Giugno 2003

La Compagnia delle Indie Orientali

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Poi vennero i signori delle spezie
Ezio Vasile
 
 

Altri ancora, mezzo secolo prima di lui, avevano descritto la geografia, i popoli,
i costumi,
le religioni, il clima, le produzioni
dell’Asia centrale.

 

«All’inizio ci furono le spezie»: con questo incipit Stefan Zweig apre la biografia di Magellano. Cannella, pepe, noce moscata valgono più dell’oro e delle gemme. Sono beni preziosi in Europa e i mercanti olandesi le pesano su bilancini da farmacista, contano i grani uno ad uno, e portano alla cintura un borsellino in cui custodiscono una riserva privata di spezie, «in caso di necessità». Dopo una catastrofe, o in una fuga improvvisa, serviranno a sopravvivere, ovunque nel mondo.
Sulle spezie l’Olanda ha costruito la sua fortuna, e il loro commercio è alla base del capitalismo e, se vogliamo, della globalizzazione. La nascita della Compagnia delle Indie Orientali, poco più di quattro secoli fa, nel 1602, ne fa fede.
I portoghesi e gli inglesi sono spietati concorrenti nei commerci marittimi, ma i commercianti di Amsterdam, di Rotterdam e di Utrecht hanno un’idea geniale: quella di consociarsi, per fronteggiare i più forti avversari. La VOC (Vereinigte Ostindische Companie) è di fatto la prima Società per Azioni al mondo. Prima, un naufragio, un assalto dei pirati, un carico andato a male, portavano alla rovina l’armatore e la sua famiglia. Bastava una disgrazia per distruggere una fortuna accumulata con grande fatica, generazione dopo generazione. Ora invece il rischio viene diviso tra tutti i soci della Compagnia. E anche i guadagni, naturalmente. Ma non ci si può lamentare. Negli anni migliori, le azioni della VOC arrivano a dare un utile, oggi semplicemente impensabile, del 75 per cento. Non sempre viene distribuito denaro: gli azionisti sono compensati in natura, in spezie appunto, oppure in lana, lino, sale, o in altri prodotti che possono commerciare, facendo aumentare quindi i guadagni. In alcuni anni non ci saranno dividendi, ma nella sua storia di quasi due secoli, fino allo scioglimento nel 1799, la Compagnia distribuisce in media utili del 20 per cento.
Il capitale iniziale ammonta a 6,6 milioni di fiorini, suddivisi in 1.100 quote. Già una settimana dopo la sua emissione, il titolo della Compagnia vale il 125 per cento in più, e nel 1720 è salito del 1.250 per cento. Ma nel 1781 si scende al 215 per cento. Non bastava aver soldi per poter comprare i titoli: è necessario l’assenso di uno dei 17 direttori della società, come per entrare in un club esclusivo. L’andamento delle azioni segna anche l’ascesa dell’Olanda, un piccolo Paese che incuterà timore, oltre che a Londra e a Lisbona, anche ad altre grandi nazioni, come la Francia e la Spagna.
La Compagnia diventa così ricca e prestigiosa da influire direttamente sulla politica internazionale. Monarchi e Primi ministri devono ascoltare i capi della VOC prima di stilare trattati o di dichiarare guerra, esattamente come oggi le grandi multinazionali vantano bilanci superiori a quelli di molti Stati. Nel 1648, i rappresentanti della Compagnia renderanno ancora più complicate le trattative a Münster per la cosiddetta “Pace di Westfalia”, l’intesa che stabilisce i rapporti di forze sul nostro continente fino al Congresso di Vienna.

Il 30 gennaio di quell’anno, all’accordo tra Olanda e Spagna manca una sola firma, quella dell’inviato Godard van Reede van Nederhorst di Utrecht, un personaggio oscuro dai forti interessi personali, che vanta relazioni in tutte quante le capitali d’Europa. Di fatto, a Münster si trovano di fronte non Amsterdam e Madrid, ma la VOC e la WIC (Vestindische Companie, la Compagnia delle Indie Occidentali, nata nel 1621) contro spagnoli e portoghesi. Si sancì di fatto la fine del Sacro Romano Impero germanico. E si crearono le basi per le future guerre civili europee. Oggi si fa la guerra per il petrolio mediorientale, per le gemme estremo-orientali, per i minerali del Ruanda, o per l’uranio africano. Ieri la si faceva per una partita di pepe o per un pugno di chiodi di garofano.

