Giugno 2003

SUD E SOMMERSO

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La voragine del nero
Walter Bondrigo
 
 

L’economia
sommersa ha fatto ancora dei passi avanti negli ultimi anni, in qualche caso addirittura superiori
alla crescita
dell’economia legale.

 

Non sono molte le domande giunte al traguardo: l’ultima operazione straordinaria contro il sommerso si è conclusa con risultati in un certo senso deludenti. Al Cles, (Comitati per il lavoro e l’emersione del sommerso), sono pervenute 876 dichiarazioni di imprese decise a venir fuori dal nero, concentrate soprattutto tra Campania, Puglia e Lazio. La scadenza era stata fissata al 28 febbraio, e il giorno seguente le autorità governative hanno tempestivamente escluso ogni possibilità di proroga della misura, affermando che l’attenzione al fenomeno proseguirà, ma in modo diverso. E la strategia da attuare sarà seguita dal Cnes, (Comitato nazionale emersione sommerso), che ha l’obiettivo di rendere permanenti gli strumenti sull’emersione.
La lotta al sommerso, dunque, rimane nello stesso tempo una priorità e un’emergenza per lo Stato, convinto che l’azione abbia degli effetti che vanno ben oltre le 1.700 aziende venute alla luce con la prima fase della campagna e con le 876 della seconda fase. In altre parole, la pressione sull’economia in nero spingerebbe alla decisione di regolarizzarsi, anche senza ricorrere agli incentivi.
L’intervento è obbligato. Il sommerso non ha mai smesso di crescere, nel corso degli ultimi anni. I più recenti dati disponibili sono quelli che la Svimez ha presentato ufficialmente nel mese di aprile con lo studio Il sommerso: produzione, lavoro, imprese. Tra il 1995 e il 2001 il tasso di irregolarità, vale a dire la quota in nero sulle unità di lavoro totali, nel Mezzogiorno è passato dal 20,7% al 23%: le unità stimate sono oltre un milione e mezzo, duecentomila in più rispetto al ‘95. Questo dato misura (nei limiti del possibile, visto che parliamo di sommerso) le unità corrispondenti al lavoro a tempo pieno. Di conseguenza, il numero di persone coinvolte è senza dubbio più alto, visto che per molti quella in nero è un’occupazione secondaria, occasionale, oppure a tempo parziale.

Al Centro-Nord le unità di lavoro sono molte di più, superano i due milioni di persone, ma l’incidenza sull’occupazione complessiva non arriva al 12% e si è addirittura ridotta negli ultimi anni. Merito del maggior numero dei posti di lavoro regolari, di una tendenza meno spiccata al sommerso e di una struttura economica radicalmente diversa. Al Nord il sommerso riguarda in modo particolare immigrati e secondo lavoro, e spesso è una forma di flessibilità al margine: per l’inserimento in azienda o per gestire i picchi produttivi.
Nelle regioni meridionali, invece, il tasso di irregolarità sfiora il 30% in Calabria, ed è intorno al 25% nelle regioni più popolose, la Campania e la Sicilia. E nel complesso le unità di lavoro nascoste sono cresciute del 17% in sei anni. Ma lo sviluppo del nero è andato in parallelo con un’importante fase di crescita dell’economia ufficiale nel Sud. Non è un caso, perché la vivacità favorisce tutti e, secondo la Svimez, oltre alle aziende totalmente in nero, c’è «un ampio ambito di imprese intermedie che presentano una frontiera mobile tra regolarità e irregolarità in funzione della loro capacità di posizionamento nel mercato». Un fenomeno diffuso fra i terzisti, nella subfornitura, in molti casi nel limbo che separa la regola dalla violazione.
«Nell’intreccio proprio dei distretti delle filiere – sostiene la Svimez – vi sono imprese che operano alla periferia dell’organizzazione produttiva, che sopravvivono perché si sottraggono alle regole, oppure a buona parte delle regole. Altre rimangono sommerse all’inizio della loro attività, con la prospettiva di potersi regolarizzare in presenza di un miglioramento dei loro conti economici e finanziari. Altre ancora sommergono tutta o parte della loro attività, in occasione del passaggio a forme di decentramento produttivo e di utilizzo del lavoro a domicilio». Secondo la Svimez, si può agire soprattutto su queste ultime due aree per portare l’attività alla luce del sole. Più difficile agire su quello che la Svimez considera «uno zoccolo duro di economia sommersa, destinato a rimanere tale per l’intreccio di situazioni caratterizzate da imprese di piccole dimensioni, a bassa redditività, che operano nei settori tradizionali all’interno di filiere di subfornitura».

