Giugno 2003

L’ALTRA STORIA

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Verso il Catai
prima di Marco Polo
Ada Provenzano - Carmen Valentini
 
 

Altri ancora, mezzo secolo prima di lui, avevano descritto la geografia, i popoli,
i costumi,
le religioni, il clima, le produzioni
dell’Asia centrale.

 

Il luogo è Zhelaizhai, ai confini del deserto del Gobi, a metà strada tra il territorio del Tibet e quello di Pechino. In questa terra, frustata da un vento glaciale, a volte qualcuno sogna l’Italia: «Mi piacerebbe vedere se i Romani mi somigliano». Naso diritto e affilato, occhi castani, capelli chiari e a volte ricci, sopracciglia folte e statura alta contraddistinguono quelli che gli altri definiscono “europei”: nei villaggi del distretto di Yongchang, nella provincia di Gansu, sono alcune centinaia quelli che presentano tratti somatici stranieri, anche se le carte di identità dichiarano la loro appartenenza all’etnia han, cioè cinese. Ma sembra certo che si tratti piuttosto di “cinesizzati” da tempo, se è vero che questi cinesi non proprio come gli altri discendono dai legionari romani venuti qui, a settemila chilometri da Roma, duemila anni fa. L’area montana di Quinlan domina il corridoio di Hexi, antico passaggio strategico sulla Via della Seta. Dal 1994 un bizzarro padiglione con colonne doriche ospita un cippo commemorativo. Perché un tempo, dicono, in questo estremo lembo, allora chiamato Liqian, c’era una legione romana.

Fu Homer Hasenpflug Dubs, sinologo americano, a proporre per primo, nel 1955, quest’ipotesi basata sugli scritti di Plutarco, di Plinio e sul libro degli Han dell’Est (dinastia cinese, 25-220 d.C.). Secondo Dubs, nel 53 a.C. Marco Licinio Crasso, triunviro con Cesare e Pompeo, inizia una campagna contro i Parti con 42.000 uomini. Crasso è ucciso a Carre, nell’odierna Turchia, e una parte delle sue truppe, cadute nelle mani del nemico, viene inviata in Asia centrale (nell’odierno Turkmenistan) per combattere gli antenati degli Unni. Poi se ne perdono le tracce. Nel 36 a.C. un esercito cinese riesce per proprio conto a conquistare la capitale degli Unni, (oggi Tahkent, in Uzbekistan), e ne fa decapitare il capo, che minacciava da anni il fianco ovest dell’Impero di Mezzo.
Fonti cinesi dell’epoca descrivono fortificazioni e formazioni di battaglia conosciute all’epoca solo dai Romani. I cinesi accettano la resa di un migliaio di combattenti e ne portano con sé 145, in stato di cattività. Dubs sostiene, insieme con lo storico cinese Guan Yiquan e con il ricercatore australiano David Harris, che si tratta dei resti della legione perduta di Crasso. Del resto, il luogo del cippo commemorativo, Liqian, si pronuncia “ligian”, e si tratterebbe della trascrizione fonetica del termine latino “legio”, legione.
Com’è noto, la legione al tempo del triumvirato includeva mercenari greci comandati da centurioni romani. Nel 1999 alcuni genetisti pechinesi hanno analizzato il sangue di 2.000 persone dell’area: il 46 per cento dei test ha rivelato legami genetici con gli europei. Duemila anni fa, allora, il “favoloso Catai” non era sconosciuto. Come non lo era, per gli estremo-asiatici, l’Europa. Prima che Marco Polo si recasse in Cina, un mongolo, ambasciatore del Khan tartaro, era venuto dalle nostre parti, come dimostra il resoconto del viaggio di Mar Yahballaha tratto da un testo siriaco del XIV secolo.