A nord-est dell’Europa, i Cavalieri dell’Ordine Teutonico guerreggiavano al fianco del duca di Polonia per imporre la fede ai Prussiani, ancora idolatri. A sud-ovest, i castigliani continuavano a respingere verso l’Africa gli invasori musulmani. Infine, il fior fiore della cavalleria europea era impegnato nelle crociate per la conquista dei Luoghi Santi di Palestina, e lungo la strada aveva installato una dinastia franca sul trono di Costantinopoli. Di tutti questi contrasti, Giovanni da Pian del Carpine parlerà nel suo libro, dopo essersi guardato bene dal rivelarli al Khan mongolo, «per tema che non si rendesse troppo conto della nostra debolezza». Su quest’Europa sfinita da guerre e da lotte fratricide, infatti, si era abbattuta la più tremenda marea barbara da essa conosciuta dopo le invasioni degli Unni e dei Vandali, quella dei Mongoli (Moali o Mongali), i famosi “Tartari” di Gengis Khan, che in realtà si chiamava Chinggis Khan. Costui aveva conquistato la Cina del Nord e i territori russi meridionali, fino al Mar d’Azov e al Mar Nero. Alla sua morte, il terzo dei suoi figli, conquistati il resto della Cina e la Persia, si era rivolto contro l’Europa. Era il 1236 quando un esercito di 600.000 uomini distrusse sistematicamente tutte le città della Russia centro-settentrionale, saccheggiò da cima a fondo la Polonia, schiacciò le forze polacche e teutoniche, e mise a ferro e a fuoco l’Ungheria, facendo giungere le sue avanguardie fino in Dalmazia.

A questo punto, Innocenzo IV decise di inviare ambascerie presso il Khan. Una, formata esclusivamente di domenicani, giunta in Persia, formulò proposte di pace, con l’abbandono dell’idolatria e con la conversione alla fede cristiana; si ebbe, in risposta, l’ingiunzione al papa di recarsi dal Khan, di prostrarsi di fronte a lui, e di fare atto di sottomissione. L’altra, formata da francescani, percorse la Grecia, l’Asia Minore, l’Armenia e la Babilonia o Persia del Nord, senza andare oltre, e senza ottenere alcun risultato positivo. Il terzo gruppo era composto da soli tre francescani: Giovanni da Pian del Carpine, che li comandava, Stefano di Boemia, che per lo stato di salute dovette poi rinunciare al viaggio, e Benedetto di Polonia, che fungeva da interprete nei diversi contatti con i Tartari.
Giovanni aveva 63 anni, era fisicamente robusto, addirittura pesante, tant’è che era costretto a spostarsi a dorso di un asino. Tuttavia, affrontò con coraggio stanchezza, freddo, fame, sete, vessazioni d’ogni genere; traversò steppe, oltrepassò montagne, guadò fiumi giganteschi. Ma condusse a termine la missione, portando fino in fondo alla Mongolia, attraverso il deserto del Gobi, la parola evangelica, nello stesso tempo raccogliendo una massa enorme di informazioni sull’origine e la genealogia dei Gengiskhanidi, sull’organizzazione dell’Impero, sulla costituzione dell’esercito, sul suo armamento e le sue tattiche belliche, e simultaneamente sui costumi, sugli usi, sulle religioni, sull’abbigliamento, sul nutrimento, ecc., delle innumerevoli tribù nomadi mongole. Questa massa di notizie sull’Asia Centrale avrebbe contribuito a rinnovare completamente la geografia del continente, se gli specialisti si fossero dati pena di leggere la sua relazione e di coglierne l’importanza.
La lettera di risposta del capo dei Tartari, Guyuk Khan, al papa è riferita da Benedetto di Polonia. Vi si legge, fra l’altro: «Se desiderate avere la pace con noi, bisogna che tu, Papa, i vostri imperatori, tutti i vostri re, tutti i potentati delle città e i governatori dei paesi, non differiate in alcun modo di venire da me per espormi la vostra pace e udire al tempo stesso la nostra risposta e la nostra volontà… Ti stupisci del massacro degli uomini, e soprattutto dei cristiani ungheresi, polacchi e moravi… E’ accaduto perché non hanno obbedito agli ordini del nostro Dio e di Gengis Khan. Noi adoriamo Dio, e grazie alla sua potenza distruggeremo tutta la terra, dall’Oriente all’Occidente. Se l’uomo non fosse la forza di Dio, che cosa potrebbero fare gli uomini?».
Tutta concreta, la relazione di Giovanni da Pian del Carpine non si lascia andare a fantasticherie. E non sono frutto di inventiva neanche le informazioni che ci dà su una figura ritenuta, a torto, leggendaria: quella del Prete Gianni, un principe di religione nestoriana, la cui dinastia regnò per circa un secolo in quella che si chiamava, in maniera piuttosto imprecisa, l’India Maggiore e Superiore, verso l’Alto Indo.

