Altri ancora, mezzo secolo prima di lui, avevano
descritto la geografia, i popoli,
i costumi,
le religioni, il clima, le produzioni
dellAsia centrale.
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Il luogo è Zhelaizhai, ai confini del deserto del Gobi,
a metà strada tra il territorio del Tibet e quello di Pechino.
In questa terra, frustata da un vento glaciale, a volte qualcuno
sogna lItalia: «Mi piacerebbe vedere se i Romani mi
somigliano». Naso diritto e affilato, occhi castani, capelli
chiari e a volte ricci, sopracciglia folte e statura alta contraddistinguono
quelli che gli altri definiscono europei: nei villaggi
del distretto di Yongchang, nella provincia di Gansu, sono alcune
centinaia quelli che presentano tratti somatici stranieri, anche
se le carte di identità dichiarano la loro appartenenza alletnia
han, cioè cinese. Ma sembra certo che si tratti piuttosto
di cinesizzati da tempo, se è vero che questi
cinesi non proprio come gli altri discendono dai legionari romani
venuti qui, a settemila chilometri da Roma, duemila anni fa. Larea
montana di Quinlan domina il corridoio di Hexi, antico passaggio
strategico sulla Via della Seta. Dal 1994 un bizzarro padiglione
con colonne doriche ospita un cippo commemorativo. Perché
un tempo, dicono, in questo estremo lembo, allora chiamato Liqian,
cera una legione romana.
Fu Homer Hasenpflug Dubs, sinologo americano, a proporre per primo,
nel 1955, questipotesi basata sugli scritti di Plutarco, di
Plinio e sul libro degli Han dellEst (dinastia cinese, 25-220
d.C.). Secondo Dubs, nel 53 a.C. Marco Licinio Crasso, triunviro
con Cesare e Pompeo, inizia una campagna contro i Parti con 42.000
uomini. Crasso è ucciso a Carre, nellodierna Turchia,
e una parte delle sue truppe, cadute nelle mani del nemico, viene
inviata in Asia centrale (nellodierno Turkmenistan) per combattere
gli antenati degli Unni. Poi se ne perdono le tracce. Nel 36 a.C.
un esercito cinese riesce per proprio conto a conquistare la capitale
degli Unni, (oggi Tahkent, in Uzbekistan), e ne fa decapitare il
capo, che minacciava da anni il fianco ovest dellImpero di
Mezzo.
Fonti cinesi dellepoca descrivono fortificazioni e formazioni
di battaglia conosciute allepoca solo dai Romani. I cinesi
accettano la resa di un migliaio di combattenti e ne portano con
sé 145, in stato di cattività. Dubs sostiene, insieme
con lo storico cinese Guan Yiquan e con il ricercatore australiano
David Harris, che si tratta dei resti della legione perduta di Crasso.
Del resto, il luogo del cippo commemorativo, Liqian, si pronuncia
ligian, e si tratterebbe della trascrizione fonetica
del termine latino legio, legione.
Comè noto, la legione al tempo del triumvirato includeva
mercenari greci comandati da centurioni romani. Nel 1999 alcuni
genetisti pechinesi hanno analizzato il sangue di 2.000 persone
dellarea: il 46 per cento dei test ha rivelato legami genetici
con gli europei. Duemila anni fa, allora, il favoloso Catai
non era sconosciuto. Come non lo era, per gli estremo-asiatici,
lEuropa. Prima che Marco Polo si recasse in Cina, un mongolo,
ambasciatore del Khan tartaro, era venuto dalle nostre parti, come
dimostra il resoconto del viaggio di Mar Yahballaha tratto da un
testo siriaco del XIV secolo.
Ci racconta la storia: Marco Polo (1254-1324) fu mercante e viaggiatore.
Si recò in Asia (1271) col padre Niccolò e con lo
zio Matteo, giungendo (1275) per via terrestre in Cina. A Khambalik
(odierna Pechino) fu ospite dellimperatore Kubilay Khan, che
lo incaricò anche di missioni diplomatiche in Tibet, in Birmania,
nello Yunnan, e in altri Paesi dellarea. Tornato a Venezia
(1295), fu catturato in battaglia dai Genovesi (1296 o 1298); in
carcere dettò a Rustichello da Pisa il racconto dei suoi
viaggi, che dalloriginale stesura in francese fu poi tradotto
e intitolato il Milione (da Emilione, appellativo della
famiglia Polo). Liberato (1299), visse poi sempre nella città
di Venezia.
