Giugno 2003

SCRITTURA COME PITTURA: LE PROSE LECCESI DI LINO PAOLO SUPPRESSA

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La memoria
e il suo ritratto (II)

Antonio Mangione
 
 

L’attenzione agli
«spizziotti» è la stessa che si avverte
concentrarsi nei
contadini, carrettieri, bettolieri e artigiani della grande stagione realistica.

 

L’intenzione strutturante di questo composito memorialismo leccese si esplicita, nel quarto paragrafo, ancor più in reciprocità di natura e storia, di realtà e sogno della città («l’altro mio amore: questa Città, che mi si concedeva generosamente in tutta la sua grazia e purezza, da niente contaminata, almeno quel giorno»; «Un percorso che racchiude le più alte meraviglie del suo antico e nobile ventre»). Ed è tal consapevolezza di una dimensione “privata” della città, che pone la scrittura in una condizione inventiva propria della pittura, senz’altro punto di riferimento, cioè, che non sia quello autoimitativo, istituzionale e professionale, del pittore.
Si svolge l’avventura memoriale dalla descrizione dell’architettura della chiesa di Santa Maria della Porta (Porta Napoli, o dei luoghi della prima vita dell’autore), cui è attribuito «il fascino di qualcosa di privato, di qualcosa di cui ognuno può entrare in possesso senza renderne conto ad alcuno»; e già la forma dello spazio si teatralizza («E’ un piccolo palcoscenico»), in relazione alle rappresentazioni sacre, soprattutto al rito pomeridiano del Venerdì Santo, con la processione del Cristo morto, in unitaria visione di giorno cadente e di aura mistica e di rituale scenografia di morte e di lutto, a grande effetto psicologico popolare:

Qui sono occorsi i pomeriggi verde-rosso-viola, che intessevano la processione del Cristo morto, disteso nella bara di tulle bianco, con dietro la Madre vestita di merletto nero, di lutto, con gli occhi gonfi di lacrime rivolti al cielo, con un giro di sette spade sul petto, che lo cercava. S’era appena spento il lamento dell’uccisore di agnelli, che in cambio della sua prestazione tratteneva la pelle dell’agno.


Sacro e profano si mescolano, suggeriti da sortilegi del costume sentimentale tradizionale («Passava la processione e restavano i grandi occhi neri delle ragazze alle finestre e sotto gli usci di casa, a scoprire l’amore nel cielo delle funzioni religiose»); e l’incontro con la ragazza del cuore, privo di storia e di narrazione, è affidato ad attimi di pura figurazione contemplativa, alla pittura di una forma intravista e dissolta tra luci e colori serotini, rassomigliante ad una montaliana apparizione di donna-“iddia” dal «nero-fumo / della spera», omesse ricerca e attesa antagoniste nei confronti di un tempo negativo, e ricondotta la situazione sentimentale a estremo visivo, etimologico, dell’idillio:

Era un pomeriggio, e il sole si spegneva finendo di levigare il rosa delle facciate cangiandole in viola, e lei in una luce d’acquario dietro i vetri. Me ne ricordo bene, perché l’uomo della centrale elettrica aveva staccato la scala assicurata al muro, e salendovi aveva aperto una sorta di madia e, mosso il coltello che dava il contatto, aveva acceso le rade lampadine rossastre della via.
Lei si disegnava tremula e incerta nel tardo crepuscolo; io la guardai, le feci un gesto di saluto col capo e poi con la mano, credendo che potesse non capire il segno dell’amicizia; quella si ritrasse ergendosi sul busto e sparve nel buio.

 

L’idillio è mutato in occasione evocativa di immagini della città (reciproco già dichiarato della donna amata) durante le privilegiate ore pomeridiane; e dalla pittorica analogia di pomeriggio- «pulviscolo d’oro che marezzava chiese e palazzi, persone e cose», si produce la neobarocca caotica enumerazione delle «più alte meraviglie». Si tratta di una peculiare descrizione in forma dipinta, con attenuazione, se non proprio assenza, dei procedimenti di temporalizzazione propri del discorso verbale, nel tentativo di assumere in un solo colpo d’occhio un massimo spettacolare, un incantesimo, di leccese archeologia e storia, di cui presenze e tracce residuano da fonti, pur sperimentate in pittura, d’estrosa e giocosa connotazione bodiniana:

Mi trascinavo le architetture giovanilmente capricciose e quelle più serie e conosciute; i santi di pietra tenera; il bestiario favoloso; gli asini con le gorgerine, grifoni e draghi; e notai con gli occhiali e pirati saraceni e dame con i seni turgidi di carità. E poi balconi fastosi, piedistalli alla esposta bellezza muliebre. Qualcosa di veramente eccezionale e raro.

