Lattenzione agli
«spizziotti» è la stessa che si avverte
concentrarsi nei
contadini, carrettieri, bettolieri e artigiani della grande stagione
realistica.
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Lintenzione strutturante di questo composito memorialismo
leccese si esplicita, nel quarto paragrafo, ancor più in
reciprocità di natura e storia, di realtà e sogno
della città («laltro mio amore: questa Città,
che mi si concedeva generosamente in tutta la sua grazia e purezza,
da niente contaminata, almeno quel giorno»; «Un percorso
che racchiude le più alte meraviglie del suo antico e nobile
ventre»). Ed è tal consapevolezza di una dimensione
privata della città, che pone la scrittura in
una condizione inventiva propria della pittura, senzaltro
punto di riferimento, cioè, che non sia quello autoimitativo,
istituzionale e professionale, del pittore.
Si svolge lavventura memoriale dalla descrizione dellarchitettura
della chiesa di Santa Maria della Porta (Porta Napoli, o dei luoghi
della prima vita dellautore), cui è attribuito «il
fascino di qualcosa di privato, di qualcosa di cui ognuno può
entrare in possesso senza renderne conto ad alcuno»; e già
la forma dello spazio si teatralizza («E un piccolo
palcoscenico»), in relazione alle rappresentazioni sacre,
soprattutto al rito pomeridiano del Venerdì Santo, con la
processione del Cristo morto, in unitaria visione di giorno cadente
e di aura mistica e di rituale scenografia di morte e di lutto,
a grande effetto psicologico popolare:
Qui sono occorsi i pomeriggi verde-rosso-viola,
che intessevano la processione del Cristo morto, disteso nella
bara di tulle bianco, con dietro la Madre vestita di merletto
nero, di lutto, con gli occhi gonfi di lacrime rivolti al cielo,
con un giro di sette spade sul petto, che lo cercava. Sera
appena spento il lamento delluccisore di agnelli, che
in cambio della sua prestazione tratteneva la pelle dellagno. |
Sacro e profano si mescolano, suggeriti da sortilegi del costume
sentimentale tradizionale («Passava la processione e restavano
i grandi occhi neri delle ragazze alle finestre e sotto gli usci
di casa, a scoprire lamore nel cielo delle funzioni religiose»);
e lincontro con la ragazza del cuore, privo di storia e di
narrazione, è affidato ad attimi di pura figurazione contemplativa,
alla pittura di una forma intravista e dissolta tra luci e colori
serotini, rassomigliante ad una montaliana apparizione di donna-iddia
dal «nero-fumo / della spera», omesse ricerca e attesa
antagoniste nei confronti di un tempo negativo, e ricondotta la
situazione sentimentale a estremo visivo, etimologico, dellidillio:
Era un pomeriggio, e il sole si spegneva
finendo di levigare il rosa delle facciate cangiandole in viola,
e lei in una luce dacquario dietro i vetri. Me ne ricordo
bene, perché luomo della centrale elettrica aveva
staccato la scala assicurata al muro, e salendovi aveva aperto
una sorta di madia e, mosso il coltello che dava il contatto,
aveva acceso le rade lampadine rossastre della via.
Lei si disegnava tremula e incerta nel tardo crepuscolo; io
la guardai, le feci un gesto di saluto col capo e poi con la
mano, credendo che potesse non capire il segno dellamicizia;
quella si ritrasse ergendosi sul busto e sparve nel buio. |
Lidillio è mutato in occasione evocativa di immagini
della città (reciproco già dichiarato della donna
amata) durante le privilegiate ore pomeridiane; e dalla pittorica
analogia di pomeriggio- «pulviscolo doro che marezzava
chiese e palazzi, persone e cose», si produce la neobarocca
caotica enumerazione delle «più alte meraviglie».