Dunque, un viaggio avventuroso, intrapreso da esponenti di una famiglia
di mercanti, che per primi (come lascia credere la tradizione storica)
sarebbero giunti nelle ultime regioni dellAsia, percorrendo
quasi per intero un itinerario terrestre, che traversava territori
sconosciuti, toccava città leggendarie, solcava luoghi misteriosi,
abitati da uomini e animali fuori dellordinario, meravigliosi
e mostruosi a un tempo, poi descritti nel testo di Polo.
In realtà, ci furono dei precursori. I quali lasciarono testimonianze
scritte assai prima della comparsa del Milione, a dimostrazione
che quella parte del continente asiatico era tuttaltro che
ignota agli occidentali. I nomi di alcuni minori, intanto,
e delle loro opere. Il più antico dei libri è quello
di Cosma Indicopleuste, mercante di Alessandria, che nel VI secolo
si era spinto fino allIndia e a Taprobana (Ceylon), abituale
scalo di chi commerciava con le città costiere della Cina.
Ammiratore del buddismo, già fiorente allepoca, al
suo ritorno si fece monaco e cominciò a scrivere molte opere:
ci è rimasta la sola Topografia cristiana dellUniverso,
ispirata alla dottrina dei Padri della Chiesa, nella quale fra le
altre fantasticherie sistema il Paradiso Terrestre in un punto indefinito
dell Oceano Orientale. Comunque, fu il primo a
citare la parola Sina come del paese dal quale proveniva
la seta.
Nel VII secolo il francese Arculphe e nellVIII linglese
Willibald raggiunsero la Palestina, entrambi pellegrini, (il secondo
fu poi canonizzato), raccogliendo notizie su luoghi più lontani,
che comunque non conobbero mai. Nel XII secolo Beniamino di Tudela,
centro della Navarra spagnola, cercando per quattordici anni in
Europa e in Asia gli ebrei dispersi e le loro sinagoghe, raggiunse
la Persia e lIndia, informandosi su ciò che cera
e che accadeva più in là, e dando per primo il vero
nome della Cina, a quel tempo chiamata Tzin. Poi, il monaco armeno
Hayton, parente del re di quel Paese, dettò in francese a
Nicolas de Salcon, in un convento di Poitiers, una relazione che
il trascrittore presentò, traslata in latino, a papa Clemente
V nel 1307. Vi si narravano vicende svoltesi tra il 1285 e il 1290,
cioè alla fine del soggiorno di Polo in Catai; nel primo
capitolo si notano troppi echi dellopera del veneziano, segno
che Hayton, da abile uomo di lettere, aveva deciso di approfittare
del successo altrui. Citiamo poi il libro di Simon de Saint-Quentin,
cui Vincent de Beauvais dedica diciannove capitoli del suo Speculum:
si tratta di unambasciata inviata da Innocenzo IV al generale
mongolo Bachu presente in Persia, Paese che Simon non oltrepassò.
Inoltre, ricordiamo Ricold di Montecroce, francescano di Firenze,
primo arcivescovo di Khan-Baligh, cioè di Pechino; e infine
il francescano Giovanni da Montecorvino, inviato in Cina sin dal
1293 da papa Nicola IV, e il suo suffraganeo Andrea da Perugia,
divenuto vescovo di Chiuan-cheu.
Deduciamo che da tempo, e fino al 1310, migliaia di persone in Europa
erano al corrente delle cose della Cina. Nessuna di loro, tranne
forse i mercanti, aveva un qualsiasi motivo per nascondere quel
che sapeva di quel remoto Paese. Eppure, i geografi continuavano
a ignorarlo. LAsia centrale e orientale, conosciuta da tanta
gente, era un mistero soltanto per i sapienti!
