Proveniente
da una famiglia
dellagiata borghesia piemontese, Levi si stupì della
miseria dei contadini lucani più di quanto non
si meravigliassero
i meridionali stessi.
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«O tiempo da gnora Ava Nu viecchio imperatore
A morte condannava Chi faceva ammore». Presi
da un canto popolare molisano, questi versi furono messi da Francesco
Jovine come epigrafe di La signora Ava, romanzo pubblicato nel 1942.
Il tempo della gnora Ava è più o meno
il tempo andato, caro alla memoria di ciascuno, non
importa se buono o cattivo, perché è nella vita di
tutti noi. E sotto il profilo editoriale, è lo stesso tempo
che vide pubblicati altri due testi: Cristo si è fermato
a Eboli, di Carlo Levi, edito nel 1945, e Gesù fate luce,
di Domenico Rea, apparso nel 1950. Tutti e tre i romanzi erano ambientati
nel Sud: il primo nel Molise, il secondo in Lucania, il terzo a
Napoli e in Campania.
Partiamo da questultimo. In quel 1950, quando uscì
nella mondadoriana Medusa degli italiani, Rea era poco
più di un ragazzo. Aveva ventinove anni, ma già era
autore di due libri, anche questi accolti da Mondadori: Spaccanapoli
(1947), racconti, e Le formicole rosse, una forse mai rappresentata
commedia in tre atti. Composto da dodici racconti, Gesù fate
luce vinse, nel 1951, lallora prestigioso Premio Viareggio.
Piededifico, Cappuccia, Capodimorte divennero ben presto personaggi
famosi. E divenne celebre lo stesso Rea, ex operaio delle Cotoniere
Meridionali ed ex emigrato in Brasile. Rea, occorre ricordare, aveva
interrotto gli studi nel 1934, dopo aver conseguito la licenza
complementare, ma si era presto avvicinato al mondo della
cultura, sia con interventi su un periodico di Salerno sia frequentando
a Nocera Inferiore, cittadina in cui si era trasferito giovanissimo
con la famiglia, alcuni confinati politici. E furono proprio alcuni
di costoro, quasi tutti intellettuali, a consigliargli valide letture
e a indirizzarlo verso una non conformistica assimilazione della
cultura.
Gesù fate luce segnò, o parve segnare, lavvento
di un nuovo tipo di narrativa in Italia. Il vicolo, la plebe (termine,
questultimo, adoperato spesso da Rea anche nei saggi), vennero
sanguignamente portati in primo piano. Si inneggiò a Francesco
Flora, che aveva avuto il merito di avere scoperto uno scrittore
così valido e originale, e si lodò, quasi senza riserve,
lo scrittore stesso. Naturalmente Napoli, città in cui erano
ambientati molti racconti di Gesù fate luce, fece di Rea,
ora iscritto al Partito comunista (dal quale uscirà dopo
linvasione dellUngheria), una sorta di eroe popolare.
Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, pubblicato da
Einaudi (che in quellanno operava a Roma), può senza
dubbio essere considerato il primo romanzo italiano del dopoguerra.
E vero che, nello stesso anno, il 1945, uscirono anche Uomini
e no di Elio Vittorini e Kaputt di Curzio Malaparte, ma lazione
di rottura fu compiuta proprio dal romanzo di Levi. Vittorini aveva
creato Uomini e no con il linguaggio, asciuttamente retorico, dei
contadini americani presenti nei romanzi da lui tradotti; Cristo
si è fermato a Eboli parve più vicino alla sensibilità
del lettore italiano.
Laureato in medicina, pittore, benestante, Levi aveva 43 anni quando
uscì il libro. Torinese, aveva fatto le sue prime esperienze
giornalistiche nel 1922 sulla Rivoluzione liberale e
aveva poi diretto, con Carlo Rosselli, un giornale clandestino che
riecheggiava i princìpi di Giustizia e libertà.
Arrestato nel 1934, inviato al confino ad Aliano lanno successivo,
venne amnistiato nel 1936. Direttore, nel 1945, di un quotidiano
a Firenze e di un altro a Roma, conquistò la celebrità
con il romanzo in cui, appunto, narrava la realtà da lui
vissuta in Basilicata come confinato politico. In quanto proveniente
da una famiglia dellagiata borghesia piemontese, Levi si stupì
della miseria dei contadini lucani più di quanto non si meravigliassero
i meridionali stessi. Riuscì tuttavia a trasmettere, in maniera
quanto mai accattivante, il suo sgomento ai lettori.