Si tratta di una peculiare descrizione in forma dipinta, con attenuazione,
se non proprio assenza, dei procedimenti di temporalizzazione propri
del discorso verbale, nel tentativo di assumere in un solo colpo
docchio un massimo spettacolare, un incantesimo, di leccese
archeologia e storia, di cui presenze e tracce residuano da fonti,
pur sperimentate in pittura, destrosa e giocosa connotazione
bodiniana:
Mi trascinavo le architetture giovanilmente
capricciose e quelle più serie e conosciute; i santi
di pietra tenera; il bestiario favoloso; gli asini con le gorgerine,
grifoni e draghi; e notai con gli occhiali e pirati saraceni
e dame con i seni turgidi di carità. E poi balconi fastosi,
piedistalli alla esposta bellezza muliebre. Qualcosa di veramente
eccezionale e raro. |
E si vedano, in prosecuzione, gli emblemi dilare surrealtà
(Chagall ricorre per affinità elettiva) della piazzetta Falconieri
e dellannesso palazzo Marrese:
Una piazzetta che si guarda con meraviglia
e, con fantasia, si può danzare con le cariatidi del
palazzo centrale al quale fanno la guardia; con i grandi balconi
ondulati, i cui vetri rimandano le mille luci pirotecniche del
maggio; e i serti di rondoni impazziti nel crepuscolo. |
Similmente, per il Vescovado:
Uno scenario da favola con quella luce
preziosa. Perché è la luce del pomeriggio che
dà la lontananza struggente al capolavoro riuscito, e
mitizza, avvolge in spire lusinghiere, anche le piccole barbarie,
come la costretta fontana con i cavalli alati che par vogliano,
scornati, volarsene, e invece sono convinti dalla bellezza a
restarsene, non tollerati ma stemperati dalla sua dovizia. |
Più dogni altro complesso urbano e monumentale, esso
è trasfigurato in visione di aurea luce pomeridiana, tanto
da reclamare, per un destino di cose da paradiso terrestre, la metafisica
ristrutturazione proposta dallamico scultore Francesco Barbieri:
E penso a Francesco, lo scultore che
non è più, che vedeva al complesso, al cortile
vescovile, un cancello monumentale che ne chiudesse lingresso
ogni qualvolta quella luce vi calasse, facendola prigioniera;
e in più il dono di un prato di tenero verde. |
Altre pittoriche reinvenzioni di luoghi deputati: Porta Rudiae
(«Sotto la Porta la peste pustolosa, grigia, brutta era allontanata
dal Santo, nel bassorilievo di cartapesta. Era accaduto lultima
volta che serano visti angeli sulla sommità delle mura
soffiare in trombe dargento. Fuori di essa il vespero era
in tutto il suo splendore»); le novellistiche suggestioni
orientali, futuristicamente riconfigurate, allingresso di
piazza S. Oronzo («Ero su un tapis roulant e la Città
veniva incontro a me. Così entrammo nella piazza del Santo,
il suo cuore mondano»); ed oltre un déjà vu
di questa piazza prima della sua trasformazione fascista (il tram
elettrico, «i portici-capande» e gli annessi negozi,
gli sportivi con chioma lucida di brillantina alla Rodolfo Valentino...),
le carrozzelle di piazza Fanfulla, con lesilarante prosopopea
del lodigiano cavaliere-monumento, che rampogna i «cavalli
sfiancati» di quelle carrozzelle per la degenerazione della
loro antica e nobile razza.
Infine un rientro nel vero cuore della città,
popolare e umile, di marcata impronta ctonia, e dimmutato
esistere primitivo, cui si lega particolarmente il realismo trascendentale
della maggior pittura socio-documentaria di Suppressa:
e se mi accade di cogliere
lodore delle fascine che bruciano nel forno, sento il
vero cuore della Città, comè veramente.
Ritrovo il grido che si ripercuote per i vicoli: Stròome!
stròome! e mi si presenta Idomeneo alla guida
del carro agricolo con le alte ruote incrostate di fango rosso
dei campi, pieno della monda dellulivo, che quando è
secca brucia come fumo bianco, denso e profumato di sacerdotale
invocazione alloracolo. |
Nellaltra prosa leccese, Un pittore e la sua città,
il memorialismo autobiografico continua a snodarsi da spazi e ambienti,
da episodi e figure dellinfanzia, delladolescenza e
della giovinezza, assumibili ad archetipi topografici, ambientali
e umani di un Suppressa non-scrittore, o dilettante scrittore di
un solo e unico se stesso pittore. Anche qui, una narrativa descrittiva
dinvolontaria memoria, eseguita con successione spontanea
di ricordi: «dati, fatti e persone», che «loggi»
fa «lievitare come pasta. Sei sospeso a un filo di cui non
chiedi dove siano i capi. Ti sta sopra il cielo, alzi lindice
e sei sicuro di pungerlo».