L’attività diplomatica del mondo cristiano, di fronte alla minaccia che veniva dall’Est, non conobbe tregue. Una missione partì e raggiunse la corte dei Tartari alla fine del 1247. Non se ne conosce l’esito. L’anno successivo, mentre era a Cipro, in attesa di raggiungere la Siria, Luigi IX re di Francia – San Luigi – fu raggiunto da un gruppo di ambasciatori mongoli, guidati da un tal Sabaldin Mufat David, del quale ci sono ignote nazionalità e razza. Costui portava una missiva del re tartaro, nella quale si affermava che questi si era fatto battezzare da tre anni, si stava battendo per la cristianizzazione di tutte le genti del suo impero, e voleva stringere alleanza con il monarca santo, al fine di portare a termine quest’opera missionaria.
Luigi inviò una missione franco-tartara, guidata dal David e dal poliglotta frate André, ben fornita di denaro e di ricchissimi doni e reliquie. Era il 1250 o il 1251, quando la missione mosse, non è dato sapere attraverso quali terre. Si appurò solo che il David scomparve dalla circolazione, insieme con i soldi e i regali, e si ipotizzò che padre André si fosse perduto nelle steppe dell’Asia centrale care a Borodin, oppure, senz’altro ingannato anche lui, si fosse pudicamente rinchiuso fino alla morte in un qualche convento dell’area cristiana. A meno che non fosse rimasto vittima del tradimento perpetrato dal compagno di viaggio.
Questa disavventura non distolse dal progetto di riprendere i contatti con il nuovo Khan tartaro. Compito cui venne destinato frate Guglielmo, nativo di Rubruk, personaggio che sembrava essere il rovescio della medaglia di Giovanni da Pian del Carpine. Non sappiamo nulla della sua attività precedente e seguente, né delle sue origini, e neanche della sua nazionalità. Forse si trattava di un fiammingo con forti ascendenze sassoni, vissuto a Parigi e forse anche altrove, in Francia, Paese di cui era fieramente innamorato. Sappiamo che era spirito polemico, affabulatore torrentizio, ben disposto alla buona tavola, gran bevitore. Fisicamente imponente, doveva avere trenta o quarant’anni quando partì da San Giovanni d’Acri e, forse dopo alcune tappe intermedie, giunse a Costantinopoli, metropoli dalla quale ebbe inizio il suo viaggio verso la Cina.
La relazione di Guglielmo è anch’essa specchio capovolto di quella di Giovanni da Pian: quanto questi si cela in un’umiltà che procede dall’esempio di San Francesco, tanto l’altro si produce al centro della scena, col brio e la facondia di un grande attore. Giovanni compie la sua inchiesta con discrezione, presentandoci molte notizie sui Tartari. Guglielmo ci informa soprattutto sui suoi confronti con i potenti, sui suoi diverbi con la pretaglia locale, e ci rende edotti, alla fine, su poche cose riguardanti l’universo mongolo. In compenso, è grandissimo descrittore di paesaggi e terre, con un gusto narrativo eccellente, da autentico globe trotter, che ci offre un affresco vivo e intrigante dei suoi itinerari. Sicché la sua relazione rimane ancora oggi uno dei più bei libri di viaggio che ci siano stati dati dalla cultura medioevale. Vi sono poche pagine del genere che ci offrano capitoli paragonabili a quelli che Guglielmo dedica al suo lungo soggiorno alla corte del Khan Mangu. La sua descrizione della reggia, e delle migliaia di tende e di carri che la circondavano, i suoi colloqui con l’imperatore al tempo stesso scettico e superstizioso, ma di incontestabile levatura filosofica – era già per metà cinese – , le sue liti con il monaco Sergio, una sorta di Rasputin furbo e anch’esso beone, la sua controversia in una specie di gara teologica, certo organizzata dal Khan per il proprio piacere, sono pagine indimenticabili. Una disputa di quel genere, tra preti e bonzi di quattro o cinque religioni, produce nello spettatore una sana e benefica ilarità. Non si argomenta sulla fede: attori protagonisti di una commedia dell’arte ante litteram, parlano – ciascuno – del proprio credo e di sé, dinanzi alla totale sordità degli altri. Finché il dibattito si conclude ragionevolmente: «Essendo tutto terminato, i nestoriani e i saraceni cantarono insieme a voce alta, e dopo di ciò tutti bevvero copiosamente». Il Rabelais di Gargantua e Pantagruel è anticipato di un bel po’ di secoli.

