Giugno 2003

CONTRIBUTI

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Le “bute” della “Rassa”
Mario Marti
 
 

Rassa non è
materia (il tartaro, il grassume delle botti di vino), ma identifica un preciso ufficio comunale.

 

Non credo che siano moltissimi i patiti della Rassa a bute, cioè del “Dramma in lingua leccese”, la cui composizione, da parte di autore ignoto, dovrebbe risalire al primo Settecento; quelli, insomma, che letta l’opera, se ne siano un poco incuriositi e interessati, o che l’abbiano ripercorsa per professionali ragioni di studio, o che l’abbiano studiata più o meno a fondo col risultato di scritti critici specifici e di edizioni più o meno affidabili e corredate. Ma quanti e quali che siano questi patiti, essi ora dovrebbero esser grati a Mariateresa Colotti per un suo recente contributo, apparso nel primo volume degli Studi in onore di Michele Dell’Aquila (voll. XI e XII, nn. 11 e 12, rispettivamente anni 2002 e 2003 di “La nuova ricerca”), pubblicati dagli “Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali”, Pisa-Roma, 2003. Esso reca il titolo seguente: “La Rassa a bute. Dramma in lingua leccese. Note linguistiche”, e vi è collocato alle pp. 223-244.
Si sa che La Rassa a bute è un testo piuttosto difficile; e non tanto per la sua assegnazione – sulla quale ormai s’è d’accordo – al genere letterario dell’ “opera buffa napoletana”, appunto per essa e con essa vivo nel Salento; quanto proprio, e si direbbe quasi esclusivamente, per la peculiare problematica linguistica; un settore tuttora nervoso di opinabili questioni, di dubbi alternativi, e talora di radicali dissensi. L’intervento della Colotti è dedicato pressoché interamente ai problemi appunto della lingua, come l’autrice stessa s’è premurata d’avvertire fin dal titolo, nel quale si precisa: “Note linguistiche”.

Per quanto riguarda me personalmente poi, io sono grato e anche interessato quanto nessun altro mai, per il fatto che la Colotti non affronta né elabora argomenti linguistici generali e di fondo, ma aggredisce sempre (tranne una sola volta, di cui si parlerà alla fine) casi specifici e limitati, d’importanza – per così dire – strettamente locale, solitamente di natura lessico-grafica. E per procedere in questa direzione, s’è dovuta servire delle mie edizioni; e soprattutto di quella “critica”, con traduzione, varianti, commento, capitoli illustrativi e indici (Galatina, Congedo, 1989), ma con un occhio rivolto anche all’altra mia successiva del 1994, inclusa nel Settecento della Letteratura dialettale salentina mia e di Valli per la “BSS”, la quale, rispetto a quella, presenta qualche minimo ritocco. Sono informazioni e indicazioni offerte dalla Colotti stessa a p. 224 del suo lavoro, aggiungendo: “d’altra parte si è controllato direttamente il manoscritto originale”. Posizione critica – si direbbe – assolutamente obbligata e metodologicamente ineccepibile. Ne consegue fatalmente che tutta la sua discettazione percorre la mia edizione critica (1989), caso per caso, punto dopo punto (con le sue “Note linguistiche”), ogni volta che la studiosa ritiene di dover dissentire (ai consensi non v’è luogo) e proporre una soluzione diversa. Sicché, in realtà, e in definitiva, lo studio della Colotti appare come un’attenta e puntigliosa recensione della mia edizione (un tempo si chiamavano recensioni-contributo, poi divenute sempre più rare); come una superiore revisione della problematica linguistica, o di qualche aspetto di essa (il lessicografico), riguardante – è ovvio – direttamente la Rassa a bute. Bersaglio diretto e visibile – dirò scherzosamente con linguaggio tecnico dell’artiglieria – è l’edizione; bersaglio in “falso scopo” l’opera buffa, La Rassa a bute. E qui aggiungerò, francamente, che se si fosse trattato di una discettazione di carattere generale, sarei stato restio a tornare sull’argomento, già da me così a lungo “ruminato”. Ma la Colotti chiama direttamente in causa non l’anonimo autore della Rassa, bensì me personalmente e la mia edizione critica; e dunque mi sarebbe sembrato scorretto, e soprattutto snobbante, non raccogliere un così pressante, e continuamente implicito, invito alla discussione.
E prima di tutto, si festeggi, e si banchetti col vitello più grasso, quando si acquisiscono, con alta percentuale d’essere nel giusto, nuove verità, sia pure minime, a sostituzione di trascorsi errori, o dubbi, o inadeguatezze. La Colotti ce ne offre qui più volte l’occasione, forte della sua competenza specifica (mi risulta essere una dialettologa e glottologa in servizio permanente effettivo nell’area accademica), e dei suoi vari studi sull’opera buffa napoletana; che vengono regolarmente registrati nella bibliografia (p. 240), lemmatizzata per sigle alla fine del suo studio. E’ il caso, per esempio, della parola nasafasi (“no nci trüamu tanti nasafasi”, I, 46), già dalla Longo (e poi anche da me) fatta derivare da nasafa‹u›si (storcimenti di naso per segno di disgusto o disapprovazione); là dove, con perspicua argomentazione linguistica, per sua natura qui non riassumibile, la Colotti propone “tanti imbrogli”, onestamente precisando, per altro: “Si tratta di una spiegazione ancora problematica, ma che tuttavia permette la sicura traduzione” (p. 227).

