Giugno 2003

MERIDIONALI NARRATORI

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A Sud del romanzo
Tonino Caputo - Ilaria Mastrangelo
 
 

Proveniente
da una famiglia
dell’agiata borghesia piemontese, Levi si stupì della miseria dei contadini lucani più di quanto non
si meravigliassero
i meridionali stessi.

 

«O tiempo d’a gnora Ava – ‘Nu viecchio imperatore – A morte condannava – Chi faceva ammore». Presi da un canto popolare molisano, questi versi furono messi da Francesco Jovine come epigrafe di La signora Ava, romanzo pubblicato nel 1942. Il tempo della “gnora Ava” è più o meno “il tempo andato”, caro alla memoria di ciascuno, non importa se buono o cattivo, perché è nella vita di tutti noi. E sotto il profilo editoriale, è lo stesso tempo che vide pubblicati altri due testi: Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, edito nel 1945, e Gesù fate luce, di Domenico Rea, apparso nel 1950. Tutti e tre i romanzi erano ambientati nel Sud: il primo nel Molise, il secondo in Lucania, il terzo a Napoli e in Campania.
Partiamo da quest’ultimo. In quel 1950, quando uscì nella mondadoriana “Medusa degli italiani”, Rea era poco più di un ragazzo. Aveva ventinove anni, ma già era autore di due libri, anche questi accolti da Mondadori: Spaccanapoli (1947), racconti, e Le formicole rosse, una forse mai rappresentata commedia in tre atti. Composto da dodici racconti, Gesù fate luce vinse, nel 1951, l’allora prestigioso Premio Viareggio. Piededifico, Cappuccia, Capodimorte divennero ben presto personaggi famosi. E divenne celebre lo stesso Rea, ex operaio delle Cotoniere Meridionali ed ex emigrato in Brasile. Rea, occorre ricordare, aveva interrotto gli studi nel 1934, dopo aver conseguito la “licenza complementare”, ma si era presto avvicinato al mondo della cultura, sia con interventi su un periodico di Salerno sia frequentando a Nocera Inferiore, cittadina in cui si era trasferito giovanissimo con la famiglia, alcuni confinati politici. E furono proprio alcuni di costoro, quasi tutti intellettuali, a consigliargli valide letture e a indirizzarlo verso una non conformistica assimilazione della cultura.
Gesù fate luce segnò, o parve segnare, l’avvento di un nuovo tipo di narrativa in Italia. Il vicolo, la plebe (termine, quest’ultimo, adoperato spesso da Rea anche nei saggi), vennero sanguignamente portati in primo piano. Si inneggiò a Francesco Flora, che aveva avuto il merito di avere scoperto uno scrittore così valido e originale, e si lodò, quasi senza riserve, lo scrittore stesso. Naturalmente Napoli, città in cui erano ambientati molti racconti di Gesù fate luce, fece di Rea, ora iscritto al Partito comunista (dal quale uscirà dopo l’invasione dell’Ungheria), una sorta di eroe popolare.

Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, pubblicato da Einaudi (che in quell’anno operava a Roma), può senza dubbio essere considerato il primo romanzo italiano del dopoguerra. E’ vero che, nello stesso anno, il 1945, uscirono anche Uomini e no di Elio Vittorini e Kaputt di Curzio Malaparte, ma l’azione di rottura fu compiuta proprio dal romanzo di Levi. Vittorini aveva creato Uomini e no con il linguaggio, asciuttamente retorico, dei contadini americani presenti nei romanzi da lui tradotti; Cristo si è fermato a Eboli parve più vicino alla sensibilità del lettore italiano.
Laureato in medicina, pittore, benestante, Levi aveva 43 anni quando uscì il libro. Torinese, aveva fatto le sue prime esperienze giornalistiche nel 1922 sulla “Rivoluzione liberale” e aveva poi diretto, con Carlo Rosselli, un giornale clandestino che riecheggiava i princìpi di “Giustizia e libertà”. Arrestato nel 1934, inviato al confino ad Aliano l’anno successivo, venne amnistiato nel 1936. Direttore, nel 1945, di un quotidiano a Firenze e di un altro a Roma, conquistò la celebrità con il romanzo in cui, appunto, narrava la realtà da lui vissuta in Basilicata come confinato politico. In quanto proveniente da una famiglia dell’agiata borghesia piemontese, Levi si stupì della miseria dei contadini lucani più di quanto non si meravigliassero i meridionali stessi. Riuscì tuttavia a trasmettere, in maniera quanto mai accattivante, il suo sgomento ai lettori.
Del tutto diverso il caso della Signora Ava, che Jovine pubblicò a Roma, nel 1942, presso l’editore Tumminelli, in una collana diretta da Arnaldo Bocelli. Quarantenne, insegnante, Jovine si era accostato alla narrativa nel 1930 con Berlué, un romanzo per ragazzi. Trasferitosi nella capitale, (era originario di Guardalfiera, in provincia di Campobasso), si era segnalato come assiduo collaboratore di “I diritti della scuola”, periodico per insegnanti e direttori didattici. Fu sulle pagine di questa rivista che uscì a puntate il romanzo Ragazza sola. Presso Guanda pubblicò, nel 1934, Un uomo provvisorio e, nel 1940, Ladro di galline.
Signora Ava, iniziato nel 1930 e più volte interrotto, fu composto nel corso di lunghi anni. Il Molise di metà Ottocento, dominato dai feudatari, insidiato dai briganti, animato dai contadini, è lo sfondo di questo romanzo che portò alla ribalta, ma senza conferirgli immediata notorietà, uno scrittore dalla vena favolistica e dal forte impegno sociale. Jovine morì nel 1950. Appena qualche settimana dopo la sua scomparsa, apparve nelle librerie, edito da Einaudi, Le terre del Sacramento che, più tardi, una trasposizione televisiva rese celebre. Fu solo allora che l’Italia incominciò a conoscere il Molise. Così come con Levi aveva incominciato a scoprire, con sorpresa e anche con fastidio, gli inferni del Mezzogiorno, insieme con quella che, a proposito di Levi, Giovanni Russo definì «la straordinaria verità di valori di carattere universale» propri ed esclusivi del profondo Sud. Un giudizio che contiene un monito predittivo per chi avrebbe poi blaterato di secessioni.

Analoga alla sorte di Jovine, quella di Federico De Roberto. I Viceré sono stati inizialmente segnati dalla sostanziale disattenzione e incomprensione che li accompagnò, più o meno, fino a metà Novecento, diventando uno dei casi più incontrovertibili di ricezione ritardata, con recupero a fine secolo, in occasione del centenario del romanzo, riconosciuto alla fine come uno dei capolavori della nostra narrativa, facendo ritrovare in sé e per sé un testo rimasto assurdamente estraneo al nostro orizzonte medio di cultura letteraria.
