Giugno 2003

PASSATO PROSSIMO

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La rinascita perduta
Mabel
 
 

I meridionali erano pronti, desiderosi
di rompere
con un passato
innominabile, ma non ricevettero
risposte da un
riformismo timido, sospettoso.

 

L’anno di svolta era stato il 1992, allorché sembrò che nelle regioni meridionali le cose mutassero radicalmente, in profondità. C’era stato un rivolgimento visibile, determinato anche, se non soprattutto, da avvenimenti tragici che avevano offeso le coscienze più sensibili del Sud. Erano stati colpiti a morte, con atroce, sanguinosa determinazione, il giudice Falcone, personaggio emblematico di un Sud intelligente e propositivo, e il giudice Borsellino, suo stretto collaboratore e amico, che ne aveva assunto l’eredità, credendo nel riscatto civile del Mezzogiorno più nero. Uomini e donne avevano finalmente capito che il loro destino non poteva essere legato a pochi, grandissimi e generosi protagonisti che, per impegno intellettuale e per vocazione professionale, sacrificavano se stessi e la propria vita per tutti.
La società civile meridionale, che sembrava essersi eclissata da molti anni, si fece fortemente risentire. Allora mutò il rapporto con la politica, e, com’è stato scritto, «i piagnoni e i nonsipuotisti» vennero immediatamente messi in minoranza. I giovani presero consapevolezza che a loro apparteneva il futuro e che soltanto con la partecipazione attiva, visibile, creativa, con uno slancio nello stesso tempo pulito e determinato, potevano assicurarsi un orizzonte civile e sociale diverso dal passato.
Fu così che, tra il 1993 e il 1998, si ottennero importanti successi, a partire dall’elezione diretta dei sindaci, a Palermo come a Reggio Calabria, a Napoli e a Bari come in infiniti altri centri maggiori e minori del Mezzogiorno e della Penisola. Si venne a creare in questo modo una nuova classe dirigente. Si inaugurò un diverso modo di concepire e di fare la politica privo dei condizionamenti del vecchio intervento pubblico e delle sudditanze clientelari.

Le antiche tattiche gesuitiche del silenzio sulla società del malessere, bloccata dall’arretratezza, dall’inoccupazione, dal sommerso, dall’assistenzialismo, dall’oppressione dei cartelli criminali estorsori, sembrò una volta per tutte venir meno. Niente più panni sporchi lavati in famiglia, niente alibi spacciati nel nome del “tutto deve (anche se in apparenza soltanto) andar bene”, niente prudenza (nel senso di omertà) dettata dalle convenienze partitiche, niente complici silenzi tombali che coinvolgevano senza distinzioni, e senza soluzione di continuità, le forze politiche, e che impedivano ogni oggettiva ricerca della verità, rendendo ardua, impossibile ogni ricerca di un avvenire “altro” nelle regioni meridionali.

Fu sicuramente un periodo caratterizzato da grande intraprendenza, grazie anche all’attivismo di forze giovani, fresche, non coinvolte nella torbida storia del passato, compreso quello recente, tese a mutare l’immagine e i comportamenti (e gli annessi stereotipi) del vecchio Sud. Un Sud che seppe dare il meglio di sé proprio nel periodo in cui le difficoltà economiche per rimettere in moto redditi e occupazione, per fermare le emorragie migratorie, per impiantare nuove imprese, erano maggiori.
In Abruzzo-Molise, in Puglia-Basilicata, in Campania-Calabria, sistemi regionali in realtà mai fino allora integrati, e nelle stesse Isole, fiorì tutto un fermento di iniziative di un’intensità sconosciuta. E al salto di qualità della società civile di quel Sud sembrarono corrispondere diversi atteggiamenti speculari: un ripiegamento dello zoccolo duro criminale che aveva oppresso le forze economiche e produttive delle regioni meridionali, in primo luogo. Con tutta probabilità, quest’ultimo fenomeno fu dovuto non soltanto alla rivolta morale della gente, anche sulla spinta profondamente emotiva determinata dall’assassinio dei due magistrati e degli uomini delle loro scorte; e non soltanto alla maggior pressione degli apparati di sicurezza, che una volta tanto sembrarono muoversi in sintonia, coordinando l’azione investigativa, preventiva e repressiva; ma anche alla presa di distanza (felpata e comunque caliginosa, questa, nell’ambigua zona grigia in cui si erano sempre mosse mafia e politica dal dopoguerra in poi) fra i due universi, dell’amministrazione della cosa pubblica e dei cartelli del crimine organizzato, e in ultima analisi tra il cosiddetto “terzo livello” e le cupole che avevano storicamente gestito i mille rivoli carsici degli affari e delle clientele.