Altra soluzione proposta dalla Colotti, e che a me sembra indiscutibile, è quella di nnudecare: “Iddha, cu no li fazza nnudecare” (II, 14). Qui nel Salento, ancora oggi tutti sanno bene che cosa sia lu nnùdecu o nnùtecu; è il “nodo” che ti chiude la gola per cause psicologiche o anche, più semplicemente, per cause biologiche. Ora, la Colotti, assai opportunamente, riporta il verbo nnudecare all’italiano “annodare”, sempre sulla base dell’immagine del “nodo”; e lo collega al costume dell’annodare le mani fra due promessi sposi o fra due sposi novelli: “Lei perché [...] non li faccia sposare...” (p. 229). E oltre tutto la spiegazione s’attaglia perfettamente all’azione della commedia.
Assai soddisfacente e linguisticamente acuto m’appare poi il discorso sul già misterioso Räùni: “Räùni me nde vegnu cu te servu” (III, 79). Räùni, dice la Colotti, è “lenizione del normale graduni, ‘gradoni’, da grada, ‘scalini’, e spiega la velocità” di Perulli, pronto a correre, a scapicollarsi, per il piacere di servire Titta (p. 232). E giusto anche pare a me il diverso significato attribuito dalla Colotti al chiarìscase di II, 74, “impallidire”, “impallidisca” (p. 229). Il soggetto è Don Carlo che, per così dire, viene aggirato proprio per essere preso in giro: “Quando Donnu Carlu esse de casa, / tandu lu Titta facimu cu trasa, / mitta l’anieddu... e fazza cce bole” (II, 59-61). Tanto che Don Carlo sarebbe certo costretto a “impallidire”; e, se mai, non “per la vergogna” (come suggerisce la Colotti), che farebbe piuttosto “arrossire”, ma “per la rabbia” d’essere stato aggirato, dunque per un attacco di bile, che si manifesta proprio col pallore epatico.
Varie altre evenienze gioverà ricordare qui rapidamente, perché sono meno radicali, insomma meno incisive; e certe volte anzi confermano la mia precedente ipotesi, sia pure in qualche modo integrandola e sostenendola con altri argomenti, diversi da quelli già addotti. Penso, per esempio, a rusecare st’essu in rima con fuessu (I, 57-59), che la Colotti accosta a spontecare st’uosso in rima con fuosso della Vattaglia di Pagano (p. 228); oppure a mancu sale (II, 131), confermato dalla Colotti nel significato di “niente”, con riferimento alla “tradizione dialettale napoletana” (p. 230); o ancora ai casi di cighi-spennatu (II, 162), di canati ‘mpessemati (II, 170), di me vóta lu sanapu (II, 177), dei quali vengono in sostanza accettate le traduzioni già presenti nella mia edizione critica, e illustrate magari con riflessioni tecniche e rinvii alla letteratura dialettale napoletana, di cui la Colotti appare sempre affidabile dispensiera.
Ed è pure positivamente notevole lo sforzo messo in opera dalla Colotti (p. 233) per ovviare a quella che, secondo me, è una palese e insanabile (senza il microemendamento da me suggerito di mutare il no in mo’, II, 94) incongruenza semantica testuale: “Se l’annata si salva – dice il Mesciu de Chiazza – bisogna proprio dire che pazzi e ragazzi li aiuta Dio. Meno male che il clima è stato fresco, non so se mi capisci; perché, se il clima fosse stato caldo, non si sarebbe sentita (“no s’averia ‘dduratu”) la puzza dei cacacchia” (Sindaco e Rassieri). Qui qualcosa non corre liscio sul filo della logica: nel senso che, se l’annata si è salvata per via del tempo fresco (con implicito e conseguente salvamento dei “cacacchia”), non si capisce davvero come avrebbe potuto essere salva (con medesimo salvamento dei “cacacchia”) anche se il tempo fosse stato caldo. Leggendo mo’ invece di no (“mo’ s’averia ‘dduratu” invece di “no s’averia ‘dduratu”), tutto andrebbe a posto: “che se il tempo fosse stato caldo, ecco che si sarebbe sentita subito la puzza dei ‘cacacchia’”. La Colotti crede di poter cogliere in quella incongruenza “una metafora per la quale si è verificato un forte spostamento semantico” (p. 233); ma adducendo elementi (il preteso putridume del grano, fenomeno però dovuto più a eccesso di umidità che di calore), i quali non compaiono affatto in quel breve passo della Rassa, che qui è stato preso in esame (II, 93-95). In conclusione, confermerei la necessità del ritocco al testo (mo’ per no): “Col clima temperato (“tempi frischi”) la gente sta più quieta e tranquilla; ma col caldo torrido (“se lu sule s’averia scarfatu”) s’imbestialisce e contesta; contro chi, contro i ‘cacacchia’, appunto”. Questo pensa, non so quanto giustamente, – io credo – il civico Mesciu de Chiazza.
Diomio, qualche dissenso è pur naturale che ci sia; e dal confronto è sperabile che ci si avvicini, almeno, alla verità. Mi domando: perché mai canighia (III, 209) dovrebbe significare “canaglia”? (p. 227). Va bene; etimologicamente canigla è il “cibus quo canes nutriuntur... quasi canis nutrimentum”, come dottamente sottolinea la Colotti alla n. 15, con citazioni nientedimeno che da Papias, da Uguccione ecc. Ma la “canaglia”, par chiaro, pur riallacciandosi per antica etimologia a canis, non è stata mai un “cibo”, e sia pure solo per i cani, bensì, come è noto, è stata ed è tutt’altra cosa, ed è fatta di persone. Cibo per i cani e altri animali, segnatamente i maiali, era invece la crusca (o cruscone), che nel dialetto salentino era ed è denominata canighia o canija. Dice Titta: “Preferirei affrontare dieci duelli, piuttosto che avere a che fare (“cu mme spartu”) cu quisti canighia”; e dove canighia è il pastone di crusca per i maiali, onde l’irridente indiretta qualifica (in contrapposizione con la nobile stirpe dei Falconi, citata due versi prima). Grammaticalmente, poi, visto che canighia è singolare, l’autore opera un ardito, ellittico accostamento tra persona, “quisti”, e cosa qualificante, “canighia” (come se dicesse: “con questi merda”).

