Giugno 2003

IL CORSIVO

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Kaus storm
Aldo Bello
 
 

Lo hanno definito, mentre spirava
furibondo durante la guerra, lo “scialle di Allah”, quasi fosse
uno sterminato
tappeto volante
disteso da Dio
a protezione
dell’Iraq.

 

Si usciva da Mosul, in direzione nord, per raggiungere Ninive, e in direzione sud per entrare a Nimrud. Si andava a Ctesifonte da Baghdad, e a Babilonia da Hilla. Si lasciava alle spalle al-Diwaniyya per valicare le mura di Nippur, e Nasiriyya per incantarsi fra le rovine della mitica Ur. Da Mosul a Kirkuk era la terra degli Assiri, al centro-sud avevano dominato i Sumeri e i Babilonesi, nel cuore di palme tra Tigri ed Eufrate che aveva preso il nome di Mesopotamia. In alto, il sigillo del Deserto Siriaco, in basso quello del Deserto Arabico con una sua Finisterre ad al-Fau, spiraglio aperto sull’imbuto blu del Golfo Persico. Al centro, palmizi e campi a risaie fin dove potevano scrutare gli occhi. Divise le sorgenti dei due fiumi, che nascono nel Kurdistan turco, scendono vagamente paralleli lungo il Kurdistan iracheno, e unendosi nella provincia di Bassora s’impaludano, cambiano nome in Shatt al-Arab, e sfociano a delta fra isole erratiche e mobili sabbie di silice.

Era (lo è ancora?) il mio Iraq. Mosul, che galleggia sul petrolio, è una vasta pianura di cotone: stoffe pregiate (le mussoline) e bronzi, ciuffi di carrubi di querce di pistacchi, e odore di spezie colorate. Fu antico centro cristiano, preso dagli Arabi nel 641. Passato agli Ottomani, è sede vescovile caldea. I nestoriani del distretto del nord furono massacrati dai musulmani nel 1933. Con Kirkuk, che è nel luogo dell’antica Arrapkha, polis delle tavole in caratteri cuneiformi, redatte in babilonese, di contenuto giuridico, è la maggiore riserva mondiale di greggio. Dirimpettaia, sulla riva sinistra del Tigri, la regale Ninive, abitata già in epoca preistorica. Legata al culto assiro della dea Isthar, fu identificata nell’Ottocento dall’esploratore Carsten Niebur e in parte riportata alla luce dall’italo-francese Paul Emile Botta: mura, palazzi, sistemi di canali irrigui, bronzi, mirabili rilievi con banchetti e scene di caccia e di guerra, e 24 mila tavolette cuneiformi della celebre biblioteca di Assurbanipal.

Nippur, la sumera Nibru, a lungo centro religioso e culturale della Mesopotamia, città intersecata dall’Eufrate, ebbe nel tempio di Enlil, baricentro del tessuto urbano, ai piedi di una ziggurat, il prototipo delle costruzioni templari per due millenni: pianta quadrata, due cortili cintati da mura merlate, con gli altari dedicati ai numi tutelari, l’ambiente sacro vero e proprio. Emersi qui testi sumerici e babilonesi, 50 mila tavolette con frammenti di due codici, con gli esercizi degli allievi del tempio, con prescrizioni farmacologiche, con inni religiosi, con l’archivio commerciale dell’ebreo Murashu. Imponente la necropoli.
Fertile di cereali e di datteri, Babilonia, città che ebbe 24 viali che precorsero i boulevards, 54 templi, 600 cappelle, canali irrigui collegati con l’Eufrate, due bastioni, con mura alla base di un fossato, con sette piloni che testimoniano la presenza di un ponte sul fiume, con i giardini pensili ancora non localizzati, con una ziggurat di 90 metri che nel Medioevo si riteneva fosse la Torre di Babele, con un centro d’affari che include un grande edificio, al quale forse alludeva Erodoto quando parlava di una costruzione a quattro piani, e, appena fuori città, un colossale leone. Questa “grande prostituta”, come fu definita dalla Bibbia, fu prediletta da Alessandro Magno il quale, conquistatala, ordinò che non fosse rasa al suolo, ma lasciata intatta, settima meraviglia del mondo, e favolosa capitale del suo impero orientale.
E poi Uruk, odierna Warka, con resti archeologici che si estendono per cinque chilometri, con 18 livelli arcaici, doppia cinta muraria di 10 chilometri, con all’interno grandi pilastri, poi trasformati in torri semicircolari, con tre zone sacre, due ziggurat e il celebre “Tempio bianco”. E Karbala, una delle città sante degli Sciiti, come al-Kazimain. E Bassora, seconda città irachena, kurda e caldea, a ridosso del gran delta che avanza di tre chilometri al secolo, incuneando lingue di terra nel mare e ampliando la più vasta oasi di palme da datteri del pianeta.