E si vedano, in prosecuzione, gli emblemi d’ilare surrealtà (Chagall ricorre per affinità elettiva) della piazzetta Falconieri e dell’annesso palazzo Marrese:

Una piazzetta che si guarda con meraviglia e, con fantasia, si può danzare con le cariatidi del palazzo centrale al quale fanno la guardia; con i grandi balconi ondulati, i cui vetri rimandano le mille luci pirotecniche del maggio; e i serti di rondoni impazziti nel crepuscolo.

Similmente, per il Vescovado:

Uno scenario da favola con quella luce preziosa. Perché è la luce del pomeriggio che dà la lontananza struggente al capolavoro riuscito, e mitizza, avvolge in spire lusinghiere, anche le piccole barbarie, come la costretta fontana con i cavalli alati che par vogliano, scornati, volarsene, e invece sono convinti dalla bellezza a restarsene, non tollerati ma stemperati dalla sua dovizia.

Più d’ogni altro complesso urbano e monumentale, esso è trasfigurato in visione di aurea luce pomeridiana, tanto da reclamare, per un destino di cose da paradiso terrestre, la metafisica ristrutturazione proposta dall’amico scultore Francesco Barbieri:

E penso a Francesco, lo scultore che non è più, che vedeva al complesso, al cortile vescovile, un cancello monumentale che ne chiudesse l’ingresso ogni qualvolta quella luce vi calasse, facendola prigioniera; e in più il dono di un prato di tenero verde.

Altre pittoriche reinvenzioni di luoghi deputati: Porta Rudiae («Sotto la Porta la peste pustolosa, grigia, brutta era allontanata dal Santo, nel bassorilievo di cartapesta. Era accaduto l’ultima volta che s’erano visti angeli sulla sommità delle mura soffiare in trombe d’argento. Fuori di essa il vespero era in tutto il suo splendore»); le novellistiche suggestioni orientali, futuristicamente riconfigurate, all’ingresso di piazza S. Oronzo («Ero su un tapis roulant e la Città veniva incontro a me. Così entrammo nella piazza del Santo, il suo cuore mondano»); ed oltre un déjà vu di questa piazza prima della sua trasformazione fascista (il tram elettrico, «i portici-capande» e gli annessi negozi, gli sportivi con chioma lucida di brillantina alla Rodolfo Valentino...), le carrozzelle di piazza Fanfulla, con l’esilarante prosopopea del lodigiano cavaliere-monumento, che rampogna i «cavalli sfiancati» di quelle carrozzelle per la degenerazione della loro antica e nobile razza.
Infine un rientro nel “vero cuore” della città, popolare e umile, di marcata impronta ctonia, e d’immutato esistere primitivo, cui si lega particolarmente il realismo trascendentale della maggior pittura socio-documentaria di Suppressa:

e se mi accade di cogliere l’odore delle fascine che bruciano nel forno, sento il vero cuore della Città, com’è veramente. Ritrovo il grido che si ripercuote per i vicoli: – Stròome! stròome! – e mi si presenta Idomeneo alla guida del carro agricolo con le alte ruote incrostate di fango rosso dei campi, pieno della monda dell’ulivo, che quando è secca brucia come fumo bianco, denso e profumato di sacerdotale invocazione all’oracolo.