Un’altra precisazione credo che giovi a proposito del totale scetticismo della Colotti (pp. 225-226) nei confronti della mia ipotesi secondo la quale all’autore della Rassa a bute va riconosciuta “una coscienza linguistica tutt’altro che priva di garbo artistico o di una certa, almeno, tensione letteraria” (ediz. crit., p. 123). La Colotti sceglie solo tre casi, fra i tanti altri molti, da me addotti a sostegno e corredati di una serie di considerazioni critiche, per contestare questa mia analisi (p. 225); e cioè: a) forme latineggianti in -ate (qualitate, cetate, ‘nfermetate ecc.); b) la presenza di asenu invece di ciucciu; c) il verbo tornare (più largamente tornare in) nel significato di “diventare”. Queste sono forme – osserva la Colotti – “ricorrenti ed endemiche nel Sud”; e, specificamente, per tornare, essa aggiunge l’abitualità del codice dell’opera buffa. Vorrei permettermi, al proposito, due osservazioni. La prima, di carattere etico-metodologico: che non pare legittimo, per un giudizio di carattere generale, isolare tre soli casi da una discettazione articolata lungo quasi quattro pagine (121-124 con 150 righe d’impaginato, di larghezza piuttosto notevole).
La seconda, di carattere tecnico-metodologico: che il punto di vista della valutazione linguistica occupato dalla Colotti è certamente importante e rispettabile, ma è anche assai diverso dal mio, che è sostanzialmente storico-stilistico, volto cioè, attraverso l’esame della lingua e dello stile, alla caratterizzazione storica dell’opera d’arte. Che il suffisso -ate sia reperibile anche nel Sidrac (p. 225, nota 8) è notizia preziosa, ma non certo per la caratterizzazione stilistica della Rassa a bute, bensì, magari, per la storia glottologica del suffisso -ate, per chi voglia conoscerne le vicende. E che la parola aseno non compaia nel VDS del Rohlfs, dove invece trionfano ciucciu e derivati, vorrà pur dire qualcosa. Quanto a tornare (e soprattutto tornare in), se risulta ben presente – conforme alle oggettive documentazioni della Colotti – nell’opera buffa napoletana, ebbene questo significa appunto l’antica forza della locuzione tornare e tornare in, che è tipica e originaria dei primi secoli, a penetrare anche nell’opera buffa.