Ci racconta la storia: Marco Polo (1254-1324) fu mercante e viaggiatore. Si recò in Asia (1271) col padre Niccolò e con lo zio Matteo, giungendo (1275) per via terrestre in Cina. A Khambalik (odierna Pechino) fu ospite dell’imperatore Kubilay Khan, che lo incaricò anche di missioni diplomatiche in Tibet, in Birmania, nello Yunnan, e in altri Paesi dell’area. Tornato a Venezia (1295), fu catturato in battaglia dai Genovesi (1296 o 1298); in carcere dettò a Rustichello da Pisa il racconto dei suoi viaggi, che dall’originale stesura in francese fu poi tradotto e intitolato il Milione (da “Emilione”, appellativo della famiglia Polo). Liberato (1299), visse poi sempre nella città di Venezia.
Dunque, un viaggio avventuroso, intrapreso da esponenti di una famiglia di mercanti, che per primi (come lascia credere la tradizione storica) sarebbero giunti nelle ultime regioni dell’Asia, percorrendo quasi per intero un itinerario terrestre, che traversava territori sconosciuti, toccava città leggendarie, solcava luoghi misteriosi, abitati da uomini e animali fuori dell’ordinario, meravigliosi e mostruosi a un tempo, poi descritti nel testo di Polo.
In realtà, ci furono dei precursori. I quali lasciarono testimonianze scritte assai prima della comparsa del Milione, a dimostrazione che quella parte del continente asiatico era tutt’altro che ignota agli occidentali. I nomi di alcuni “minori”, intanto, e delle loro opere. Il più antico dei libri è quello di Cosma Indicopleuste, mercante di Alessandria, che nel VI secolo si era spinto fino all’India e a Taprobana (Ceylon), abituale scalo di chi commerciava con le città costiere della Cina. Ammiratore del buddismo, già fiorente all’epoca, al suo ritorno si fece monaco e cominciò a scrivere molte opere: ci è rimasta la sola Topografia cristiana dell’Universo, ispirata alla dottrina dei Padri della Chiesa, nella quale fra le altre fantasticherie sistema il Paradiso Terrestre in un punto indefinito dell’ “Oceano Orientale”. Comunque, fu il primo a citare la parola “Sina” come del paese dal quale proveniva la seta.
Nel VII secolo il francese Arculphe e nell’VIII l’inglese Willibald raggiunsero la Palestina, entrambi pellegrini, (il secondo fu poi canonizzato), raccogliendo notizie su luoghi più lontani, che comunque non conobbero mai. Nel XII secolo Beniamino di Tudela, centro della Navarra spagnola, cercando per quattordici anni in Europa e in Asia gli ebrei dispersi e le loro sinagoghe, raggiunse la Persia e l’India, informandosi su ciò che c’era e che accadeva più in là, e dando per primo il vero nome della Cina, a quel tempo chiamata Tzin. Poi, il monaco armeno Hayton, parente del re di quel Paese, dettò in francese a Nicolas de Salcon, in un convento di Poitiers, una relazione che il trascrittore presentò, traslata in latino, a papa Clemente V nel 1307. Vi si narravano vicende svoltesi tra il 1285 e il 1290, cioè alla fine del soggiorno di Polo in Catai; nel primo capitolo si notano troppi echi dell’opera del veneziano, segno che Hayton, da abile uomo di lettere, aveva deciso di approfittare del successo altrui. Citiamo poi il libro di Simon de Saint-Quentin, cui Vincent de Beauvais dedica diciannove capitoli del suo Speculum: si tratta di un’ambasciata inviata da Innocenzo IV al generale mongolo Bachu presente in Persia, Paese che Simon non oltrepassò. Inoltre, ricordiamo Ricold di Montecroce, francescano di Firenze, primo arcivescovo di Khan-Baligh, cioè di Pechino; e infine il francescano Giovanni da Montecorvino, inviato in Cina sin dal 1293 da papa Nicola IV, e il suo suffraganeo Andrea da Perugia, divenuto vescovo di Chiuan-cheu.
Deduciamo che da tempo, e fino al 1310, migliaia di persone in Europa erano al corrente delle cose della Cina. Nessuna di loro, tranne forse i mercanti, aveva un qualsiasi motivo per nascondere quel che sapeva di quel remoto Paese. Eppure, i geografi continuavano a ignorarlo. L’Asia centrale e orientale, conosciuta da tanta gente, era un mistero soltanto per i sapienti!