Del tutto diverso il caso della Signora Ava, che Jovine pubblicò
a Roma, nel 1942, presso leditore Tumminelli, in una collana
diretta da Arnaldo Bocelli. Quarantenne, insegnante, Jovine si era
accostato alla narrativa nel 1930 con Berlué, un romanzo
per ragazzi. Trasferitosi nella capitale, (era originario di Guardalfiera,
in provincia di Campobasso), si era segnalato come assiduo collaboratore
di I diritti della scuola, periodico per insegnanti
e direttori didattici. Fu sulle pagine di questa rivista che uscì
a puntate il romanzo Ragazza sola. Presso Guanda pubblicò,
nel 1934, Un uomo provvisorio e, nel 1940, Ladro di galline.
Signora Ava, iniziato nel 1930 e più volte interrotto, fu
composto nel corso di lunghi anni. Il Molise di metà Ottocento,
dominato dai feudatari, insidiato dai briganti, animato dai contadini,
è lo sfondo di questo romanzo che portò alla ribalta,
ma senza conferirgli immediata notorietà, uno scrittore dalla
vena favolistica e dal forte impegno sociale. Jovine morì
nel 1950. Appena qualche settimana dopo la sua scomparsa, apparve
nelle librerie, edito da Einaudi, Le terre del Sacramento che, più
tardi, una trasposizione televisiva rese celebre. Fu solo allora
che lItalia incominciò a conoscere il Molise. Così
come con Levi aveva incominciato a scoprire, con sorpresa e anche
con fastidio, gli inferni del Mezzogiorno, insieme con quella che,
a proposito di Levi, Giovanni Russo definì «la straordinaria
verità di valori di carattere universale» propri ed
esclusivi del profondo Sud. Un giudizio che contiene un monito predittivo
per chi avrebbe poi blaterato di secessioni.

Analoga alla sorte di Jovine, quella di Federico De Roberto. I
Viceré sono stati inizialmente segnati dalla sostanziale
disattenzione e incomprensione che li accompagnò, più
o meno, fino a metà Novecento, diventando uno dei casi più
incontrovertibili di ricezione ritardata, con recupero a fine secolo,
in occasione del centenario del romanzo, riconosciuto alla fine
come uno dei capolavori della nostra narrativa, facendo ritrovare
in sé e per sé un testo rimasto assurdamente estraneo
al nostro orizzonte medio di cultura letteraria.
Se ciò è vero, può essere opportuno riflettere
sul perché di questo destino, cercando di mettere
in luce i caratteri costitutivi del romanzo che possono in vari
modi averlo determinato. Ricordiamo, intanto, che in questo caso
non si può ricorrere al solito capro espiatorio, Benedetto
Croce, lavversario dufficio della «più
recente letteratura», dal momento che lirrimediabile,
lapidario no crociano è stato molto tardo (è
nel VI volume della Letteratura della nuova Italia). Questo no,
pertanto, non è stato un agente della sfortuna del romanzo,
ma, semmai, una testimonianza preziosa del rifiuto, più o
meno esplicito, che segna I Viceré fin dalla nascita. E a
questo punto, volendo, potremmo allineare tutti i nomi di coloro
i quali, con il silenzio o con le parole, avevano preceduto il verdetto
crociano.
