Giugno 2003

GRANDANGOLO

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Impegno civile
per il Sud
A.P.
 
 

Fautore
di un’economia di stampo keynesiano, Romeo intravide
la soluzione
del problema
meridionale in
un’azione congiunta fra iniziativa
pubblica e privata.

 

Tracciando l’itinerario storiografico percorso da Rosario Romeo emerge il diverso grado di influenza esercitato da Gioacchino Volpe e da Benedetto Croce, ma anche da Federico Chabod e da Nino Valeri, nella sua formazione. Pur scorgendo in Volpe «una personalità moderna e intellettualmente creativa», capace di fondere la storia politica con quella sociale, senza fare concessioni al sociologismo e al determinismo, e benché riconoscesse in lui l’unico storico italiano della sua generazione in grado di cogliere i nessi vitali tra le forme disparate del processo storico, Romeo trovò in Croce il vero maestro, del quale assimilò fino in fondo la lezione.
L’adesione all’insegnamento crociano, infatti, non venne mai meno. La certezza che la concezione storicistica della realtà fosse la costruzione più ricca e originale di pensiero storico prodotta dalla cultura italiana ed europea del Novecento, la più adatta a dare un senso coerente e intellettualmente significativo al corso della storia, rimase in Romeo sempre ferma, soprattutto quando le particolari condizioni politico-culturali del Paese conferirono al marxismo, alla interpretazione gramsciana della storia d’Italia rilievo singolare.
Diverso fu invece il rapporto con Chabod, del quale Romeo ammirò l’impegno politico-civile. Tuttavia, nonostante la lunga e feconda collaborazione – dal 1953 al 1957 Romeo fu segretario dell’Istituto Croce, alla cui direzione era stato chiamato nel 1947 lo storico valdostano – e l’influenza esercitata nella scelta di alcune tematiche della sua ricerca, Chabod rimase per Romeo “soltanto” un professore.

Nel 1950 Romeo pubblicava Risorgimento in Sicilia. L’opera, che ebbe vasta eco e fece conoscere il giovane autore, conteneva già il nucleo centrale della sua riflessione non solo sul movimento risorgimentale siciliano, ma sul Risorgimento italiano. Superando il vecchio schema interpretativo, secondo il quale l’adesione siciliana al progetto dello Stato nazionale era stata dettata dalla tradizionale opposizione a Napoli, Romeo sottolineava come la scelta unitaria, compiuta dalle forze politiche più vive dell’isola, avesse, da un lato, significato il superamento dell’antico autonomismo, del vagheggiato disegno della “nazione” siciliana, e, dall’altro, segnato l’avvio di un processo di aggancio della Sicilia all’Europa. Certo – osservava acutamente – il Risorgimento siciliano sul piano dei rapporti economico-sociali non era riuscito a cambiare il volto dell’isola, ma sul terreno etico-politico aveva rappresentato un decisivo salto di qualità. L’inserimento nella nuova compagine statale, pur con tutte le sue contraddizioni, era stato un efficace elemento di rottura col passato.
Ma, prescindendo dalle conclusioni tuttora valide della prima opera di Romeo (si pensi alla penetrante differenza fra gabellotti e grandi affittuari del Nord; al variegato quadro della cultura isolana della prima metà dell’Ottocento e alla conseguente revisione del severo giudizio formulato dal Gentile), ciò che qui più importa rilevare è che alla sua realizzazione concorse una forte spinta ideale contro l’anacronistico rigurgito separatista che si manifestò in Sicilia all’indomani della seconda guerra mondiale.
Nel 1951 Romeo recensiva l’Italia moderna di Volpe. Se fra i due storici c’era piena identità di vedute sul giolittismo, Romeo dissentiva però dal giudizio volpiano sulla classe politica pre-crispiana e soprattutto sul nazionalismo, del quale mise in evidenza il carattere classista e la funzione ritardante. In quella recensione qualcuno ha intravisto alcune coordinate di fondo di una storia dell’Italia liberale, che però Romeo non riuscì mai a scrivere, sebbene in Risorgimento e capitalismo egli formulasse le premesse teoriche per un simile studio. La pubblicazione di questo testo, la cui stesura fu coerente allo svolgimento della produzione romeiana e non fu certamente dettata da un prevaricante ideologismo o da motivi finalizzati – come qualche studioso ha voluto insinuare – a trarre vantaggio dallo sbandamento in cui si dibatteva l’intellettualità comunista dopo il XX Congresso del Pcus, segnò una svolta radicale nel dibattito storiografico sull’Italia contemporanea. Nell’ambito degli “studi sabaudi” e nella prospettiva di una storia delle origini della nazione italiana prendeva, intanto, corpo la monumentale biografia di Cavour, alla cui stesura Romeo attese per circa un trentennio. Con Cavour e il suo tempo lo storico siciliano, sulla scorta di un rigoroso impianto metodologico, oltre a superare le carenze filologico-interpretative di gran parte della tradizione biografica cavouriana, apriva nuovi angoli prospettici nella ricostruzione della vita e del ruolo politico ricoperto dal conte.