Il manoscritto dei Due maomettani è un esemplare unico al mondo, posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, pubblicato nel 1811 e poi nel 1845, con una traduzione in francese, con note geografiche e con un’introduzione di grandissimo interesse dedicata alle relazioni degli Arabi e dei Persiani con l’India e con la Cina. Il manoscritto non è la trascrizione originale dell’opera dei due maomettani, ma una copia fatta nel 1199 di un manoscritto più antico, in quanto l’opera risale all’851. Autori, il mercante Solimano, che aveva realmente fatto il viaggio o i viaggi in India e nel Catai, e Abu-Zeid, erudito curioso che, vari anni dopo la pubblicazione del libro di Solimano, decise di completarlo grazie alle informazioni più o meno valide, e più o meno fantastiche, che gli avevano procurato le sue letture e anche le informazioni raccolte tra i mercanti e i marinai di Syraf, (sulla costa settentrionale del Golfo Persico), città che certamente non aveva mai lasciato. Dunque, l’opera si compone di due parti ben distinte, e separate nel manoscritto, di cui soltanto la prima è un documento diretto.

L’opera di Solimano è redatta da un mercante per l’utilità dei mercanti, senza alcuna pretesa letteraria: un manuale, una guida ad uso dei colleghi in affari. Indica le strade da seguire, i porti di scalo, il numero dei giorni di ogni traversata, le distanze tra città e città, e informa sugli abitanti e sui costumi dei Paesi da percorrere, sui mercati da raggiungere, sui prodotti d’importazione e d’esportazione, sulle monete e sul corso del cambio, sui salvacondotti o passaporti interni, sui tribunali cui debbono rivolgersi gli stranieri, sui rapporti con le donne, insomma su tutto ciò che può concretamente interessare un commerciante in viaggio. Non si attarda in giudizi o in pregiudizi, in lodi o in biasimi: espone i fatti senza commenti, fornendoci le informazioni più preziose e più autentiche sull’India e soprattutto sulla Cina del IX secolo, notizie la cui esattezza non può essere contestata, dal momento che sono conformi a tutto ciò che si è riusciti a sapere (e a verificare) in seguito su quei Paesi quasi immutabili, nei quali le abitudini e i costumi si sono mantenuti fino al XIX secolo, cioè fino all’intervento degli Stati europei negli affari dell’Oriente Estremo. Fra l’altro, vi è poca e a volte nessuna differenza tra ciò che dice Solimano e ciò che ci descrivono nelle loro “Lettere edificanti” i missionari del 1800.
Abu-Zeid (e più precisamente Abu-Zeid al-Hassan) ha certamente contribuito a sviluppare alcuni argomenti trattati da Solimano (le cause della crisi dei rapporti tra Arabi e Cinesi, dopo le rivolte in alcune regioni del Catai, i costumi sessuali, l’antropofagia, ecc.), ma ha raccolto anche narrazioni degne delle Mille e una notte, di pura fantasia, di splendida inventiva, con bellissimi “pezzi” con i quali ha ornato il suo libro, ma anche con deformazioni diventate un principio illusorio di comunicazione, come lo era ai tempi del Vasari quello dell’imitazione perfetta della natura.