La riabilitazione, infine. Fino allesemplare giudizio di Leonardo
Sciascia in occasione del cinquantenario della morte di De Roberto,
nel 1977: «Dopo i Promessi Sposi, il più grande romanzo
che conta la letteratura italiana. Ma chi se ne è accorto,
a suo tempo? Chi se ne accorge, oggi?». Si potrebbe partire
dalla sconsolata ragione di queste domande per cercare di esplorare
un po più di quellombra che da sempre accompagna
I Viceré, condizionandone appunto il singolare destino. Certo,
se si ripercorre la migliore critica derobertiana non mancano davvero
le messe a fuoco del negativo intrinseco allopera,
al quale si riconducono le perplessità e i dinieghi più
vari: l Antirisorgimento, ad esempio, che innegabilmente
la contrassegna, dal momento che il romanzo intende narrare un fallimento
etico-politico. Ma è fin troppo facile obiettare che allora
il romanzo avrebbe dovuto essere tra i primi beneficiari dellormai
istituzionalizzato processo al Risorgimento. E invece
Altrettanto si può dire a proposito dellacquisito smascheramento
del vero genere a cui il romanzo appartiene: non è
un romanzo storico, a dispetto del trentennio, o giù di lì,
di storia siciliana e italiana post-unitaria con cui i vari Viceré
Uzeda fanno i conti e gli affari, dal momento che la Storia per
costoro è come se non ci fosse, visto che non pagano mai
lo scotto. Pur essendo la spietata storia di uneredità,
non è altresì un romanzo naturalistico. Ma da tutte
queste acquisizioni, canoniche ormai, forse non si giunge ancora
a individuare che cosa, prima di tutto il resto, I Viceré
sono, qual è il cuore della loro disperata negazione che
li ha resi così oggettivamente ingrati a lettori tanto differenti
e persino antitetici. Potremo anche sbagliarci, ma a noi sembra,
sollecitati proprio dal giudizio di Sciascia, che I Viceré
siano di sicuro il nostro maggior romanzo contro i Promessi
Sposi, dei quali rappresentano il più radicale capovolgimento,
allinsegna di un sofferto leopardiano sarcasmo.
Basterebbe forse soltanto pensare alla blasfema serialità
delle conversioni, vero leitmotiv del capolavoro di
De Roberto. Si deve dare per scontata ogni possibile esemplificazione,
ovviamente, ma al solo fine di osservare che se è vero, comè
vero, che il romanzo manzoniano è la più rappresentativa
opera della nostra moderna civiltà letteraria, la sua confutazione,
per dir così, non poteva non colpire assai a fondo.
Se vogliamo, ci sono stati altri clamorosi esempi di emarginazione
in tempi a noi più vicini. Vittorini (e non soltanto lui)
respinse Il Gattopardo perché Tomasi di Lampedusa rifiutò
di togliere la frase che, in nome dellaristocratico cinismo
e del secolare trasformismo meridionale, specificava che perché
tutto rimanesse come prima era necessario che tutto cambiasse. Ci
volle lintuizione di Bassani per tirar via da un polveroso
scaffale della Feltrinelli il dattiloscritto lampedusiano e per
darlo alle stampe, postumo. Così come a Sciascia si rimproverò
daver narrato di una mafia fuori corso, nel Giorno della civetta,
perché ormai evoluta oltre lambito rurale e approdata
in quello speculativo edilizio e finanziario. Ignorando che il nocciolo
del discorso era tutto incentrato proprio su quellevoluzione,
esplicitata nella riflessione secondo cui se muore una mafia in
vernacolo vuol dire che ne è già nata unaltra
in lingua. Del resto, non si ventilò lipotesi di elucubrazioni
al limite dellesoterismo per lo sciasciano Todo Modo, incentrato
(con ipotesi tuttaltro che peregrine) sul tragico caso Moro?
Domanda dobbligo: la scrittura conosce geografie? Un indiscusso
maestro, Carlo Dionisotti, un quarto di secolo fa dimostrò
come potesse essere proficuo il rapporto fra geografia e storia
nella letteratura italiana. Il discorso era necessario per chiarire
in qualche modo che cosa fosse la letteratura italiana in un contesto
pre-unitario, tra fratture, sbalzi, accostamenti. Per quella post-unitaria,
un tentativo di definizione avrà probabilmente bisogno di
un supplemento di riflessione e, ovviamente, di alcune argomentazioni.
Possiamo, senza almeno qualche dubbio, definire meridionale tutta
la letteratura dellex Regno di Napoli o delle Due Sicilie?
E sufficiente il riscontro anagrafico che certifichi la nascita
di un autore a sud del Tronto e del Garigliano per far valere la
definizione?
Sembra che non siano sufficienti luna e laltra cosa.