Parliamo dei numeri e delle situazioni. Intanto, lo sviluppo. Secondo i dati elaborati dalla Svimez, l’economia sommersa ha fatto ancora dei passi avanti negli ultimi anni, in qualche caso addirittura superiori alla crescita dell’economia legale, ufficiale. Tra il 1995 e il 2001, il numero di unità di lavoro irregolari è aumentato del 9,7% in tutta la penisola (contro l’11,5% del Prodotto interno lordo). L’incremento è stato trainato dal Mezzogiorno, dove i lavoratori a tempo pieno stimati dalla Svimez nel 2001 erano oltre un milione e mezzo, il 17,2% in più del ‘95. Al Centro-Nord le unità di lavoro sono più di due milioni, ma la differenza tra le due parti del Paese sta nell’incidenza del nero: al Sud il tasso di irregolarità è del 23%, al Centro-Nord è quasi dimezzato, all’11,9%.
Poi, le Regioni. Il territorio più “sommerso” è la Calabria, dove il tasso di irregolarità sfiora il 30%: circa un terzo delle ore di lavoro sono fuori controllo. Alta anche l’incidenza in Campania (25,3%) e in Sicilia (24,2%). Negli ultimi anni il lavoro nero si è sviluppato di più proprio nelle regioni che sono riuscite a staccarsi dall’economia tradizionalmente definita “meridionale”, a uscire dall’Obiettivo 1, cioè Abruzzo e Molise. Ma il maggior numero di lavoratori irregolari si concentra tra Campania e Sicilia: da sole, queste due regioni hanno più della metà del totale delle aree del Mezzogiorno.
Infine, i settori. L’agricoltura è l’attività nella quale il nero è più diffuso. Il dato nazionale è del 32% e nel Mezzogiorno sale al 40%, con una quota decisamente superiore alla media in Calabria.
Anche nell’edilizia il fenomeno è molto diffuso, secondo la Svimez, e nelle regioni del Sud il tasso di irregolarità è del 27,5%. Ancora una volta la Calabria è nettamente al di sopra di questa cifra, seguita dalla Sicilia (33%). L’industria è meno colpita, con un dato nazionale del 5,7%, che al Sud arriva al 15%. Nei servizi, il tasso di irregolarità nel Mezzogiorno è del 21,5%, ma in questo caso le distanze con il Centro-Nord (14,4%) non sono molto ampie.

C’è un ultimo fenomeno da analizzare, sia pure in breve, per la sua incidenza sul quadro generale del lavoro. Ed è un fenomeno che riguarda in modo esclusivo alcune regioni del Mezzogiorno. In sintesi: la mancata crescita del valore aggiunto delle imprese meridionali, causata dalla presenza pervasiva dei diversi cartelli del crimine, è valutabile in 7 miliardi e mezzo di euro all’anno. Circa 15 mila miliardi delle vecchie lire! E’ la stima, elaborata dal Censis, che fa riferimento soltanto alle imprese sotto i 250 addetti, cioè circa la metà delle attività economiche meridionali. Il fatturato che, a causa del crimine organizzato, non viene sviluppato rappresenta circa il 2,5% del valore del Prodotto interno lordo del Mezzogiorno.
L’ombra della criminalità sulle imprese non si manifesta solo in termini di mancata crescita, ma anche di costi per dotarsi di sistemi di sicurezza: non meno di 4,3 miliardi, pari al 3,1% di fatturato complessivo delle 700 imprese coinvolte nella ricerca. Inoltre, il mancato valore aggiunto avrebbe potuto generare almeno 180 mila unità di lavoro regolari annue, ossia il 5,6% di quelle utilizzate attualmente dalle imprese fino a 250 addetti nel Mezzogiorno. In questo contesto risulta chiaramente il senso di sfiducia degli imprenditori: il 79% non si sente completamente al sicuro di fronte alla minaccia rappresentata dalla criminalità organizzata. I più preoccupati sono i commercianti, gli imprenditori del manifatturiero e quelli del comparto turistico.

   
   
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