Il manoscritto dei Due maomettani è un esemplare unico al
mondo, posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, pubblicato
nel 1811 e poi nel 1845, con una traduzione in francese, con note
geografiche e con unintroduzione di grandissimo interesse
dedicata alle relazioni degli Arabi e dei Persiani con lIndia
e con la Cina. Il manoscritto non è la trascrizione originale
dellopera dei due maomettani, ma una copia fatta nel 1199
di un manoscritto più antico, in quanto lopera risale
all851. Autori, il mercante Solimano, che aveva realmente
fatto il viaggio o i viaggi in India e nel Catai, e Abu-Zeid, erudito
curioso che, vari anni dopo la pubblicazione del libro di Solimano,
decise di completarlo grazie alle informazioni più o meno
valide, e più o meno fantastiche, che gli avevano procurato
le sue letture e anche le informazioni raccolte tra i mercanti e
i marinai di Syraf, (sulla costa settentrionale del Golfo Persico),
città che certamente non aveva mai lasciato. Dunque, lopera
si compone di due parti ben distinte, e separate nel manoscritto,
di cui soltanto la prima è un documento diretto.
Lopera di Solimano è redatta da un mercante per lutilità
dei mercanti, senza alcuna pretesa letteraria: un manuale, una guida
ad uso dei colleghi in affari. Indica le strade da seguire, i porti
di scalo, il numero dei giorni di ogni traversata, le distanze tra
città e città, e informa sugli abitanti e sui costumi
dei Paesi da percorrere, sui mercati da raggiungere, sui prodotti
dimportazione e desportazione, sulle monete e sul corso
del cambio, sui salvacondotti o passaporti interni, sui tribunali
cui debbono rivolgersi gli stranieri, sui rapporti con le donne,
insomma su tutto ciò che può concretamente interessare
un commerciante in viaggio. Non si attarda in giudizi o in pregiudizi,
in lodi o in biasimi: espone i fatti senza commenti, fornendoci
le informazioni più preziose e più autentiche sullIndia
e soprattutto sulla Cina del IX secolo, notizie la cui esattezza
non può essere contestata, dal momento che sono conformi
a tutto ciò che si è riusciti a sapere (e a verificare)
in seguito su quei Paesi quasi immutabili, nei quali le abitudini
e i costumi si sono mantenuti fino al XIX secolo, cioè fino
allintervento degli Stati europei negli affari dellOriente
Estremo. Fra laltro, vi è poca e a volte nessuna differenza
tra ciò che dice Solimano e ciò che ci descrivono
nelle loro Lettere edificanti i missionari del 1800.
Abu-Zeid (e più precisamente Abu-Zeid al-Hassan) ha certamente
contribuito a sviluppare alcuni argomenti trattati da Solimano (le
cause della crisi dei rapporti tra Arabi e Cinesi, dopo le rivolte
in alcune regioni del Catai, i costumi sessuali, lantropofagia,
ecc.), ma ha raccolto anche narrazioni degne delle Mille e una notte,
di pura fantasia, di splendida inventiva, con bellissimi pezzi
con i quali ha ornato il suo libro, ma anche con deformazioni diventate
un principio illusorio di comunicazione, come lo era ai tempi del
Vasari quello dellimitazione perfetta della natura.
Secondo precursore di Marco Polo fu un frate minore, coraggioso
missionario, Giovanni da Pian del Carpine, probabilmente nato lo
stesso anno del suo maestro, Francesco dAssisi, nel 1182,
o negli anni immediatamente prossimi. Era originario di un borgo
presso Perugia, sulle rive del lago Trasimeno, che allora si chiamava
Pian di (o del) Carpine, e che oggi porta il nome di Magione.
E certo che fu tra i primi discepoli dellAssisiate,
sebbene il suo nome non figuri in nessuna delle opere dedicate ai
compagni del Poverello. Tuttavia, dal 1221, venne designato predicatore
e custode dellOrdine in varie terre germaniche, in Spagna,
in Boemia, in Polonia, in Russia, a Tunisi. Fino a che Innocenzo
IV lo inviò a negoziare la pace cristiana con il Khan mongolo,
in uno dei momenti più difficili e complessi della storia
continentale.
LEuropa, intorno al 1241, era in preda al più violento
conflitto tra due potenze che si contendevano il predominio temporale
e spirituale: il Sovrano Pontefice e lImperatore germanico.
Dopo una lunga lotta in cui si erano affrontati i papi Gregorio
VII, Urbano II, Innocenzo III e gli imperatori Enrico IV e Federico
Barbarossa, la Chiesa sembrava aver trionfato. Ma lo scontro era
ripreso ben presto con Gregorio IX, quindi Innocenzo IV, e limperatore
Federico II, gli uni e laltro trascinando sul campo le fazioni
italiane. Innocenzo IV, inseguito dal suo implacabile nemico, era
stato costretto a rifugiarsi in Francia, dove la pietà di
San Luigi lo aveva accolto. La corte pontificia, dunque, si trovava
a Lione.