E infine Ur. Ur dei Caldei che oggi si chiama al-Muqayyar. Fu patria di Abramo, padre dei tre monoteismi. Città santa per tutti. Città leggendaria per le memorie bibliche. Città misteriosa e intrigante per gli archeologi. Gli scavi profondi che raccontano la preistoria includono uno strato di fango alluvionale, interpretato come prova di un diluvio locale, scatenato dal Tigri, all’origine del mito del diluvio sumerico poi trasmesso dalla Bibbia. Ziggurat, templi, palazzi e case private già del terzo millennio a.C., con vie strette e tortuose, con edifici di mattoni crudi, a due piani, senza finestre, con cortile interno sul quale si aprivano le stanze: al primo piano, un ambiente per il ricevimento, la cucina e le stanze della servitù; la famiglia abitava il piano superiore; le sepolture avvenivano nel cortile di casa. Fra le 1.850 tombe della vera e propria necropoli, 16 sono particolarmente ricche di corredi di vasellame, di armi, di ornamenti d’oro, di oggetti e strumenti musicali incrostati di pietre preziose, con evidenti tracce di riti con sacrifici umani: da tre a settantaquattro persone erano state immolate per accompagnare nell’aldilà nobili defunti. E ancora, lo “Stendardo di Ur”, un monumento sumerico decorato a intarsio, due pannelli rettangolari e due laterali a trapezio, con decorazioni ottenute con conchiglie, e con pezzi di calcare rosso su un fondo di lapislazzuli uniti su un letto di bitume, lo stesso bitume che, al termine di un viale di Babilonia, ci dà la prima strada asfaltata della storia umana. Guerra e pace rappresentate dai pannelli rettangolari; uomini e animali mitologici da quelli laterali. Lo Stendardo è visibile al British Museum, inutilmente reclamato da Baghdad.

Un ingresso piuttosto angusto, niente recinto esterno, ambienti interni necessariamente immensi e precariamente illuminati, prima della recente ristrutturazione: nulla lasciava presagire quali stupendi tesori contenesse il museo di Baghdad, malauguratamente adiacente a una delle maggiori centrali elettriche della città e a meno di 700 metri dal ministero degli Esteri, subito centrato dai cosiddetti missili intelligenti.
Quei tesori datano dal 7000 a.C. al 1000 d.C., e testimoniano gli sviluppi delle civiltà di Uruk, sumera, assira, babilonese, persiana, protoislamica. In alcuni testi che sono custoditi nelle teche blindate sono raccontate le avventure di Gilgamesh, figura che ispirò il Noè biblico. Altri rivelano le conquiste matematiche, descrivendo il “teorema di Pitagora” quindici secoli prima della nascita del filosofo greco, e l’invenzione dell’alfabeto, la progettazione delle città, i progressi dell’astronomia, della medicina, della giurisprudenza, della botanica, dell’irrigazione…
Due guerre regionali (contro i Kurdi, contro gli Iraniani) e due guerre del Golfo, con archeologi che hanno fatto anche da scudi umani. Quante rovine ridotte in macerie? Alla periferia della capitale, proprio a Ctesifonte, c’era il più grande arco in mattone sospeso, del IV secolo d.C.: è stato risparmiato? A Mosul hanno subìto danni quella dozzina di chiese più antiche del mondo, che appartengono al VII e all’VIII secolo d.C., insieme con l’equivalente iracheno della Torre di Pisa, un meraviglioso minareto pendente, del XII secolo, sensibile ai minimi spostamenti d’aria? Il possente leone di basalto nero della Babilonia, simbolo di Isthar, è rimasto indenne? A Ninive, dove predicò il profeta Giona, dopo che nella guerra del ‘91 vennero trafugate le splendide statue che ornavano i palazzi reali, è stato distrutto o depredato altro? A Karbala, dove sempre in quella guerra i cannoni di Saddam Hussein rasero al suolo la bellissima moschea, patrimonio Unesco, che cos’altro è finito in macerie? E’ in piedi il bellissimo tempio romano-ellenistico di Agrab? E la ziggurat di Baghdad, anch’essa ritenuta Torre di Babele? Le mura babilonesi avevano mattoni stampigliati 25 secoli fa da Nabucodonosor. Nel 1980 quelle mura furono restaurate da Saddam, il quale, spacciandosi per discendente del grande sovrano, volle stampigliare anch’egli i mattoni necessari alla ricostruzione dei bastioni e delle piazze in cui gli assiri ammucchiavano le teste degli abitanti delle città cinte d’assedio e conquistate (il re veniva scorticato vivo, la sua pelle inchiodata alle mura): che danni ci sono stati? E a Baghdad, ancora, le magnifiche sedi arcivescovili di rito latino, armeno, siriaco e caldeo, e la splendida sede del califfato abbaside, e il centro del commercio carovaniero già per due volte distrutto dal Tamerlano, e sempre rimesso su, e la moschea centrale, che fine hanno fatto?

