I meridionali erano pronti, desiderosi
di rompere
con un passato
innominabile, ma non ricevettero
risposte da un
riformismo timido, sospettoso.
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Lanno di svolta era stato il 1992, allorché sembrò
che nelle regioni meridionali le cose mutassero radicalmente, in
profondità. Cera stato un rivolgimento visibile, determinato
anche, se non soprattutto, da avvenimenti tragici che avevano offeso
le coscienze più sensibili del Sud. Erano stati colpiti a
morte, con atroce, sanguinosa determinazione, il giudice Falcone,
personaggio emblematico di un Sud intelligente e propositivo, e
il giudice Borsellino, suo stretto collaboratore e amico, che ne
aveva assunto leredità, credendo nel riscatto civile
del Mezzogiorno più nero. Uomini e donne avevano finalmente
capito che il loro destino non poteva essere legato a pochi, grandissimi
e generosi protagonisti che, per impegno intellettuale e per vocazione
professionale, sacrificavano se stessi e la propria vita per tutti.
La società civile meridionale, che sembrava essersi eclissata
da molti anni, si fece fortemente risentire. Allora mutò
il rapporto con la politica, e, comè stato scritto,
«i piagnoni e i nonsipuotisti» vennero immediatamente
messi in minoranza. I giovani presero consapevolezza che a loro
apparteneva il futuro e che soltanto con la partecipazione attiva,
visibile, creativa, con uno slancio nello stesso tempo pulito e
determinato, potevano assicurarsi un orizzonte civile e sociale
diverso dal passato.
Fu così che, tra il 1993 e il 1998, si ottennero importanti
successi, a partire dallelezione diretta dei sindaci, a Palermo
come a Reggio Calabria, a Napoli e a Bari come in infiniti altri
centri maggiori e minori del Mezzogiorno e della Penisola. Si venne
a creare in questo modo una nuova classe dirigente. Si inaugurò
un diverso modo di concepire e di fare la politica privo dei condizionamenti
del vecchio intervento pubblico e delle sudditanze clientelari.
Le antiche tattiche gesuitiche del silenzio sulla società
del malessere, bloccata dallarretratezza, dallinoccupazione,
dal sommerso, dallassistenzialismo, dalloppressione
dei cartelli criminali estorsori, sembrò una volta per tutte
venir meno. Niente più panni sporchi lavati in famiglia,
niente alibi spacciati nel nome del tutto deve (anche se in
apparenza soltanto) andar bene, niente prudenza (nel senso
di omertà) dettata dalle convenienze partitiche, niente complici
silenzi tombali che coinvolgevano senza distinzioni, e senza soluzione
di continuità, le forze politiche, e che impedivano ogni
oggettiva ricerca della verità, rendendo ardua, impossibile
ogni ricerca di un avvenire altro nelle regioni meridionali.

Fu sicuramente un periodo caratterizzato da grande intraprendenza,
grazie anche allattivismo di forze giovani, fresche, non coinvolte
nella torbida storia del passato, compreso quello recente, tese
a mutare limmagine e i comportamenti (e gli annessi stereotipi)
del vecchio Sud. Un Sud che seppe dare il meglio di sé proprio
nel periodo in cui le difficoltà economiche per rimettere
in moto redditi e occupazione, per fermare le emorragie migratorie,
per impiantare nuove imprese, erano maggiori.
In Abruzzo-Molise, in Puglia-Basilicata, in Campania-Calabria, sistemi
regionali in realtà mai fino allora integrati, e nelle stesse
Isole, fiorì tutto un fermento di iniziative di unintensità
sconosciuta. E al salto di qualità della società civile
di quel Sud sembrarono corrispondere diversi atteggiamenti speculari:
un ripiegamento dello zoccolo duro criminale che aveva oppresso
le forze economiche e produttive delle regioni meridionali, in primo
luogo. Con tutta probabilità, questultimo fenomeno
fu dovuto non soltanto alla rivolta morale della gente, anche sulla
spinta profondamente emotiva determinata dallassassinio dei
due magistrati e degli uomini delle loro scorte; e non soltanto
alla maggior pressione degli apparati di sicurezza, che una volta
tanto sembrarono muoversi in sintonia, coordinando lazione
investigativa, preventiva e repressiva; ma anche alla presa di distanza
(felpata e comunque caliginosa, questa, nellambigua zona grigia
in cui si erano sempre mosse mafia e politica dal dopoguerra in
poi) fra i due universi, dellamministrazione della cosa pubblica
e dei cartelli del crimine organizzato, e in ultima analisi tra
il cosiddetto terzo livello e le cupole che avevano
storicamente gestito i mille rivoli carsici degli affari e delle
clientele.