A nord-est dellEuropa, i Cavalieri dellOrdine Teutonico
guerreggiavano al fianco del duca di Polonia per imporre la fede
ai Prussiani, ancora idolatri. A sud-ovest, i castigliani continuavano
a respingere verso lAfrica gli invasori musulmani. Infine,
il fior fiore della cavalleria europea era impegnato nelle crociate
per la conquista dei Luoghi Santi di Palestina, e lungo la strada
aveva installato una dinastia franca sul trono di Costantinopoli.
Di tutti questi contrasti, Giovanni da Pian del Carpine parlerà
nel suo libro, dopo essersi guardato bene dal rivelarli al Khan
mongolo, «per tema che non si rendesse troppo conto della
nostra debolezza». Su questEuropa sfinita da guerre
e da lotte fratricide, infatti, si era abbattuta la più tremenda
marea barbara da essa conosciuta dopo le invasioni degli Unni e
dei Vandali, quella dei Mongoli (Moali o Mongali), i famosi Tartari
di Gengis Khan, che in realtà si chiamava Chinggis Khan.
Costui aveva conquistato la Cina del Nord e i territori russi meridionali,
fino al Mar dAzov e al Mar Nero. Alla sua morte, il terzo
dei suoi figli, conquistati il resto della Cina e la Persia, si
era rivolto contro lEuropa. Era il 1236 quando un esercito
di 600.000 uomini distrusse sistematicamente tutte le città
della Russia centro-settentrionale, saccheggiò da cima a
fondo la Polonia, schiacciò le forze polacche e teutoniche,
e mise a ferro e a fuoco lUngheria, facendo giungere le sue
avanguardie fino in Dalmazia.
A questo punto, Innocenzo IV decise di inviare ambascerie presso
il Khan. Una, formata esclusivamente di domenicani, giunta in Persia,
formulò proposte di pace, con labbandono dellidolatria
e con la conversione alla fede cristiana; si ebbe, in risposta,
lingiunzione al papa di recarsi dal Khan, di prostrarsi di
fronte a lui, e di fare atto di sottomissione. Laltra, formata
da francescani, percorse la Grecia, lAsia Minore, lArmenia
e la Babilonia o Persia del Nord, senza andare oltre, e senza ottenere
alcun risultato positivo. Il terzo gruppo era composto da soli tre
francescani: Giovanni da Pian del Carpine, che li comandava, Stefano
di Boemia, che per lo stato di salute dovette poi rinunciare al
viaggio, e Benedetto di Polonia, che fungeva da interprete nei diversi
contatti con i Tartari.
Giovanni aveva 63 anni, era fisicamente robusto, addirittura pesante,
tantè che era costretto a spostarsi a dorso di un asino.
Tuttavia, affrontò con coraggio stanchezza, freddo, fame,
sete, vessazioni dogni genere; traversò steppe, oltrepassò
montagne, guadò fiumi giganteschi. Ma condusse a termine
la missione, portando fino in fondo alla Mongolia, attraverso il
deserto del Gobi, la parola evangelica, nello stesso tempo raccogliendo
una massa enorme di informazioni sullorigine e la genealogia
dei Gengiskhanidi, sullorganizzazione dellImpero, sulla
costituzione dellesercito, sul suo armamento e le sue tattiche
belliche, e simultaneamente sui costumi, sugli usi, sulle religioni,
sullabbigliamento, sul nutrimento, ecc., delle innumerevoli
tribù nomadi mongole. Questa massa di notizie sullAsia
Centrale avrebbe contribuito a rinnovare completamente la geografia
del continente, se gli specialisti si fossero dati pena di leggere
la sua relazione e di coglierne limportanza.
La lettera di risposta del capo dei Tartari, Guyuk Khan, al papa
è riferita da Benedetto di Polonia. Vi si legge, fra laltro:
«Se desiderate avere la pace con noi, bisogna che tu, Papa,
i vostri imperatori, tutti i vostri re, tutti i potentati delle
città e i governatori dei paesi, non differiate in alcun
modo di venire da me per espormi la vostra pace e udire al tempo
stesso la nostra risposta e la nostra volontà
Ti stupisci
del massacro degli uomini, e soprattutto dei cristiani ungheresi,
polacchi e moravi
E accaduto perché non hanno
obbedito agli ordini del nostro Dio e di Gengis Khan. Noi adoriamo
Dio, e grazie alla sua potenza distruggeremo tutta la terra, dallOriente
allOccidente. Se luomo non fosse la forza di Dio, che
cosa potrebbero fare gli uomini?».