Nell’altra prosa leccese, Un pittore e la sua città, il memorialismo autobiografico continua a snodarsi da spazi e ambienti, da episodi e figure dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, assumibili ad archetipi topografici, ambientali e umani di un Suppressa non-scrittore, o dilettante scrittore di un solo e unico se stesso pittore. Anche qui, una narrativa descrittiva d’involontaria memoria, eseguita con successione spontanea di ricordi: «dati, fatti e persone», che «l’oggi» fa «lievitare come pasta. Sei sospeso a un filo di cui non chiedi dove siano i capi. Ti sta sopra il cielo, alzi l’indice e sei sicuro di pungerlo».
Così in serie pittoricamente emergente e insistita: la bottega di drogheria e salumeria e la vecchia bottegaia «dai capelli come la neve», dal «volto rugoso» e dal «naso adunco sul quale poggiano gli occhiali», e con effetti a contrasto – assenti in motivi affini della prosa precedente –, il bancone di vendita, brillante di coloratissimi vasi di vetro, e il retrobottega illuminato dal lume a petrolio, col vecchio marito ammalato, «e financo l’orinale sotto il letto»; la bettola di Paolo («putèa», «posto caldo, accogliente, amoroso, candido, morbido», rievocato-ridipinto attraverso un’assimilazione all’Après-dinée à Ornans di Courbet), con altra figura di vecchia («Beve il vino dal bicchiere che ha scintillii stellari; il rubino liquido lo vede scorrere, scorrere, quasi un fiume ridotto con arte giapponese, dal vetro alla gola sitibonda. Quando finisce di berlo si asciuga la bocca col dorso della mano, mentre io la guardo estatico con la testa tenuta all’indietro»), e con i cézanniani «giocatori di carte seduti al tavolo a un angolo della putèa, appena individuabili, avvolti come sono dal fumo delle loro micidiali sigarette»; le labirintiche stradine dipanate come da «un gomitolo di lana»; la gente dimorante tra casa e strada; gli operai della fabbrica di tabacchi, pendolari tra rione delle Giravolte e vicino posto di lavoro, e mai lontani da questo rione «come pulcini protetti dalla chioccia».
Ricorre qui, dall’inizio di Lecce vecchia, ma radicalmente rinnovato negli effetti pittorici, il guardare dai vetri del balcone, la sera, dentro le case di fronte, come da una specola segreta; ne deriva un’iconografia domestica di neocubistica purezza, quasi ad una soglia di morandiana astrazione: la tavola, il lume in mezzo, le stoviglie, la caraffa d’acqua e la bottiglia di vino...
Finissimo esempio ritrattistico, quello dello stagnaro. L’autore lo visualizza nello specchio di un foglio di stagno, rilevando deformati risvolti di colore-luce e di colore-suono, oltre i quali non c’è nulla che di lui resti o abbia senso:

Lo stagnaro che sta all’angolo sotto un’alta finestra con l’inferriata della manifattura non si pone nemmeno oggi alcuna domanda, e non se la porrà più e passerà così. Egli fa capase lucenti e taglia, per farle, pezzi di cielo d’argento. Ogni volta che prende un foglio di stagno mi sento investito da un turbine di luce che mi sgomenta; così quel suono che l’accompagna, come di acque gorgoglianti nella gola dell’annegato, mi gela. Lui non s’accorge di me, e il suo volto si specchia nella lastra deformandosi come un personaggio di Bacon.

Figurativamente significativo è il fatto che l’estrapolazione del ricordo si appoggi esplicitamente, come già sopra per il realismo di Courbet, ad un’auctoritas pittorica, che va ben oltre il limite di una similitudine culturale, tanto che l’espressionismo teratologico di Francis Bacon è il referente interpretativo primario del ricordo e della sua dimensione complessiva, non a caso amplificato nel ritratto del figlio dello stagnaro, paralizzato alle gambe e mangiata la faccia dalle mosche, simbolo di esistenza negata, di sbaglio di natura («la palma che svetta nel villino mai maturerà i suoi datteri»).
Ma di singolare interesse figurativo-sperimentale è tutta la prima parte di questa prosa leccese. Giovani donne, in nascente attingimento di emozioni di bellezza e di amore; ornate «s’affacciano dai mignani» («Le vedo incarnate di rosa-bruno e portano capelli neri e occhi altrettanto neri, con le pupille puntute e leggermente più piccole, sennò non sono del posto»). La madre, «giovane sui diciotto anni», larica creatura, surrealisticamente immaginata in prenatale simbiosi col figlio, e poi per sola breve vita crescente:

Potrei toccarla, se volessi, ma mi vergogno a mostrarmi, oggi, più grande di lei. L’abito che porta è chiaro, sarà bianco, color crema, grigio perla... chi può dirlo? Appoggia al ferro del balcone, che porta il vuoto dietro, le braccia conserte; la pergola accanto, arrivata fin lassù, la infestona [...]. Fa sera, l’aria è viola; di qua, verso la ferrovia, con il fischio del treno, il cielo di corallo mostra una luna verde ancora cieca. Ora s’erge sul busto, e come una regina scende la scala dell’androne limitato e già scuro [...]. Seguo il suo passo che sfiora il pavimento, la sua grazia di giovane inesperta e sana che non sa, come so io, esplorare il futuro; lei che cresce e io che rientro in lei perché divenga forma pienamente, crescermi, per poi, ancora giovane, mettermi la mano nei capelli e dirmi addio.