Dopo il 98, la svolta restauratrice. Cioè il ritorno
ai riti oscuri e alle ferree regole fossilizzanti del tempo che
sembrava andato. Come mai la stagione della coscienza politica e
civile durò così poco? Perché e come le forze
politiche italiane abbandonarono a se stesso questo Sud emergente,
sognato da un secolo e mezzo dai grandi meridionalisti, e lo ricacciarono
nella latitudine desolata del ritardo e dello sviluppo condizionato?
Quella stagione fu sconfitta, drammaticamente, proprio nel momento
in cui gli indici economici, dal Prodotto interno lordo al tasso
di occupazione, dalla nascita di nuove imprese alle esportazioni,
registravano una ripresa che non nasceva come quando piove, cioè
confusamente e irrazionalmente, ma dal lavoro paziente e creativo
degli amministratori del nuovo corso, dalle figure non usurate e
non compromesse di politici e di imprenditori venuti coraggiosamente
alla ribalta, in virtù di uno spirito di affrancamento da
antiche sudditanze locali e nazionali. Fu bruciata nel momento più
delicato, quando stava per mettere in gioco, con sicure probabilità
di successo, il ventaglio delle altre potenzialità scaturite
da un quinquennio di esperienze propositive condotte sulla carne
viva del Mezzogiorno.
Crollò unoccasione storica. Non per lingenerosità
dei meridionali, e tantomeno per un qualche difetto di comunicazione.
Si accartocciò per un fattore cruciale di miopia politica.
Così vogliamo credere, perché sarebbe assai più
tragico ipotizzare una caduta verticale per la scelta consapevole
di un Mezzogiorno da comprimere nel limbo del non-sviluppo per interessi
che potevano o dovevano ancora una volta favorire, nel dualismo
socio-economico che ha intriso la storia della Penisola, il territorio
forte, le regioni già avanzate, le terre da sempre privilegiate.
Implose, dunque, perché sembrò che la questione meridionale
non facesse più parte del patrimonio genetico delle forze
politiche progressiste, le quali pure da tantissimi decenni, nel
passato, si erano battute per portarla a soluzione. Si avvitò
perché il malessere politico del Nord venne stoltamente anteposto
al malessere sociale del Sud.
Il problema sociale, cardine essenziale e decisivo del Mezzogiorno,
venne più che mai sottovalutato: non si volle credere a quella
riforma dello Stato sociale che era indispensabile per dare una
risposta ai numerosi esclusi dal mercato, ai disoccupati, ai precari,
agli illegali, per inserirli nel nuovo Mezzogiorno.
Riformare lo Stato sociale significava ripristinare una concezione
moderna dello Stato di diritto. Questo non si verificò. E
perciò le regioni meridionali vennero ancora una volta abbandonate
alla loro antica deriva mediterranea. Una storia spezzata
ha finito per dare spazio e luogo a un neo-dualismo che, se le cose
fossero andate diversamente, non avrebbe avuto alcuna ragion dessere.
La brusca rottura registrata in questo Sud va individuata nella
sfasatura tra acute necessità sociali e tempi lunghi, vale
a dire nella discrasia che si determinò lungo la linea di
displuvio tra messa in campo di nuove energie, che andavano largamente
sostenute, e decrepite concezioni della politica degli steps by
steps, dei passi successivi calcolati sul versante di unazione
frenata dai bisogni e aliena ai ritmi reclamati dalla parte penalizzata
della società dualistica. I meridionali erano pronti, desiderosi
di rompere con un passato innominabile, ma non ricevettero risposte
adeguate e soddisfacenti da un riformismo timido, sospettoso, che
finiva col confondersi con un moderatismo sociale di stampo antico,
già vissuto in tutti i suoi risvolti, nel suo malessere indotto
e nelle sue ferite mai risanate, e preoccupato soltanto di essere
in linea con le logiche invalicabili del mercato.
A tutto questo, ci sono da aggiungere la diffidenza nei confronti
della società civile, il rifiuto di ogni fervore al di fuori
della politica tradizionale, lopposizione inespressa, eppure
negativamente operante, nei confronti dei sindaci che nei primi
anni Novanta furono determinanti nella tutela delle regole democratiche
e nella costruzione di un nuovo assetto sociale.
E soprattutto va messa a carico la riappropriazione che i partiti
politici fecero della società: i cittadini avevano messo
in moto quasi una rivoluzione, rifiutando, dei partiti, i bizantinismi,
le vischiosità, i vaniloqui, i miasmi da carsici pantani.
Bilancio? Molti meridionali dapprima si sono ritirati in unantipolitica
che, stando così le cose che li riguardavano, non era qualunquismo,
ma momento di riflessione sulla propria condizione, sullinsopportabilità
della propria condizione nel terzo millennio incipiente, poi hanno
deciso scelte diverse, territori etici e politici da esplorare alla
luce di altre esperienze, da verificare sia nei contenuti sia nei
tempi. E questo è stato, comunque, un ritorno alla politica,
alla vita civile ed economica della polis. Non è cosa da
gettare al vento unaltra volta.
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