Tutta concreta, la relazione di Giovanni da Pian del Carpine non
si lascia andare a fantasticherie. E non sono frutto di inventiva
neanche le informazioni che ci dà su una figura ritenuta,
a torto, leggendaria: quella del Prete Gianni, un principe di religione
nestoriana, la cui dinastia regnò per circa un secolo in
quella che si chiamava, in maniera piuttosto imprecisa, lIndia
Maggiore e Superiore, verso lAlto Indo.
Lattività diplomatica del mondo cristiano, di fronte
alla minaccia che veniva dallEst, non conobbe tregue. Una
missione partì e raggiunse la corte dei Tartari alla fine
del 1247. Non se ne conosce lesito. Lanno successivo,
mentre era a Cipro, in attesa di raggiungere la Siria, Luigi IX
re di Francia San Luigi fu raggiunto da un gruppo
di ambasciatori mongoli, guidati da un tal Sabaldin Mufat David,
del quale ci sono ignote nazionalità e razza. Costui portava
una missiva del re tartaro, nella quale si affermava che questi
si era fatto battezzare da tre anni, si stava battendo per la cristianizzazione
di tutte le genti del suo impero, e voleva stringere alleanza con
il monarca santo, al fine di portare a termine questopera
missionaria.
Luigi inviò una missione franco-tartara, guidata dal David
e dal poliglotta frate André, ben fornita di denaro e di
ricchissimi doni e reliquie. Era il 1250 o il 1251, quando la missione
mosse, non è dato sapere attraverso quali terre. Si appurò
solo che il David scomparve dalla circolazione, insieme con i soldi
e i regali, e si ipotizzò che padre André si fosse
perduto nelle steppe dellAsia centrale care a Borodin, oppure,
senzaltro ingannato anche lui, si fosse pudicamente rinchiuso
fino alla morte in un qualche convento dellarea cristiana.
A meno che non fosse rimasto vittima del tradimento perpetrato dal
compagno di viaggio.
Questa disavventura non distolse dal progetto di riprendere i contatti
con il nuovo Khan tartaro. Compito cui venne destinato frate Guglielmo,
nativo di Rubruk, personaggio che sembrava essere il rovescio della
medaglia di Giovanni da Pian del Carpine. Non sappiamo nulla della
sua attività precedente e seguente, né delle sue origini,
e neanche della sua nazionalità. Forse si trattava di un
fiammingo con forti ascendenze sassoni, vissuto a Parigi e forse
anche altrove, in Francia, Paese di cui era fieramente innamorato.
Sappiamo che era spirito polemico, affabulatore torrentizio, ben
disposto alla buona tavola, gran bevitore. Fisicamente imponente,
doveva avere trenta o quarantanni quando partì da San
Giovanni dAcri e, forse dopo alcune tappe intermedie, giunse
a Costantinopoli, metropoli dalla quale ebbe inizio il suo viaggio
verso la Cina.
La relazione di Guglielmo è anchessa specchio capovolto
di quella di Giovanni da Pian: quanto questi si cela in unumiltà
che procede dallesempio di San Francesco, tanto laltro
si produce al centro della scena, col brio e la facondia di un grande
attore. Giovanni compie la sua inchiesta con discrezione, presentandoci
molte notizie sui Tartari. Guglielmo ci informa soprattutto sui
suoi confronti con i potenti, sui suoi diverbi con la pretaglia
locale, e ci rende edotti, alla fine, su poche cose riguardanti
luniverso mongolo. In compenso, è grandissimo descrittore
di paesaggi e terre, con un gusto narrativo eccellente, da autentico
globe trotter, che ci offre un affresco vivo e intrigante dei suoi
itinerari. Sicché la sua relazione rimane ancora oggi uno
dei più bei libri di viaggio che ci siano stati dati dalla
cultura medioevale. Vi sono poche pagine del genere che ci offrano
capitoli paragonabili a quelli che Guglielmo dedica al suo lungo
soggiorno alla corte del Khan Mangu. La sua descrizione della reggia,
e delle migliaia di tende e di carri che la circondavano, i suoi
colloqui con limperatore al tempo stesso scettico e superstizioso,
ma di incontestabile levatura filosofica era già per
metà cinese , le sue liti con il monaco Sergio, una
sorta di Rasputin furbo e anchesso beone, la sua controversia
in una specie di gara teologica, certo organizzata dal Khan per
il proprio piacere, sono pagine indimenticabili. Una disputa di
quel genere, tra preti e bonzi di quattro o cinque religioni, produce
nello spettatore una sana e benefica ilarità. Non si argomenta
sulla fede: attori protagonisti di una commedia dellarte ante
litteram, parlano ciascuno del proprio credo e di
sé, dinanzi alla totale sordità degli altri. Finché
il dibattito si conclude ragionevolmente: «Essendo tutto terminato,
i nestoriani e i saraceni cantarono insieme a voce alta, e dopo
di ciò tutti bevvero copiosamente». Il Rabelais di
Gargantua e Pantagruel è anticipato di un bel po di
secoli.