Altro stile, secondo sistematica adeguazione della forma al contenuto, nella storia e nel ritratto (o storia attraverso fotogrammi ritrattistici) della figlia della Lilla, «la paccia» (la pazza) prostituta, incontenibile «vergogna» di famiglia, e scandalo dei vicini, quando, di notte, tra «urla, bestemmie, oscenità, maledizioni», rientra a casa, dopo essere fuggita «calandosi da una finestrella posta al sommo della porta d’ingresso, magari dopo essersi sciolti i legacci che la legavano al letto». Incontrata, a distanza di anni, nel viale della stazione ferroviaria in tempo di guerra, ancora in uno stesso malefico momento notturno. Difficile dire quanto in questa rappresentazione della prostituta, a parte la dichiarata implicazione simbolica dell’«immagine della guerra» in corporalità oscena e disfatta, sia attiva una lezione di espressionismo pittorico e cinematografico, da un oscuro, tentacolare femminino demoniaco scipioniano ad un felliniano sessualismo iperbolico-giocoso, ma anche d’iniziatica indecifrabilità:

Rideva con un ghigno disperato e si batteva con l’altra mano, che stringeva la borsetta, la coscia. Tirava boccate di fumo rabbiosamente; la bocca dipinta in modo claunesco e una riga bianca, così evidente nell’oscurità, le tagliava i capelli nel mezzo del capo. Mi fece l’invito in un ridicolo idioma nordico. Le chiesi di qual posto fosse; mi rispose: – Bologna! – e cacciò la lingua, ruotandola sulle labbra con abbondante saliva. Mi fece schifo e pietà; una pietà estesa a tutto l’universo; e l’immagine della guerra dipinta dal doganiere Rousseau si riempì, dilatandosi e prendendo carne e sangue da quella creatura che avevo davanti.

Meno difficile, invece, è avvertire nell’amarcord di questo episodio una figuralità alimentata da indigene radici controriformistiche; e si pensi alla prostituzione demonizzata, al sadomasochismo intransigente-impotente nei confronti della prostituta, da tenere lontana mollandole qualche moneta o minacciandola di denuncia, alla sua umanità repressa e stravolta da dogmatismi etico-comportamentali, stratificati nella famiglia e nella società meridionali-salentine:

Avrei voluto tanto fare qualcosa per sentirmi più cristiano; ma ciò è più complicato di quel che si pensi, ed è falso che tutto dipenda da noi. Cosicché quella notte, che avrei potuto spendere un po’ di bene, di fronte alla petulanza e invadenza della figlia della Lilla, per liberarmene, dopo averle mollato qualche moneta, feci la voce dura con minacce di denuncia. Sicché come un cane cacciato cammina di lato guardandoti con paura, essa si allontanò, muta.

Interiormente motivato, quindi, l’immediato séguito analogico dell’episodio della prostituta, nella descrizione della peste-«donna nuda e nera» del devozionale «grande altorilievo di cartapesta», sotto l’arco di Porta Rudiae (ridisegnato emblema dalla prima prosa):

mi fermavo sotto la Porta per guardare con ribrezzo e paura la peste effigiata nella figura di una donna nuda e nera, con i capelli discinti, posta sotto i piedi del Patrono, circondato da quegli angeli che apparvero sulle mura suonando le trombe d’argento, giust’appunto per cacciare la peste, che s’era presentata davanti alla Città tentando di entrarvi; cosa, ormai appurata, che le sarebbe riuscita senza l’intervento del suo Santo Protettore.


Ricompare il tema paesaggistico rielaborato in base a canoni naturalistico-luministici di tradizione squisitamente salentina (Ciardo, modello):

[...] la campagna che si apriva davanti splendida e veramente miracolosa nel dorato pomeriggio. La campagna ricca di orti, giardini, ville e villini con le palme da datteri e gli alberi del pepe; campagna che dava frutta e verdura stupenda; più stupenda quand’era accompagnata dai canti dei venditori.