Dopo Italia e Grecia, l’Iraq è il terzo Paese al mondo per ricchezze archeologiche. Quindicimila siti sono stati riportati alla luce, ma sottoterra ce ne sono da 10 a 100 mila. E’ una regione disseminata da tesori sepolti, e ogni devastazione, ogni saccheggio può modificare le conoscenze che abbiamo sulla storia dell’umanità. Ogni sito distrutto è un prezioso tassello in meno. Ogni documento perduto è un incolmabile spazio vuoto. E pensare che proprio qui, 5500 anni fa, con l’invenzione della scrittura, la tradizione orale lasciò il posto a quella scritta, cioè alla storia. E qui, con l’introduzione del concetto dello zero, si misero le basi del pensiero razionale moderno!
I “tell” corrugano piedi di montagne, pianure e deserti, e sono colline irregolari con peluria di sterpi bassi e torvi. E’ lì che si deve cercare riparo, negli anfratti dei loro dorsi possenti, quando, improvvisamente trascolorando, e poi illividendo, il cielo preannuncia una tempesta di sabbia. Quello che subito dopo, carico degli umori del Golfo Persico, sale per il varco di Bassora e dilaga dal Deserto Arabico all’estremo Nord, è un vento maligno, di raffiche staffilanti e lunghe, alternate ad altre brevi e vorticose. Lo chiamano kaus, questo turbinio scomposto che disfa dune, spiana gibbe, scopre e ricompone avvallamenti, impasta di sabbia uomini e case, ammacca palmizi, può durare una settimana e muta i paesaggi. Come ogni lavacro secco, si lascia dietro molte ferite e qualche devastazione. Combatterlo è pressoché inutile. Resistergli è possibile, come da millenni, con abili accorgimenti. Lo conoscono meglio di chiunque i carovanieri iracheni che percorrono le piste per Amman, per Damasco, per Aleppo, o, sul versante meridionale, per le città sante della Mecca e della Medina. Al suo sopraggiungere, costoro sanno soppesarne l’intensità, pronosticare la durata, indovinare i giochi velenosi. E non dimenticano che possono respirare soltanto voltandogli le spalle.

Lo hanno definito, mentre spirava furibondo durante la guerra, lo “scialle di Allah”, quasi fosse una sorta di gigantesca keffiah, uno sterminato tappeto volante disteso da Dio a protezione dell’Iraq. Tanto ha potuto la fede, da ritenere il diluvio del kaus un benevolo segnale divino. Un invito agli infedeli a girare le spalle, ad abbandonare Bab-ili, la casa divina, appunto, la terra che era stata matrice di civiltà per quei figli che in seguito l’avevano stravolta, e adesso le si rivoltavano contro, con l’alibi di un incidente della storia, il despota Saddam: un granello di sabbia che il divino kaus avrebbe annullato nelle profondità insondabili del tempo che è breve e infinito, che dunque non esiste, non ha scansioni, non conosce distanze cicli spazi. Avrà risepolto rovine di rovine, quel kaus? Macerie di macerie? Oltre alle vite umane, avrà annientato anche alabastri e mattoni, marmi, terrecotte, papiri, metalli preziosi?
Dentro il museo di Baghdad si cammina a lungo tra due file di sfingi imponenti-enigmatiche. Alte su alti basamenti, lasciano sgomenti, perché non guardano l’uomo, non lo vedono forse neanche, hanno gli occhi fissi su un punto remoto, su un orizzonte imperscrutabile, verso una linea polare incognita, misteriosa e sfuggente come tutto ciò che è dell’Oriente: probabilmente verso una costellazione aurorale triangolata nel suo viaggio da chissà quando e per chissà dove. E’ fra queste dèe arcane che germinò la nostra scienza, con la forza della ragione e con la linfa del dubbio, con le domande superate dalla conoscenza, con la speculazione che genera pensiero, con i dilemmi che ci riportano nei recinti della nostra imperfezione.
Percorsi tanti giacimenti archeologici iracheni, proprio lì, nel museo affollato da quei volti ermetici, mi chiedevo se saremmo stati altri, e più soli, senza l’arte; se l’arte non sia il messaggio delle vite che svaniscono alla vita che continua; se la nostra inclinazione all’arte non manifesti la ricerca di un’armonia che ci orchestri in qualche modo con gli orditi dell’universo…
Il sole stava morendo tra le dune occidentali, mentre si incrociavano il grido del muezzin e i preavvisi metallici del coprifuoco. Trenta minuti per rintanarsi. Una corsa al ritmo del tempo dell’Ovest: la velocità che accorcia le distanze. Spatolato di rosso, il Tigri dissolveva e raggrumava l’aculeo di un minareto. Tra le case, un acre odore di montone speziato e i passi cadenzati delle ronde in armi. Scendeva una notte come una e mille altre, nella città dei favolosi Califfi. Domani avremmo rifatto la conta: sacca con pochi indumenti, viveri essenziali, bustine con cloruro di sodio, capsule disinfettanti e antibiotiche; la ghirba e la maschera antigas; la biro e il taccuino. Sullo Shatt al-Arab si moriva in iracheno e in iraniano. La chiamavamo arte anche quella. Della guerra.

   
   
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