Così in serie pittoricamente emergente e insistita: la bottega
di drogheria e salumeria e la vecchia bottegaia «dai capelli
come la neve», dal «volto rugoso» e dal «naso
adunco sul quale poggiano gli occhiali», e con effetti a contrasto
assenti in motivi affini della prosa precedente , il
bancone di vendita, brillante di coloratissimi vasi di vetro, e
il retrobottega illuminato dal lume a petrolio, col vecchio marito
ammalato, «e financo lorinale sotto il letto»;
la bettola di Paolo («putèa», «posto caldo,
accogliente, amoroso, candido, morbido», rievocato-ridipinto
attraverso unassimilazione allAprès-dinée
à Ornans di Courbet), con altra figura di vecchia («Beve
il vino dal bicchiere che ha scintillii stellari; il rubino liquido
lo vede scorrere, scorrere, quasi un fiume ridotto con arte giapponese,
dal vetro alla gola sitibonda. Quando finisce di berlo si asciuga
la bocca col dorso della mano, mentre io la guardo estatico con
la testa tenuta allindietro»), e con i cézanniani
«giocatori di carte seduti al tavolo a un angolo della putèa,
appena individuabili, avvolti come sono dal fumo delle loro micidiali
sigarette»; le labirintiche stradine dipanate come da «un
gomitolo di lana»; la gente dimorante tra casa e strada; gli
operai della fabbrica di tabacchi, pendolari tra rione delle Giravolte
e vicino posto di lavoro, e mai lontani da questo rione «come
pulcini protetti dalla chioccia».
Ricorre qui, dallinizio di Lecce vecchia, ma radicalmente
rinnovato negli effetti pittorici, il guardare dai vetri del balcone,
la sera, dentro le case di fronte, come da una specola segreta;
ne deriva uniconografia domestica di neocubistica purezza,
quasi ad una soglia di morandiana astrazione: la tavola, il lume
in mezzo, le stoviglie, la caraffa dacqua e la bottiglia di
vino...
Finissimo esempio ritrattistico, quello dello stagnaro. Lautore
lo visualizza nello specchio di un foglio di stagno, rilevando deformati
risvolti di colore-luce e di colore-suono, oltre i quali non cè
nulla che di lui resti o abbia senso:
Lo stagnaro che sta allangolo sotto
unalta finestra con linferriata della manifattura
non si pone nemmeno oggi alcuna domanda, e non se la porrà
più e passerà così. Egli fa capase lucenti
e taglia, per farle, pezzi di cielo dargento. Ogni volta
che prende un foglio di stagno mi sento investito da un turbine
di luce che mi sgomenta; così quel suono che laccompagna,
come di acque gorgoglianti nella gola dellannegato, mi
gela. Lui non saccorge di me, e il suo volto si specchia
nella lastra deformandosi come un personaggio di Bacon. |
Figurativamente significativo è il fatto che lestrapolazione
del ricordo si appoggi esplicitamente, come già sopra per
il realismo di Courbet, ad unauctoritas pittorica, che va
ben oltre il limite di una similitudine culturale, tanto che lespressionismo
teratologico di Francis Bacon è il referente interpretativo
primario del ricordo e della sua dimensione complessiva, non a caso
amplificato nel ritratto del figlio dello stagnaro, paralizzato
alle gambe e mangiata la faccia dalle mosche, simbolo di esistenza
negata, di sbaglio di natura («la palma che svetta nel villino
mai maturerà i suoi datteri»).
Ma di singolare interesse figurativo-sperimentale è tutta
la prima parte di questa prosa leccese. Giovani donne, in nascente
attingimento di emozioni di bellezza e di amore; ornate «saffacciano
dai mignani» («Le vedo incarnate di rosa-bruno e portano
capelli neri e occhi altrettanto neri, con le pupille puntute e
leggermente più piccole, sennò non sono del posto»).
La madre, «giovane sui diciotto anni», larica creatura,
surrealisticamente immaginata in prenatale simbiosi col figlio,
e poi per sola breve vita crescente:
Potrei toccarla, se volessi, ma mi vergogno
a mostrarmi, oggi, più grande di lei. Labito che
porta è chiaro, sarà bianco, color crema, grigio
perla... chi può dirlo? Appoggia al ferro del balcone,
che porta il vuoto dietro, le braccia conserte; la pergola accanto,
arrivata fin lassù, la infestona [...]. Fa sera, laria
è viola; di qua, verso la ferrovia, con il fischio del
treno, il cielo di corallo mostra una luna verde ancora cieca.