E mitico-estatiche pause riflessive, richiamate da una collettiva memoria fantastica dell’Oriente, decorano e quasi sublimano un’iconografia della città- «Creatura privilegiata» e della campagna circostante, in una solare cornucopia del dare e del ricevere delle due primitive economie:

Un miraggio da “Mille e una notte”, che m’inebriava inconsapevolmente [...]. Quando comparivano le belle stagioni questa Città prendeva il fulgore d’Oriente. Dalle quattro porte affluivano dentro le sue mura i carretti spinti a mano o tirati dal più bell’animale del creato: l’asino. Erano carichi di frutta colorata al naturale, di verdure smaglianti e da canti che ne magnificavano la bontà. Era tutto un trattare tra il venditore e gli usci da cui uscivano donne e artigiani. Il sole sovrano colmava a piene mani questa Creatura privilegiata; non mi sarei mai stupito se, guardando fuori Porta, avessi visto passare carovane al lento passo del cammello.

Caratterizzata, invece, da geometrico-astratto ordine visivo, la descrizione della chiesa di San Luigi e del collaterale spazio urbano, sottratta, anche per oggettiva verità, ad occasioni espressionistiche o chagalliane di precedenti esempi osservati, e levitata a gioco di pura prospettiva, appena colorata «con un misto di bianco o celeste leggero che lasciasse trasparire un rosa di vecchia tinteggiatura», innalzantesi sopra un «selciato» - «guantiera». Si ripete qui il senso ludico-fantasmagorico della contemporanea pittura di Suppressa, sperimentata in geometrizzanti ricomposizioni di superstiti frammenti illusori di un Sud fra storia e leggenda:

Questa chiesa, in fondo anonima, è più bella di tante più spocchiose. Mi piace per essere il più perfetto gioco costruttivo, possibile a chiunque. E’ come se uno si ritagliasse un pezzo di selciato, alzasse una quinta, la prima di tre, e ci mettesse al centro un portone non grande, piuttosto piccolino, che si portasse al braccio due finestre e desse un tono di colore di grano maturo. Il secondo lato più lungo, ma di poco, del primo, e si chiedesse: “Che faccio su questa parete?”. E tirasse un balcone lungo quasi quanto la sua larghezza, sul quale aprire tre altre finestre, tingendo tutto con un misto di bianco o celeste leggero, che lasciasse trasparire un rosa di vecchia tinteggiatura. E infine pensare una chiesa nel terzo lato. Una chiesa dignitosa nel suo rococò timidamente dichiarato, dopo averci, prima, piazzato due lampioni ai suoi lati e la tirasse su con due, tre gradini; ma, ancora, col colpo finale della perfezione e fantasia, prendere, come fosse una guantiera, il selciato ed elevarlo di altri tre gradini, che hanno anche il merito di non contaminare il tutto con la strada.


Un ultimo momento, tecnicamente interessante, è un tentativo di descrittivismo oggettivistico secondo un ottico rigore da école du regard, utile a far riflettere sulle forme finite del realismo del pittore, specialmente in ordine a presentazioni e rappresentazioni di primitivi salentini della campagna e della città. L’attenzione agli «spizziotti» («i ragazzi ricoverati nell’ospizio “Garibaldi”») nel segno espressivo di un finito fisico essenzialistico, sigillo d’alienata immutabilità, è la stessa che si avverte concentrarsi nei contadini, carrettieri, bettolieri e artigiani della grande stagione realistica, esauritane ogni variante espressionistica, e intravista una qual nuova e assoluta verità d’arte:

frequentavano la scuola che così veniva classificata, senza alcuna riserva, popolare. Li accompagnava il prefetto, un nome importante per degli esseri denutriti e pallidi; vestivano divise di colore scuro per nascondere il possibile sudiciume, e chiuse al collo, dal quale appariva una riga bianca che era una fascetta di tela, che serviva a non mettere a contatto diretto il giro del collo della giubba con la carne. Portavano i capelli tagliati a zero, sicché i crani nudi facevano un certo effetto, apparendo nella forma oblunga o schiacciata dietro la nuca o sul petto o anche con bozze. Non erano tempi nemmeno di vera educazione cristiana, sicché gran simpatia non ne ispiravano, almeno a prima vista. M’è rimasta l’idea che avessero sempre fame [...].

 

(2 - Fine. La prima parte in “Apulia”, n. I / marzo 2003)
   
   
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