Secondo precursore di Marco Polo fu un frate minore, coraggioso missionario, Giovanni da Pian del Carpine, probabilmente nato lo stesso anno del suo maestro, Francesco d’Assisi, nel 1182, o negli anni immediatamente prossimi. Era originario di un borgo presso Perugia, sulle rive del lago Trasimeno, che allora si chiamava Pian di (o del) Carpine, e che oggi porta il nome di Magione.
E’ certo che fu tra i primi discepoli dell’Assisiate, sebbene il suo nome non figuri in nessuna delle opere dedicate ai compagni del Poverello. Tuttavia, dal 1221, venne designato predicatore e custode dell’Ordine in varie terre germaniche, in Spagna, in Boemia, in Polonia, in Russia, a Tunisi. Fino a che Innocenzo IV lo inviò a negoziare la pace cristiana con il Khan mongolo, in uno dei momenti più difficili e complessi della storia continentale.
L’Europa, intorno al 1241, era in preda al più violento conflitto tra due potenze che si contendevano il predominio temporale e spirituale: il Sovrano Pontefice e l’Imperatore germanico. Dopo una lunga lotta in cui si erano affrontati i papi Gregorio VII, Urbano II, Innocenzo III e gli imperatori Enrico IV e Federico Barbarossa, la Chiesa sembrava aver trionfato. Ma lo scontro era ripreso ben presto con Gregorio IX, quindi Innocenzo IV, e l’imperatore Federico II, gli uni e l’altro trascinando sul campo le fazioni italiane. Innocenzo IV, inseguito dal suo implacabile nemico, era stato costretto a rifugiarsi in Francia, dove la pietà di San Luigi lo aveva accolto. La corte pontificia, dunque, si trovava a Lione.
A nord-est dell’Europa, i Cavalieri dell’Ordine Teutonico guerreggiavano al fianco del duca di Polonia per imporre la fede ai Prussiani, ancora idolatri. A sud-ovest, i castigliani continuavano a respingere verso l’Africa gli invasori musulmani. Infine, il fior fiore della cavalleria europea era impegnato nelle crociate per la conquista dei Luoghi Santi di Palestina, e lungo la strada aveva installato una dinastia franca sul trono di Costantinopoli. Di tutti questi contrasti, Giovanni da Pian del Carpine parlerà nel suo libro, dopo essersi guardato bene dal rivelarli al Khan mongolo, «per tema che non si rendesse troppo conto della nostra debolezza». Su quest’Europa sfinita da guerre e da lotte fratricide, infatti, si era abbattuta la più tremenda marea barbara da essa conosciuta dopo le invasioni degli Unni e dei Vandali, quella dei Mongoli (Moali o Mongali), i famosi “Tartari” di Gengis Khan, che in realtà si chiamava Chinggis Khan. Costui aveva conquistato la Cina del Nord e i territori russi meridionali, fino al Mar d’Azov e al Mar Nero. Alla sua morte, il terzo dei suoi figli, conquistati il resto della Cina e la Persia, si era rivolto contro l’Europa. Era il 1236 quando un esercito di 600.000 uomini distrusse sistematicamente tutte le città della Russia centro-settentrionale, saccheggiò da cima a fondo la Polonia, schiacciò le forze polacche e teutoniche, e mise a ferro e a fuoco l’Ungheria, facendo giungere le sue avanguardie fino in Dalmazia.
A questo punto, Innocenzo IV decise di inviare ambascerie presso il Khan. Una, formata esclusivamente di domenicani, giunta in Persia, formulò proposte di pace, con l’abbandono dell’idolatria e con la conversione alla fede cristiana; si ebbe, in risposta, l’ingiunzione al papa di recarsi dal Khan, di prostrarsi di fronte a lui, e di fare atto di sottomissione. L’altra, formata da francescani, percorse la Grecia, l’Asia Minore, l’Armenia e la Babilonia o Persia del Nord, senza andare oltre, e senza ottenere alcun risultato positivo. Il terzo gruppo era composto da soli tre francescani: Giovanni da Pian del Carpine, che li comandava, Stefano di Boemia, che per lo stato di salute dovette poi rinunciare al viaggio, e Benedetto di Polonia, che fungeva da interprete nei diversi contatti con i Tartari.
Giovanni aveva 63 anni, era fisicamente robusto, addirittura pesante, tant’è che era costretto a spostarsi a dorso di un asino. Tuttavia, affrontò con coraggio stanchezza, freddo, fame, sete, vessazioni d’ogni genere; traversò steppe, oltrepassò montagne, guadò fiumi giganteschi. Ma condusse a termine la missione, portando fino in fondo alla Mongolia, attraverso il deserto del Gobi, la parola evangelica, nello stesso tempo raccogliendo una massa enorme di informazioni sull’origine e la genealogia dei Gengiskhanidi, sull’organizzazione dell’Impero, sulla costituzione dell’esercito, sul suo armamento e le sue tattiche belliche, e simultaneamente sui costumi, sugli usi, sulle religioni, sull’abbigliamento, sul nutrimento, ecc., delle innumerevoli tribù nomadi mongole. Questa massa di notizie sull’Asia Centrale avrebbe contribuito a rinnovare completamente la geografia del continente, se gli specialisti si fossero dati pena di leggere la sua relazione e di coglierne l’importanza.
La lettera di risposta del capo dei Tartari, Guyuk Khan, al papa è riferita da Benedetto di Polonia. Vi si legge, fra l’altro: «Se desiderate avere la pace con noi, bisogna che tu, Papa, i vostri imperatori, tutti i vostri re, tutti i potentati delle città e i governatori dei paesi, non differiate in alcun modo di venire da me per espormi la vostra pace e udire al tempo stesso la nostra risposta e la nostra volontà… Ti stupisci del massacro degli uomini, e soprattutto dei cristiani ungheresi, polacchi e moravi… E’ accaduto perché non hanno obbedito agli ordini del nostro Dio e di Gengis Khan. Noi adoriamo Dio, e grazie alla sua potenza distruggeremo tutta la terra, dall’Oriente all’Occidente. Se l’uomo non fosse la forza di Dio, che cosa potrebbero fare gli uomini?».
Tutta concreta, la relazione di Giovanni da Pian del Carpine non si lascia andare a fantasticherie. E non sono frutto di inventiva neanche le informazioni che ci dà su una figura ritenuta, a torto, leggendaria: quella del Prete Gianni, un principe di religione nestoriana, la cui dinastia regnò per circa un secolo in quella che si chiamava, in maniera piuttosto imprecisa, l’India Maggiore e Superiore, verso l’Alto Indo.