Leggendo le opere dei geografi occidentali del Medioevo e studiando le carte e i mappamondi che ci hanno lasciato, possiamo osservare che la più gran parte dell’India e la quasi totalità della Cina e dell’Asia del Nord erano a costoro del tutto sconosciute: formavano una sorta di immensa regione inesplorata, per gli uni deserta, per gli altri abitata da enormi leoni e da cannibali all’ultimo stadio della civiltà. Nessuno dei mappamondi, dal VII al XIII secolo, dà la minima idea di ciò che potevano essere le immense regioni che si stendono, verso oriente, al di là del Gange, dell’Himalaya, del Pamir e degli Urali. Al loro posto, se per caso il tracciato giungeva fin lì, figurano spesso le indicazioni “Terra incognita”, “Terra deserta”, “Terra arenosa”, o anche la comoda formula “Barbari”. Il paese leggendario di Gog e Magog si sposta invece da un capo all’altro del continente asiatico, ed è ipotizzato nel suo estremo limite orientale come una penisola o persino come un’isola rotonda, circondata da raggi e da stelle, il Paradiso terrestre “noster olim”, come indica malinconicamente la carta di Lambertus, del XII secolo. In realtà, nessuno dei disegnatori del globo terrestre, nel corso di sette lunghi secoli, poteva immaginare ciò che contenevano i tre quarti dell’Asia, e ancor meno che uno di quei tre quarti fosse occupato dalla più alta civiltà del tempo, quella delle dinastie cinesi dei Tang e dei Song.
Il Milione di Marco Polo, dunque, apparve ai lettori del principio del XIV secolo come la sensazionale scoperta di quel continente misterioso. Fu rivelata bruscamente, così, l’esistenza di una grandissima nazione, la Cina degli Yuan mongoli, o tartari, eredi, per conquiste, dei diciotto imperatori Song. Il mercante veneziano e Rustichello da Pisa trassero dalle brume lontane un Paese potentemente organizzato, i cui innumerevoli eserciti erano gli stessi che, durante il XIII secolo, erano giunti fino alle rive del Danubio e dell’Adriatico.
Non è dunque vero che Polo sia stato il primo a percorrere Asia centrale e Cina, anche se ciò nulla toglie alle sue qualità di osservatore e di narratore. Altri, molto prima di lui, e sin dal IX secolo, ci avevano informato sul Catai; e altri ancora, mezzo secolo prima di lui, avevano descritto la geografia, i popoli, i costumi, le religioni, il clima, le produzioni dell’Asia centrale, come abbiamo sinteticamente documentato. E prima di Polo e di tutti i suoi precursori, le piste erano state calpestate da migliaia di carovane greche, romane, bizantine, e poi genovesi, veneziane, da migliaia di sacerdoti cristiani, nestoriani ed ebrei, (e in senso inverso da monaci buddisti). Marco Polo ha avuto il pregio di ricordare di più e meglio, di affidarsi alla penna smagliante di Rustichello: e ciò lo ha differenziato dalla stragrande maggioranza di coloro i quali lo precedettero. Restando, al tempo stesso, come mercante vocato all’avventura in terre remote, nel novero di quella forte specie che ci ha dato i veri scopritori del mondo.

   
   
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