Se ciò è vero, può essere opportuno riflettere sul “perché” di questo destino, cercando di mettere in luce i caratteri costitutivi del romanzo che possono in vari modi averlo determinato. Ricordiamo, intanto, che in questo caso non si può ricorrere al solito capro espiatorio, Benedetto Croce, l’avversario d’ufficio della «più recente letteratura», dal momento che l’irrimediabile, lapidario “no” crociano è stato molto tardo (è nel VI volume della Letteratura della nuova Italia). Questo “no”, pertanto, non è stato un agente della sfortuna del romanzo, ma, semmai, una testimonianza preziosa del rifiuto, più o meno esplicito, che segna I Viceré fin dalla nascita. E a questo punto, volendo, potremmo allineare tutti i nomi di coloro i quali, con il silenzio o con le parole, avevano preceduto il verdetto crociano.
La riabilitazione, infine. Fino all’esemplare giudizio di Leonardo Sciascia in occasione del cinquantenario della morte di De Roberto, nel 1977: «Dopo i Promessi Sposi, il più grande romanzo che conta la letteratura italiana. Ma chi se ne è accorto, a suo tempo? Chi se ne accorge, oggi?». Si potrebbe partire dalla sconsolata ragione di queste domande per cercare di esplorare un po’ più di quell’ombra che da sempre accompagna I Viceré, condizionandone appunto il singolare destino. Certo, se si ripercorre la migliore critica derobertiana non mancano davvero le messe a fuoco del “negativo” intrinseco all’opera, al quale si riconducono le perplessità e i dinieghi più vari: l’ “Antirisorgimento”, ad esempio, che innegabilmente la contrassegna, dal momento che il romanzo intende narrare un fallimento etico-politico. Ma è fin troppo facile obiettare che allora il romanzo avrebbe dovuto essere tra i primi beneficiari dell’ormai istituzionalizzato “processo al Risorgimento”. E invece…
Altrettanto si può dire a proposito dell’acquisito smascheramento del vero genere a cui il romanzo appartiene: “non” è un romanzo storico, a dispetto del trentennio, o giù di lì, di storia siciliana e italiana post-unitaria con cui i vari Viceré Uzeda fanno i conti e gli affari, dal momento che la Storia per costoro è come se non ci fosse, visto che non pagano mai lo scotto. Pur essendo la spietata storia di un’eredità, non è altresì un romanzo naturalistico. Ma da tutte queste acquisizioni, canoniche ormai, forse non si giunge ancora a individuare che cosa, prima di tutto il resto, I Viceré sono, qual è il cuore della loro disperata negazione che li ha resi così oggettivamente ingrati a lettori tanto differenti e persino antitetici. Potremo anche sbagliarci, ma a noi sembra, sollecitati proprio dal giudizio di Sciascia, che I Viceré siano di sicuro il nostro maggior romanzo “contro” i Promessi Sposi, dei quali rappresentano il più radicale capovolgimento, all’insegna di un sofferto leopardiano sarcasmo.
Basterebbe forse soltanto pensare alla blasfema serialità delle “conversioni”, vero leitmotiv del capolavoro di De Roberto. Si deve dare per scontata ogni possibile esemplificazione, ovviamente, ma al solo fine di osservare che se è vero, com’è vero, che il romanzo manzoniano è la più rappresentativa opera della nostra moderna civiltà letteraria, la sua “confutazione”, per dir così, non poteva non colpire assai a fondo.