L’attività diplomatica del mondo cristiano, di fronte alla minaccia che veniva dall’Est, non conobbe tregue. Una missione partì e raggiunse la corte dei Tartari alla fine del 1247. Non se ne conosce l’esito. L’anno successivo, mentre era a Cipro, in attesa di raggiungere la Siria, Luigi IX re di Francia – San Luigi – fu raggiunto da un gruppo di ambasciatori mongoli, guidati da un tal Sabaldin Mufat David, del quale ci sono ignote nazionalità e razza. Costui portava una missiva del re tartaro, nella quale si affermava che questi si era fatto battezzare da tre anni, si stava battendo per la cristianizzazione di tutte le genti del suo impero, e voleva stringere alleanza con il monarca santo, al fine di portare a termine quest’opera missionaria.
Luigi inviò una missione franco-tartara, guidata dal David e dal poliglotta frate André, ben fornita di denaro e di ricchissimi doni e reliquie. Era il 1250 o il 1251, quando la missione mosse, non è dato sapere attraverso quali terre. Si appurò solo che il David scomparve dalla circolazione, insieme con i soldi e i regali, e si ipotizzò che padre André si fosse perduto nelle steppe dell’Asia centrale care a Borodin, oppure, senz’altro ingannato anche lui, si fosse pudicamente rinchiuso fino alla morte in un qualche convento dell’area cristiana. A meno che non fosse rimasto vittima del tradimento perpetrato dal compagno di viaggio.
Questa disavventura non distolse dal progetto di riprendere i contatti con il nuovo Khan tartaro. Compito cui venne destinato frate Guglielmo, nativo di Rubruk, personaggio che sembrava essere il rovescio della medaglia di Giovanni da Pian del Carpine. Non sappiamo nulla della sua attività precedente e seguente, né delle sue origini, e neanche della sua nazionalità. Forse si trattava di un fiammingo con forti ascendenze sassoni, vissuto a Parigi e forse anche altrove, in Francia, Paese di cui era fieramente innamorato. Sappiamo che era spirito polemico, affabulatore torrentizio, ben disposto alla buona tavola, gran bevitore. Fisicamente imponente, doveva avere trenta o quarant’anni quando partì da San Giovanni d’Acri e, forse dopo alcune tappe intermedie, giunse a Costantinopoli, metropoli dalla quale ebbe inizio il suo viaggio verso la Cina.