Ora serge sul busto, e come una regina scende la scala
dellandrone limitato e già scuro [...]. Seguo il
suo passo che sfiora il pavimento, la sua grazia di giovane
inesperta e sana che non sa, come so io, esplorare il futuro;
lei che cresce e io che rientro in lei perché divenga
forma pienamente, crescermi, per poi, ancora giovane, mettermi
la mano nei capelli e dirmi addio. |
Altro stile, secondo sistematica adeguazione della forma al contenuto,
nella storia e nel ritratto (o storia attraverso fotogrammi ritrattistici)
della figlia della Lilla, «la paccia» (la pazza) prostituta,
incontenibile «vergogna» di famiglia, e scandalo dei
vicini, quando, di notte, tra «urla, bestemmie, oscenità,
maledizioni», rientra a casa, dopo essere fuggita «calandosi
da una finestrella posta al sommo della porta dingresso, magari
dopo essersi sciolti i legacci che la legavano al letto».
Incontrata, a distanza di anni, nel viale della stazione ferroviaria
in tempo di guerra, ancora in uno stesso malefico momento notturno.
Difficile dire quanto in questa rappresentazione della prostituta,
a parte la dichiarata implicazione simbolica dell«immagine
della guerra» in corporalità oscena e disfatta, sia
attiva una lezione di espressionismo pittorico e cinematografico,
da un oscuro, tentacolare femminino demoniaco scipioniano ad un
felliniano sessualismo iperbolico-giocoso, ma anche diniziatica
indecifrabilità:
Rideva con un ghigno disperato
e si batteva con laltra mano, che stringeva la borsetta,
la coscia. Tirava boccate di fumo rabbiosamente; la bocca dipinta
in modo claunesco e una riga bianca, così evidente nelloscurità,
le tagliava i capelli nel mezzo del capo. Mi fece linvito
in un ridicolo idioma nordico. Le chiesi di qual posto fosse;
mi rispose: Bologna! e cacciò la lingua,
ruotandola sulle labbra con abbondante saliva. Mi fece schifo
e pietà; una pietà estesa a tutto luniverso;
e limmagine della guerra dipinta dal doganiere Rousseau
si riempì, dilatandosi e prendendo carne e sangue da
quella creatura che avevo davanti. |
Meno difficile, invece, è avvertire nellamarcord di
questo episodio una figuralità alimentata da indigene radici
controriformistiche; e si pensi alla prostituzione demonizzata,
al sadomasochismo intransigente-impotente nei confronti della prostituta,
da tenere lontana mollandole qualche moneta o minacciandola di denuncia,
alla sua umanità repressa e stravolta da dogmatismi etico-comportamentali,
stratificati nella famiglia e nella società meridionali-salentine:
Avrei voluto tanto fare qualcosa per
sentirmi più cristiano; ma ciò è più
complicato di quel che si pensi, ed è falso che tutto
dipenda da noi. Cosicché quella notte, che avrei potuto
spendere un po di bene, di fronte alla petulanza e invadenza
della figlia della Lilla, per liberarmene, dopo averle mollato
qualche moneta, feci la voce dura con minacce di denuncia. Sicché
come un cane cacciato cammina di lato guardandoti con paura,
essa si allontanò, muta. |
Interiormente motivato, quindi, limmediato séguito
analogico dellepisodio della prostituta, nella descrizione
della peste-«donna nuda e nera» del devozionale «grande
altorilievo di cartapesta», sotto larco di Porta Rudiae
(ridisegnato emblema dalla prima prosa):
mi fermavo sotto la Porta per guardare
con ribrezzo e paura la peste effigiata nella figura di una
donna nuda e nera, con i capelli discinti, posta sotto i piedi
del Patrono, circondato da quegli angeli che apparvero sulle
mura suonando le trombe dargento, giustappunto per
cacciare la peste, che sera presentata davanti alla Città
tentando di entrarvi; cosa, ormai appurata, che le sarebbe riuscita
senza lintervento del suo Santo Protettore. |
Ricompare il tema paesaggistico rielaborato in base a canoni naturalistico-luministici
di tradizione squisitamente salentina (Ciardo, modello):
[...] la campagna che si apriva davanti
splendida e veramente miracolosa nel dorato pomeriggio. La campagna
ricca di orti, giardini, ville e villini con le palme da datteri
e gli alberi del pepe; campagna che dava frutta e verdura stupenda;
più stupenda quandera accompagnata dai canti dei
venditori. |
E mitico-estatiche pause riflessive, richiamate da una collettiva
memoria fantastica dellOriente, decorano e quasi sublimano
uniconografia della città- «Creatura privilegiata»
e della campagna circostante, in una solare cornucopia del dare
e del ricevere delle due primitive economie:
Un miraggio da Mille e una notte,
che minebriava inconsapevolmente [...]. Quando comparivano
le belle stagioni questa Città prendeva il fulgore dOriente.
