Leconomia
sommersa ha fatto ancora dei passi avanti negli ultimi anni, in
qualche caso addirittura superiori
alla crescita
delleconomia legale.
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Non sono molte le domande giunte al traguardo: lultima operazione
straordinaria contro il sommerso si è conclusa con risultati
in un certo senso deludenti. Al Cles, (Comitati per il lavoro e
lemersione del sommerso), sono pervenute 876 dichiarazioni
di imprese decise a venir fuori dal nero, concentrate soprattutto
tra Campania, Puglia e Lazio. La scadenza era stata fissata al 28
febbraio, e il giorno seguente le autorità governative hanno
tempestivamente escluso ogni possibilità di proroga della
misura, affermando che lattenzione al fenomeno proseguirà,
ma in modo diverso. E la strategia da attuare sarà seguita
dal Cnes, (Comitato nazionale emersione sommerso), che ha lobiettivo
di rendere permanenti gli strumenti sullemersione.
La lotta al sommerso, dunque, rimane nello stesso tempo una priorità
e unemergenza per lo Stato, convinto che lazione abbia
degli effetti che vanno ben oltre le 1.700 aziende venute alla luce
con la prima fase della campagna e con le 876 della seconda fase.
In altre parole, la pressione sulleconomia in nero spingerebbe
alla decisione di regolarizzarsi, anche senza ricorrere agli incentivi.
Lintervento è obbligato. Il sommerso non ha mai smesso
di crescere, nel corso degli ultimi anni. I più recenti dati
disponibili sono quelli che la Svimez ha presentato ufficialmente
nel mese di aprile con lo studio Il sommerso: produzione, lavoro,
imprese. Tra il 1995 e il 2001 il tasso di irregolarità,
vale a dire la quota in nero sulle unità di lavoro totali,
nel Mezzogiorno è passato dal 20,7% al 23%: le unità
stimate sono oltre un milione e mezzo, duecentomila in più
rispetto al 95. Questo dato misura (nei limiti del possibile,
visto che parliamo di sommerso) le unità corrispondenti al
lavoro a tempo pieno. Di conseguenza, il numero di persone coinvolte
è senza dubbio più alto, visto che per molti quella
in nero è unoccupazione secondaria, occasionale, oppure
a tempo parziale.

Al Centro-Nord le unità di lavoro sono molte di più,
superano i due milioni di persone, ma lincidenza sulloccupazione
complessiva non arriva al 12% e si è addirittura ridotta
negli ultimi anni. Merito del maggior numero dei posti di lavoro
regolari, di una tendenza meno spiccata al sommerso e di una struttura
economica radicalmente diversa. Al Nord il sommerso riguarda in
modo particolare immigrati e secondo lavoro, e spesso è una
forma di flessibilità al margine: per linserimento
in azienda o per gestire i picchi produttivi.
Nelle regioni meridionali, invece, il tasso di irregolarità
sfiora il 30% in Calabria, ed è intorno al 25% nelle regioni
più popolose, la Campania e la Sicilia. E nel complesso le
unità di lavoro nascoste sono cresciute del 17% in sei anni.
Ma lo sviluppo del nero è andato in parallelo con unimportante
fase di crescita delleconomia ufficiale nel Sud. Non è
un caso, perché la vivacità favorisce tutti e, secondo
la Svimez, oltre alle aziende totalmente in nero, cè
«un ampio ambito di imprese intermedie che presentano una
frontiera mobile tra regolarità e irregolarità in
funzione della loro capacità di posizionamento nel mercato».
Un fenomeno diffuso fra i terzisti, nella subfornitura, in molti
casi nel limbo che separa la regola dalla violazione.
«Nellintreccio proprio dei distretti delle filiere
sostiene la Svimez vi sono imprese che operano alla periferia
dellorganizzazione produttiva, che sopravvivono perché
si sottraggono alle regole, oppure a buona parte delle regole. Altre
rimangono sommerse allinizio della loro attività, con
la prospettiva di potersi regolarizzare in presenza di un miglioramento
dei loro conti economici e finanziari. Altre ancora sommergono tutta
o parte della loro attività, in occasione del passaggio a
forme di decentramento produttivo e di utilizzo del lavoro a domicilio».
Secondo la Svimez, si può agire soprattutto su queste ultime
due aree per portare lattività alla luce del sole.