La relazione di Guglielmo è anch’essa specchio capovolto di quella di Giovanni da Pian: quanto questi si cela in un’umiltà che procede dall’esempio di San Francesco, tanto l’altro si produce al centro della scena, col brio e la facondia di un grande attore. Giovanni compie la sua inchiesta con discrezione, presentandoci molte notizie sui Tartari. Guglielmo ci informa soprattutto sui suoi confronti con i potenti, sui suoi diverbi con la pretaglia locale, e ci rende edotti, alla fine, su poche cose riguardanti l’universo mongolo. In compenso, è grandissimo descrittore di paesaggi e terre, con un gusto narrativo eccellente, da autentico globe trotter, che ci offre un affresco vivo e intrigante dei suoi itinerari. Sicché la sua relazione rimane ancora oggi uno dei più bei libri di viaggio che ci siano stati dati dalla cultura medioevale. Vi sono poche pagine del genere che ci offrano capitoli paragonabili a quelli che Guglielmo dedica al suo lungo soggiorno alla corte del Khan Mangu. La sua descrizione della reggia, e delle migliaia di tende e di carri che la circondavano, i suoi colloqui con l’imperatore al tempo stesso scettico e superstizioso, ma di incontestabile levatura filosofica – era già per metà cinese – , le sue liti con il monaco Sergio, una sorta di Rasputin furbo e anch’esso beone, la sua controversia in una specie di gara teologica, certo organizzata dal Khan per il proprio piacere, sono pagine indimenticabili. Una disputa di quel genere, tra preti e bonzi di quattro o cinque religioni, produce nello spettatore una sana e benefica ilarità. Non si argomenta sulla fede: attori protagonisti di una commedia dell’arte ante litteram, parlano – ciascuno – del proprio credo e di sé, dinanzi alla totale sordità degli altri. Finché il dibattito si conclude ragionevolmente: «Essendo tutto terminato, i nestoriani e i saraceni cantarono insieme a voce alta, e dopo di ciò tutti bevvero copiosamente». Il Rabelais di Gargantua e Pantagruel è anticipato di un bel po’ di secoli.

Leggendo le opere dei geografi occidentali del Medioevo e studiando le carte e i mappamondi che ci hanno lasciato, possiamo osservare che la più gran parte dell’India e la quasi totalità della Cina e dell’Asia del Nord erano a costoro del tutto sconosciute: formavano una sorta di immensa regione inesplorata, per gli uni deserta, per gli altri abitata da enormi leoni e da cannibali all’ultimo stadio della civiltà. Nessuno dei mappamondi, dal VII al XIII secolo, dà la minima idea di ciò che potevano essere le immense regioni che si stendono, verso oriente, al di là del Gange, dell’Himalaya, del Pamir e degli Urali. Al loro posto, se per caso il tracciato giungeva fin lì, figurano spesso le indicazioni “Terra incognita”, “Terra deserta”, “Terra arenosa”, o anche la comoda formula “Barbari”. Il paese leggendario di Gog e Magog si sposta invece da un capo all’altro del continente asiatico, ed è ipotizzato nel suo estremo limite orientale come una penisola o persino come un’isola rotonda, circondata da raggi e da stelle, il Paradiso terrestre “noster olim”, come indica malinconicamente la carta di Lambertus, del XII secolo. In realtà, nessuno dei disegnatori del globo terrestre, nel corso di sette lunghi secoli, poteva immaginare ciò che contenevano i tre quarti dell’Asia, e ancor meno che uno di quei tre quarti fosse occupato dalla più alta civiltà del tempo, quella delle dinastie cinesi dei Tang e dei Song.
Il Milione di Marco Polo, dunque, apparve ai lettori del principio del XIV secolo come la sensazionale scoperta di quel continente misterioso. Fu rivelata bruscamente, così, l’esistenza di una grandissima nazione, la Cina degli Yuan mongoli, o tartari, eredi, per conquiste, dei diciotto imperatori Song. Il mercante veneziano e Rustichello da Pisa trassero dalle brume lontane un Paese potentemente organizzato, i cui innumerevoli eserciti erano gli stessi che, durante il XIII secolo, erano giunti fino alle rive del Danubio e dell’Adriatico.
Non è dunque vero che Polo sia stato il primo a percorrere Asia centrale e Cina, anche se ciò nulla toglie alle sue qualità di osservatore e di narratore. Altri, molto prima di lui, e sin dal IX secolo, ci avevano informato sul Catai; e altri ancora, mezzo secolo prima di lui, avevano descritto la geografia, i popoli, i costumi, le religioni, il clima, le produzioni dell’Asia centrale, come abbiamo sinteticamente documentato. E prima di Polo e di tutti i suoi precursori, le piste erano state calpestate da migliaia di carovane greche, romane, bizantine, e poi genovesi, veneziane, da migliaia di sacerdoti cristiani, nestoriani ed ebrei, (e in senso inverso da monaci buddisti). Marco Polo ha avuto il pregio di ricordare di più e meglio, di affidarsi alla penna smagliante di Rustichello: e ciò lo ha differenziato dalla stragrande maggioranza di coloro i quali lo precedettero. Restando, al tempo stesso, come mercante vocato all’avventura in terre remote, nel novero di quella forte specie che ci ha dato i veri scopritori del mondo.

   
   
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