Se vogliamo, ci sono stati altri clamorosi esempi di emarginazione in tempi a noi più vicini. Vittorini (e non soltanto lui) respinse Il Gattopardo perché Tomasi di Lampedusa rifiutò di togliere la frase che, in nome dell’aristocratico cinismo e del secolare trasformismo meridionale, specificava che perché tutto rimanesse come prima era necessario che tutto cambiasse. Ci volle l’intuizione di Bassani per tirar via da un polveroso scaffale della Feltrinelli il dattiloscritto lampedusiano e per darlo alle stampe, postumo. Così come a Sciascia si rimproverò d’aver narrato di una mafia fuori corso, nel Giorno della civetta, perché ormai evoluta oltre l’ambito rurale e approdata in quello speculativo edilizio e finanziario. Ignorando che il nocciolo del discorso era tutto incentrato proprio su quell’evoluzione, esplicitata nella riflessione secondo cui se muore una mafia in vernacolo vuol dire che ne è già nata un’altra in lingua. Del resto, non si ventilò l’ipotesi di elucubrazioni al limite dell’esoterismo per lo sciasciano Todo Modo, incentrato (con ipotesi tutt’altro che peregrine) sul tragico caso Moro?
Domanda d’obbligo: la scrittura conosce geografie? Un indiscusso maestro, Carlo Dionisotti, un quarto di secolo fa dimostrò come potesse essere proficuo il rapporto fra geografia e storia nella letteratura italiana. Il discorso era necessario per chiarire in qualche modo che cosa fosse la letteratura italiana in un contesto pre-unitario, tra fratture, sbalzi, accostamenti. Per quella post-unitaria, un tentativo di definizione avrà probabilmente bisogno di un supplemento di riflessione e, ovviamente, di alcune argomentazioni. Possiamo, senza almeno qualche dubbio, definire meridionale tutta la letteratura dell’ex Regno di Napoli o delle Due Sicilie? E’ sufficiente il riscontro anagrafico che certifichi la nascita di un autore a sud del Tronto e del Garigliano per far valere la definizione?
Sembra che non siano sufficienti l’una e l’altra cosa. Sebbene intrisa di contesti lombardi, ad esempio, l’esperienza di un Mastronardi lascia filtrare non pochi elementi di meridionalità (e non soltanto nel Meridionale di Vigevano). E, di riscontro, non faremmo un buon servizio a Pirandello parlando e scrivendo troppo largamente della sua sicilianità. Diciamo allora, come prima definizione, che quella della letteratura meridionale è faccenda che si fa paragrafo all’interno del libro perpetuo della questione meridionale.
Eppure, messa così, la cosa rischia di sbilanciarsi piuttosto verso una storia dei contenuti, emarginando la sintassi delle forme. E invece si tratta di vedere la consistenza di un contributo alla cultura stilistica della nostra letteratura da parte di un proprio versante, che non è frammento o scheggia impazzita, ma un propileo necessario quanto tutti gli altri.
Dunque: la cosiddetta letteratura meridionale ha una propria, o diverse proprie cifre di stile? Da De Roberto ad Alvaro, da Jovine a Rea, in realtà essa sembra sottrarsi a se stessa, per meglio definire se stessa. Osservava Alvaro in un appunto per la stesura di Mastrangelina: «Scopo del libro: che cosa è un uomo, e un meridionale, di fronte alla donna». Tema che, in quello stesso giro di anni, per vie diverse ma sotto sotto convergenti, ossessionava anche Brancati. Tutti e tre i termini (l’uomo, il meridionale, la donna) coincidono in quello che potremmo definire come l’umanesimo assoluto che caratterizza la letteratura meridionale. Un umanesimo decisivo per un altro versante: precisamente per il conflitto che fa nascere tra l’umanità, che andrebbe intesa in termini integrati, riferentisi a se stessi, e il contenuto, quale che sia. Decisiva ed esemplare, in questo contesto, proprio quanto a meridionalità, la lezione di Sciascia.
L’ambientazione sarà quella urbana oppure quella rurale, dapprima (L’oro di Napoli marottiano, incline ad un umoristico quanto dolente bozzettismo, o il verismo lirico fra storia molisana e mito di Jovine); ma contesto è anche essere improvvisamente scaraventati in una patria per tanti aspetti adottiva. In questo senso non cessa di essere emblematica la meditazione di Tomasi di Lampedusa: il Gattopardo, oltre a tutto il resto, è conflitto di uomini con se medesimi, con i ruoli che ricoprono. Ed è anche conflitto di paesaggi che mutano, che si adattano ad altro; o di paesaggi che scrutano, quando sono o sembrano immutabili, un futuro di effimera durata che ritornerà sui propri passi.
Questa letteratura meridionale dovrà sottrarsi al proprio paesaggio tramite lo stile? E’ stato scritto che più si va a Sud, più lo stile, venendo anche ad anni a noi vicini, sembra assomigliare ad una sorta di barocco prosciugato, che richiama molto lo scheletro di quelle che furono le vere e proprie fattezze carnali. Un barocco pessimistico (“funebre”, lo si è voluto definire), del quale non è stato immune neanche la Conversazione vittoriniana. Un barocco il cui esempio più evidente è nelle pagine di Bufalino: e non soltanto quelle per le quali l’esemplificazione sarebbe evidente (nelle descrizioni, pur se non esclusivamente), ma anche quelle nelle quali il ragionamento serrato, nel nome di una logica vagamente capziosa e forse proprio per questo più accattivante, diventa scheletro del sillogismo, dell’arguzia, (o, per converso, il procedimento può essere quello dello scioglimento, dell’allontanamento della prospettiva barocca, ma non da quella scettica, o pessimistica – “funebre” – come nelle pagine dell’Armonia perduta di La Capria).
A questo clima di linguaggio non si sottraggono i visitatori del Sud, visto che anche il ragionamento finisce per essere di comune sentire rispetto all’oggetto d’indagine. Per concludere: non sembra che lo spirito della cosiddetta letteratura meridionale possa restringersi, limitarsi a un dato più o meno evidente di regionalismo; al contrario, diventa alla fine sottrazione della scrittura da quel regionalismo, per osmosi in un destino più ampio, all’interno del quale un sentire tramite il Sud è solo uno dei caratteri del sentire, in genere, almeno: un punto di presa, un innesto “magnetico”, nello stesso tempo in entrata e in uscita, che dà modo di riconoscere la presenza, nell’albero, del lontano, nobile seme.

   
   
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