Sebbene intrisa di contesti lombardi, ad esempio, lesperienza
di un Mastronardi lascia filtrare non pochi elementi di meridionalità
(e non soltanto nel Meridionale di Vigevano). E, di riscontro, non
faremmo un buon servizio a Pirandello parlando e scrivendo troppo
largamente della sua sicilianità. Diciamo allora, come prima
definizione, che quella della letteratura meridionale è faccenda
che si fa paragrafo allinterno del libro perpetuo della questione
meridionale.
Eppure, messa così, la cosa rischia di sbilanciarsi piuttosto
verso una storia dei contenuti, emarginando la sintassi delle forme.
E invece si tratta di vedere la consistenza di un contributo alla
cultura stilistica della nostra letteratura da parte di un proprio
versante, che non è frammento o scheggia impazzita, ma un
propileo necessario quanto tutti gli altri.
Dunque: la cosiddetta letteratura meridionale ha una propria, o
diverse proprie cifre di stile? Da De Roberto ad Alvaro, da Jovine
a Rea, in realtà essa sembra sottrarsi a se stessa, per meglio
definire se stessa. Osservava Alvaro in un appunto per la stesura
di Mastrangelina: «Scopo del libro: che cosa è un uomo,
e un meridionale, di fronte alla donna». Tema che, in quello
stesso giro di anni, per vie diverse ma sotto sotto convergenti,
ossessionava anche Brancati. Tutti e tre i termini (luomo,
il meridionale, la donna) coincidono in quello che potremmo definire
come lumanesimo assoluto che caratterizza la letteratura meridionale.
Un umanesimo decisivo per un altro versante: precisamente per il
conflitto che fa nascere tra lumanità, che andrebbe
intesa in termini integrati, riferentisi a se stessi, e il contenuto,
quale che sia. Decisiva ed esemplare, in questo contesto, proprio
quanto a meridionalità, la lezione di Sciascia.
Lambientazione sarà quella urbana oppure quella rurale,
dapprima (Loro di Napoli marottiano, incline ad un umoristico
quanto dolente bozzettismo, o il verismo lirico fra storia molisana
e mito di Jovine); ma contesto è anche essere improvvisamente
scaraventati in una patria per tanti aspetti adottiva. In questo
senso non cessa di essere emblematica la meditazione di Tomasi di
Lampedusa: il Gattopardo, oltre a tutto il resto, è conflitto
di uomini con se medesimi, con i ruoli che ricoprono. Ed è
anche conflitto di paesaggi che mutano, che si adattano ad altro;
o di paesaggi che scrutano, quando sono o sembrano immutabili, un
futuro di effimera durata che ritornerà sui propri passi.
Questa letteratura meridionale dovrà sottrarsi al proprio
paesaggio tramite lo stile? E stato scritto che più
si va a Sud, più lo stile, venendo anche ad anni a noi vicini,
sembra assomigliare ad una sorta di barocco prosciugato, che richiama
molto lo scheletro di quelle che furono le vere e proprie fattezze
carnali. Un barocco pessimistico (funebre, lo si è
voluto definire), del quale non è stato immune neanche la
Conversazione vittoriniana. Un barocco il cui esempio più
evidente è nelle pagine di Bufalino: e non soltanto quelle
per le quali lesemplificazione sarebbe evidente (nelle descrizioni,
pur se non esclusivamente), ma anche quelle nelle quali il ragionamento
serrato, nel nome di una logica vagamente capziosa e forse proprio
per questo più accattivante, diventa scheletro del sillogismo,
dellarguzia, (o, per converso, il procedimento può
essere quello dello scioglimento, dellallontanamento della
prospettiva barocca, ma non da quella scettica, o pessimistica
funebre come nelle pagine dellArmonia perduta
di La Capria).
A questo clima di linguaggio non si sottraggono i visitatori del
Sud, visto che anche il ragionamento finisce per essere di comune
sentire rispetto alloggetto dindagine. Per concludere:
non sembra che lo spirito della cosiddetta letteratura meridionale
possa restringersi, limitarsi a un dato più o meno evidente
di regionalismo; al contrario, diventa alla fine sottrazione della
scrittura da quel regionalismo, per osmosi in un destino più
ampio, allinterno del quale un sentire tramite il Sud è
solo uno dei caratteri del sentire, in genere, almeno: un punto
di presa, un innesto magnetico, nello stesso tempo in
entrata e in uscita, che dà modo di riconoscere la presenza,
nellalbero, del lontano, nobile seme.
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