Dopo il ‘98, la svolta restauratrice. Cioè il ritorno ai riti oscuri e alle ferree regole fossilizzanti del tempo che sembrava andato. Come mai la stagione della coscienza politica e civile durò così poco? Perché e come le forze politiche italiane abbandonarono a se stesso questo Sud emergente, sognato da un secolo e mezzo dai grandi meridionalisti, e lo ricacciarono nella latitudine desolata del ritardo e dello sviluppo condizionato?
Quella stagione fu sconfitta, drammaticamente, proprio nel momento in cui gli indici economici, dal Prodotto interno lordo al tasso di occupazione, dalla nascita di nuove imprese alle esportazioni, registravano una ripresa che non nasceva come quando piove, cioè confusamente e irrazionalmente, ma dal lavoro paziente e creativo degli amministratori del nuovo corso, dalle figure non usurate e non compromesse di politici e di imprenditori venuti coraggiosamente alla ribalta, in virtù di uno spirito di affrancamento da antiche sudditanze locali e nazionali. Fu bruciata nel momento più delicato, quando stava per mettere in gioco, con sicure probabilità di successo, il ventaglio delle altre potenzialità scaturite da un quinquennio di esperienze propositive condotte sulla carne viva del Mezzogiorno.
Crollò un’occasione storica. Non per l’ingenerosità dei meridionali, e tantomeno per un qualche difetto di comunicazione. Si accartocciò per un fattore cruciale di miopia politica. Così vogliamo credere, perché sarebbe assai più tragico ipotizzare una caduta verticale per la scelta consapevole di un Mezzogiorno da comprimere nel limbo del non-sviluppo per interessi che potevano o dovevano ancora una volta favorire, nel dualismo socio-economico che ha intriso la storia della Penisola, il territorio forte, le regioni già avanzate, le terre da sempre privilegiate.
Implose, dunque, perché sembrò che la questione meridionale non facesse più parte del patrimonio genetico delle forze politiche progressiste, le quali pure da tantissimi decenni, nel passato, si erano battute per portarla a soluzione. Si avvitò perché il malessere politico del Nord venne stoltamente anteposto al malessere sociale del Sud.
Il problema sociale, cardine essenziale e decisivo del Mezzogiorno, venne più che mai sottovalutato: non si volle credere a quella riforma dello Stato sociale che era indispensabile per dare una risposta ai numerosi esclusi dal mercato, ai disoccupati, ai precari, agli illegali, per inserirli nel nuovo Mezzogiorno.
Riformare lo Stato sociale significava ripristinare una concezione moderna dello Stato di diritto. Questo non si verificò. E perciò le regioni meridionali vennero ancora una volta abbandonate alla loro antica “deriva mediterranea”. Una storia spezzata ha finito per dare spazio e luogo a un neo-dualismo che, se le cose fossero andate diversamente, non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere.
La brusca rottura registrata in questo Sud va individuata nella sfasatura tra acute necessità sociali e tempi lunghi, vale a dire nella discrasia che si determinò lungo la linea di displuvio tra messa in campo di nuove energie, che andavano largamente sostenute, e decrepite concezioni della politica degli steps by steps, dei passi successivi calcolati sul versante di un’azione frenata dai bisogni e aliena ai ritmi reclamati dalla parte penalizzata della società dualistica. I meridionali erano pronti, desiderosi di rompere con un passato innominabile, ma non ricevettero risposte adeguate e soddisfacenti da un riformismo timido, sospettoso, che finiva col confondersi con un moderatismo sociale di stampo antico, già vissuto in tutti i suoi risvolti, nel suo malessere indotto e nelle sue ferite mai risanate, e preoccupato soltanto di essere in linea con le logiche invalicabili del mercato.
A tutto questo, ci sono da aggiungere la diffidenza nei confronti della società civile, il rifiuto di ogni fervore al di fuori della politica tradizionale, l’opposizione inespressa, eppure negativamente operante, nei confronti dei sindaci che nei primi anni Novanta furono determinanti nella tutela delle regole democratiche e nella costruzione di un nuovo assetto sociale.
E soprattutto va messa a carico la riappropriazione che i partiti politici fecero della società: i cittadini avevano messo in moto quasi una rivoluzione, rifiutando, dei partiti, i bizantinismi, le vischiosità, i vaniloqui, i miasmi da carsici pantani.
Bilancio? Molti meridionali dapprima si sono ritirati in un’antipolitica che, stando così le cose che li riguardavano, non era qualunquismo, ma momento di riflessione sulla propria condizione, sull’insopportabilità della propria condizione nel terzo millennio incipiente, poi hanno deciso scelte diverse, territori etici e politici da esplorare alla luce di altre esperienze, da verificare sia nei contenuti sia nei tempi. E questo è stato, comunque, un ritorno alla politica, alla vita civile ed economica della polis. Non è cosa da gettare al vento un’altra volta.

   
   
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