Dalle quattro porte affluivano dentro le sue mura i carretti
spinti a mano o tirati dal più bellanimale del
creato: lasino. Erano carichi di frutta colorata al naturale,
di verdure smaglianti e da canti che ne magnificavano la bontà.
Era tutto un trattare tra il venditore e gli usci da cui uscivano
donne e artigiani. Il sole sovrano colmava a piene mani questa
Creatura privilegiata; non mi sarei mai stupito se, guardando
fuori Porta, avessi visto passare carovane al lento passo del
cammello. |
Caratterizzata, invece, da geometrico-astratto ordine visivo, la
descrizione della chiesa di San Luigi e del collaterale spazio urbano,
sottratta, anche per oggettiva verità, ad occasioni espressionistiche
o chagalliane di precedenti esempi osservati, e levitata a gioco
di pura prospettiva, appena colorata «con un misto di bianco
o celeste leggero che lasciasse trasparire un rosa di vecchia tinteggiatura»,
innalzantesi sopra un «selciato» - «guantiera».
Si ripete qui il senso ludico-fantasmagorico della contemporanea
pittura di Suppressa, sperimentata in geometrizzanti ricomposizioni
di superstiti frammenti illusori di un Sud fra storia e leggenda:
Questa chiesa, in fondo anonima, è
più bella di tante più spocchiose. Mi piace per
essere il più perfetto gioco costruttivo, possibile a
chiunque. E come se uno si ritagliasse un pezzo di selciato,
alzasse una quinta, la prima di tre, e ci mettesse al centro
un portone non grande, piuttosto piccolino, che si portasse
al braccio due finestre e desse un tono di colore di grano maturo.
Il secondo lato più lungo, ma di poco, del primo, e si
chiedesse: Che faccio su questa parete?. E tirasse
un balcone lungo quasi quanto la sua larghezza, sul quale aprire
tre altre finestre, tingendo tutto con un misto di bianco o
celeste leggero, che lasciasse trasparire un rosa di vecchia
tinteggiatura. E infine pensare una chiesa nel terzo lato. Una
chiesa dignitosa nel suo rococò timidamente dichiarato,
dopo averci, prima, piazzato due lampioni ai suoi lati e la
tirasse su con due, tre gradini; ma, ancora, col colpo finale
della perfezione e fantasia, prendere, come fosse una guantiera,
il selciato ed elevarlo di altri tre gradini, che hanno anche
il merito di non contaminare il tutto con la strada. |
Un ultimo momento, tecnicamente interessante, è un tentativo
di descrittivismo oggettivistico secondo un ottico rigore da école
du regard, utile a far riflettere sulle forme finite del realismo
del pittore, specialmente in ordine a presentazioni e rappresentazioni
di primitivi salentini della campagna e della città. Lattenzione
agli «spizziotti» («i ragazzi ricoverati nellospizio
Garibaldi») nel segno espressivo di un finito
fisico essenzialistico, sigillo dalienata immutabilità,
è la stessa che si avverte concentrarsi nei contadini, carrettieri,
bettolieri e artigiani della grande stagione realistica, esauritane
ogni variante espressionistica, e intravista una qual nuova e assoluta
verità darte:
frequentavano la scuola che così
veniva classificata, senza alcuna riserva, popolare. Li accompagnava
il prefetto, un nome importante per degli esseri denutriti e
pallidi; vestivano divise di colore scuro per nascondere il
possibile sudiciume, e chiuse al collo, dal quale appariva una
riga bianca che era una fascetta di tela, che serviva a non
mettere a contatto diretto il giro del collo della giubba con
la carne. Portavano i capelli tagliati a zero, sicché
i crani nudi facevano un certo effetto, apparendo nella forma
oblunga o schiacciata dietro la nuca o sul petto o anche con
bozze. Non erano tempi nemmeno di vera educazione cristiana,
sicché gran simpatia non ne ispiravano, almeno a prima
vista. Mè rimasta lidea che avessero sempre
fame [...]. |
(2 - Fine. La prima parte in Apulia,
n. I / marzo 2003)
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