesto tombale. Ma pur nelle differenti valutazioni che si possono fornire su una parabola politica durata poco più di tre anni – dalla fondazione, a fine 1942, allo scioglimento del 1946 – una cosa è indiscutibile: i moventi, le inquietudini, le contraddizioni, le analisi degli azionisti, e quello che potremmo definire lo “stile azionista”, si pongono oggi come l’anima mai pienamente esplicitata della politica italiana, come l’esperienza mai pienamente compiuta, come l’occasione di laicismo perduto del dopoguerra e degli anni a venire.

Si ritiene che la vita politica italiana abbia perso molto, con il fallimento di quell’esperienza. «Eccome, se avevamo un programma, e adesso servirebbe ancora!», fu il parere di Leo Valiani, anni dopo. E un altro illustre esponente, Alessandro Galante Garrone, segnalò come sentimento utile da recuperare «il senso di vergogna per l’Italia calpestata dalla retorica dittatoriale, che fu levatrice della formazione nata da Giustizia e Libertà».
Ma c’è, all’interno della vicenda azionista, un capitolo specifico utile da rileggere oggi come corollario di un discorso sul Sud. E’ il capitolo su come la vicenda azionista si sia misurata con i problemi del Mezzogiorno. E’ il capitolo sul salveminismo come sua componente meridionale, e su Guido Dorso e Manlio Rossi Doria, fra i protagonisti – in Puglia, a Bari, dal 3 al 5 dicembre 1944 – di un incontro nel corso del quale si discusse a lungo e in profondità sulla necessità della nascita nel Paese di una nuova e pacificamente aggressiva classe dirigente. Nelle rispettive relazioni, Rossi Doria e Dorso elaborarono due aspetti complementari come le due facce di una medaglia di un’unica visione del Sud agricolo e dei suoi rapporti sociali ed economici con il resto d’Italia che avrebbe potuto favorire, se praticata, la formazione di una moderna classe dirigente meridionale. Il dibattito storiografico ha molto riflettuto su quelle elaborazioni, e non è mancato chi ha elaborato critiche su un’impostazione da “mitologia agrarista”, da “vecchio meridionalismo”, che sarebbero state contenute in quell’impostazione. A nostro avviso, invece, le due visioni di Rossi Doria e di Dorso, articolate su lucidissime analisi dei rivolgimenti postbellici, coglievano il senso di una grande occasione storica che si giocava in quegli anni. Per Rossi Doria, l’occasione era quella di smantellare il vecchio blocco sociale che fondava il suo potere sull’assetto della proprietà terriera, e di avviare in tempi rapidi una riforma agraria preceduta da un riassetto fondiario che smembrasse il latifondo contadino. Non era una rivoluzione radicale e violenta quel che Rossi Doria vedeva all’orizzonte, e tantomeno una politica “ruralistica”: alla vigilia della grande stagione di lotte per l’occupazione delle terre, quando la terra avrebbe “tremato” per le rivolte dei contadini che ne reclamavano il possesso, anche mettendosi contro una parte consistente della Sinistra, il grande meridionalista già disegnava a Bari le linee di una moderna razionalizzazione dell’agricoltura che avrebbe potuto far nascere una nuova classe di contadini-imprenditori.

L’occasione storica indicata da Guido Dorso era quella di forgiare i «100 uomini di ferro» nel Sud agricolo in una lotta contro l’accentramento statale, e di favorire proprio nel Mezzogiorno un nuovo ceto capace di neutralizzare il trasformismo di stampo giolittiano. Il sogno era quello di veder formare proprio al Sud una nuova “borghesia umanistica” che fosse in grado di rompere ogni compromesso con gli agrari e con la borghesia terriera.
Quell’occasione storica, come si sa, andò perduta, e gli ottimistici entusiasmi di Dorso e di Rossi Doria furono destinati ben presto a naufragare. Resta però centrale, delle loro analisi, l’indicazione di quel compito prioritario di una nuova classe dirigente, della quale non soltanto il Sud non più agricolo, ma l’intero Paese continua più che mai ad avere bisogno. E ancora, resta viva l’indicazione di lotta contro blocchi sociali che continuamente si ricompongono nel segno del solito antico trasformismo anti-meridionale, che sembra essere costume politico tradizionalmente dominante nella vicenda politica italiana.

   
   
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