La formazione europea, secondo Romeo, consentì al giovane Cavour di cogliere il carattere internazionale della “questione italiana”. Cavour non ebbe dubbi nello schierarsi dalla parte del nuovo Piemonte costituzionale e nell’opporsi al regime assolutista del vecchio Regno sabaudo; tuttavia, temendo le conseguenze nefaste della rivoluzione, fino a quando la situazione politica europea non si stabilizzò, il conte non uscì dall’orbita del moderatismo azegliano.
In seguito alla salita al trono di Luigi Napoleone, Cavour decise di abbandonare la posizione moderata e si fece promotore di una politica riformista più avanzata sia sul piano economico che su quello politico-civile. La politica del Connubio, che rappresentò la svolta fondamentale, non fu un’operazione politica di stampo conservatore, bensì la messa in moto di un disegno progressista e, per molti aspetti, rivoluzionario. Veniva fuori così un ritratto di Cavour, della sua ardita “partita” giocata con la diplomazia europea; un ritratto depurato da ogni scoria oleografica, che poneva fine al mito del “grande tessitore” e dell’uomo baciato dalla fortuna. Contemporaneamente, Romeo demoliva il mito che voleva Inghilterra e Francia i Paesi fratelli, che avevano favorito l’Unità italiana.
Nella sua ardua lotta, Cavour non dovette affrontare soltanto ostacoli di politica internazionale, ma dovette anche fare i conti con insidiosi avversari interni. Se il contrasto con Vittorio Emanuele II ebbe, secondo lo storico, connotati più di uno scontro personale che politico, quello con Garibaldi e con Mazzini fu di natura essenzialmente politico-ideologica. Alla fine, il maggiore realismo della politica cavouriana ebbe, per così dire, la meglio. E, in effetti, la soluzione moderata fu l’unica soluzione possibile, l’unica capace di realizzare l’Unità del Paese e di mantenerla.

Ricordiamo, infine, le pagine con le sue battaglie politiche condotte in difesa dello Stato e del regime rappresentativo sul Mondo e su Nord e Sud. Fautore di un’economia di stampo keynesiano, Romeo avversò la formazione delle grandi concentrazioni oligopolistiche e intravide la soluzione del problema meridionale, inteso come problema nazionale, in un’azione congiunta fra iniziativa pubblica e privata. Lo Stato, che sul finire dell’Ottocento era intervenuto per avviare lo sviluppo industriale localizzatosi nel Nord, avrebbe dovuto svolgere un ruolo centrale nel processo di riequilibrio economico e civile del Paese. Quando, però, apparve chiaro che i partiti tendevano ad allargare la sfera di controllo sull’economia, Romeo non esitò a denunciare quel fenomeno, così come stigmatizzò i guasti arrecati dal sindacalismo selvaggio, l’inefficienza burocratica, la perdita della cinghia di trasmissione tra amministrazione dello Stato e classe politica, il terrorismo, il dissesto della finanza pubblica, l’elefantiasi del sistema distributivo, l’occupazione della società civile da parte dei partiti. Cosicché con la sua scomparsa sia il mondo della cultura sia quello politico dovevano perdere un protagonista, che aveva trovato nei valori della democrazia e nel senso etico del liberalismo i cardini della sua azione.

   
   
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