Più difficile agire su quello che la Svimez considera «uno
zoccolo duro di economia sommersa, destinato a rimanere tale per
lintreccio di situazioni caratterizzate da imprese di piccole
dimensioni, a bassa redditività, che operano nei settori
tradizionali allinterno di filiere di subfornitura».
Parliamo dei numeri e delle situazioni. Intanto, lo sviluppo. Secondo
i dati elaborati dalla Svimez, leconomia sommersa ha fatto
ancora dei passi avanti negli ultimi anni, in qualche caso addirittura
superiori alla crescita delleconomia legale, ufficiale. Tra
il 1995 e il 2001, il numero di unità di lavoro irregolari
è aumentato del 9,7% in tutta la penisola (contro l11,5%
del Prodotto interno lordo). Lincremento è stato trainato
dal Mezzogiorno, dove i lavoratori a tempo pieno stimati dalla Svimez
nel 2001 erano oltre un milione e mezzo, il 17,2% in più
del 95. Al Centro-Nord le unità di lavoro sono più
di due milioni, ma la differenza tra le due parti del Paese sta
nellincidenza del nero: al Sud il tasso di irregolarità
è del 23%, al Centro-Nord è quasi dimezzato, all11,9%.
Poi, le Regioni. Il territorio più sommerso è
la Calabria, dove il tasso di irregolarità sfiora il 30%:
circa un terzo delle ore di lavoro sono fuori controllo. Alta anche
lincidenza in Campania (25,3%) e in Sicilia (24,2%). Negli
ultimi anni il lavoro nero si è sviluppato di più
proprio nelle regioni che sono riuscite a staccarsi dalleconomia
tradizionalmente definita meridionale, a uscire dallObiettivo
1, cioè Abruzzo e Molise. Ma il maggior numero di lavoratori
irregolari si concentra tra Campania e Sicilia: da sole, queste
due regioni hanno più della metà del totale delle
aree del Mezzogiorno.
Infine, i settori. Lagricoltura è lattività
nella quale il nero è più diffuso. Il dato nazionale
è del 32% e nel Mezzogiorno sale al 40%, con una quota decisamente
superiore alla media in Calabria.
Anche nelledilizia il fenomeno è molto diffuso, secondo
la Svimez, e nelle regioni del Sud il tasso di irregolarità
è del 27,5%. Ancora una volta la Calabria è nettamente
al di sopra di questa cifra, seguita dalla Sicilia (33%). Lindustria
è meno colpita, con un dato nazionale del 5,7%, che al Sud
arriva al 15%. Nei servizi, il tasso di irregolarità nel
Mezzogiorno è del 21,5%, ma in questo caso le distanze con
il Centro-Nord (14,4%) non sono molto ampie.
Cè un ultimo fenomeno da analizzare, sia pure in breve,
per la sua incidenza sul quadro generale del lavoro. Ed è
un fenomeno che riguarda in modo esclusivo alcune regioni del Mezzogiorno.
In sintesi: la mancata crescita del valore aggiunto delle imprese
meridionali, causata dalla presenza pervasiva dei diversi cartelli
del crimine, è valutabile in 7 miliardi e mezzo di euro allanno.
Circa 15 mila miliardi delle vecchie lire! E la stima, elaborata
dal Censis, che fa riferimento soltanto alle imprese sotto i 250
addetti, cioè circa la metà delle attività
economiche meridionali. Il fatturato che, a causa del crimine organizzato,
non viene sviluppato rappresenta circa il 2,5% del valore del Prodotto
interno lordo del Mezzogiorno.
Lombra della criminalità sulle imprese non si manifesta
solo in termini di mancata crescita, ma anche di costi per dotarsi
di sistemi di sicurezza: non meno di 4,3 miliardi, pari al 3,1%
di fatturato complessivo delle 700 imprese coinvolte nella ricerca.
Inoltre, il mancato valore aggiunto avrebbe potuto generare almeno
180 mila unità di lavoro regolari annue, ossia il 5,6% di
quelle utilizzate attualmente dalle imprese fino a 250 addetti nel
Mezzogiorno. In questo contesto risulta chiaramente il senso di
sfiducia degli imprenditori: il 79% non si sente completamente al
sicuro di fronte alla minaccia rappresentata dalla criminalità
organizzata. I più preoccupati sono i commercianti, gli imprenditori
del manifatturiero e quelli del comparto turistico.
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