Leggendo le opere dei geografi occidentali del Medioevo e studiando
le carte e i mappamondi che ci hanno lasciato, possiamo osservare
che la più gran parte dellIndia e la quasi totalità
della Cina e dellAsia del Nord erano a costoro del tutto sconosciute:
formavano una sorta di immensa regione inesplorata, per gli uni
deserta, per gli altri abitata da enormi leoni e da cannibali allultimo
stadio della civiltà. Nessuno dei mappamondi, dal VII al
XIII secolo, dà la minima idea di ciò che potevano
essere le immense regioni che si stendono, verso oriente, al di
là del Gange, dellHimalaya, del Pamir e degli Urali.
Al loro posto, se per caso il tracciato giungeva fin lì,
figurano spesso le indicazioni Terra incognita, Terra
deserta, Terra arenosa, o anche la comoda formula
Barbari. Il paese leggendario di Gog e Magog si sposta
invece da un capo allaltro del continente asiatico, ed è
ipotizzato nel suo estremo limite orientale come una penisola o
persino come unisola rotonda, circondata da raggi e da stelle,
il Paradiso terrestre noster olim, come indica malinconicamente
la carta di Lambertus, del XII secolo. In realtà, nessuno
dei disegnatori del globo terrestre, nel corso di sette lunghi secoli,
poteva immaginare ciò che contenevano i tre quarti dellAsia,
e ancor meno che uno di quei tre quarti fosse occupato dalla più
alta civiltà del tempo, quella delle dinastie cinesi dei
Tang e dei Song.
Il Milione di Marco Polo, dunque, apparve ai lettori del principio
del XIV secolo come la sensazionale scoperta di quel continente
misterioso. Fu rivelata bruscamente, così, lesistenza
di una grandissima nazione, la Cina degli Yuan mongoli, o tartari,
eredi, per conquiste, dei diciotto imperatori Song. Il mercante
veneziano e Rustichello da Pisa trassero dalle brume lontane un
Paese potentemente organizzato, i cui innumerevoli eserciti erano
gli stessi che, durante il XIII secolo, erano giunti fino alle rive
del Danubio e dellAdriatico.
Non è dunque vero che Polo sia stato il primo a percorrere
Asia centrale e Cina, anche se ciò nulla toglie alle sue
qualità di osservatore e di narratore. Altri, molto prima
di lui, e sin dal IX secolo, ci avevano informato sul Catai; e altri
ancora, mezzo secolo prima di lui, avevano descritto la geografia,
i popoli, i costumi, le religioni, il clima, le produzioni dellAsia
centrale, come abbiamo sinteticamente documentato. E prima di Polo
e di tutti i suoi precursori, le piste erano state calpestate da
migliaia di carovane greche, romane, bizantine, e poi genovesi,
veneziane, da migliaia di sacerdoti cristiani, nestoriani ed ebrei,
(e in senso inverso da monaci buddisti). Marco Polo ha avuto il
pregio di ricordare di più e meglio, di affidarsi alla penna
smagliante di Rustichello: e ciò lo ha differenziato dalla
stragrande maggioranza di coloro i quali lo precedettero. Restando,
al tempo stesso, come mercante vocato allavventura in terre
remote, nel novero di quella forte specie che ci ha dato i veri
scopritori del mondo.
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