E ora veniamo a discutere, senza alcuna intenzione polemica, ma solo per amore di ricerca verso la verità, delle “scelte sentite come particolari” (ovviamente da me). Queste invece andrebbero riconsegnate, secondo la Colotti, “a un contesto più ampio” (p. 226), come le altre precedenti, in sostanza, e sotto lo stesso riflettore. Ora, alla puntigliosa attenzione della Colotti, la quale afferma appunto – s’è già visto – di aver tenuto d’occhio anche la mia ultima edizione (1994) nonché il manoscritto, è sfuggito che una di queste “scelte particolari”, fatta oggetto di contestazione (e cioè durmecchiune, parola esaminata a pag. 226), è purtroppo cattiva lettura di durmecchiàure, come si legge appunto nel manoscritto e come risulta corretto nella mia ultima edizione (II, 289-290), in rima con temàure. Altra successiva correzione è reperibile in I, 119, dove il verso “Cussì è, cussì bi’” è stato doverosamente corretto in “Cussì è, cussibi!”, col recupero dell’avverbio rinforzato cussibi, ben attestato nei testi narrativi dialettali settecenteschi in dialetto salentino.
“Note linguistiche”, precisa la Colotti nel titolo del suo saggio. Ed effettivamente di “note” si tratta, come s’è visto via via che scorrevano fin qui gli argomenti: casi specifici, limitati, di stretta natura dialettologica o glottologica, soprattutto nel campo della lessicografia dialettale. Più che all’opera nel suo complesso, come organismo d’arte vivo e compatto, la sua attenzione più vera appare stimolata da elementi peculiari di particolare interesse linguistico. Dico “più vera”, perché non è la sola, visto che non mancano allunghi riguardanti l’opera intera; ed è certamente la più viva e la più produttiva. E’ il carattere precipuo dell’intervento. E infatti succede che quando la Colotti passa a considerazioni di carattere generale, voglio dire storico-culturale, si sente che la musica cambia; non è più quella, nella tensione, nell’intonazione, nella struttura compositiva.
Lo si percepisce già subito, quando, all’inizio del suo discorso, l’autrice fa luogo – in corpo minore – al riassunto dell’opera e agli aspetti della sua metrica. E si evocano nientemeno che “loschi personaggi” caparbiamente intenzionati a far fallire “ogni buona intenzione” nei confronti della città affamata (p. 223). “Loschi personaggi”, gli allegri Rassieri Titta, Andrea ecc.? Via; sono delle “maschere” assolutamente “tipiche”, ridotte all’osso, schematizzate, per evidente limite di capacità creative; la Rassa a bute, interessante e stimolante sotto tanti aspetti, non è che sia quel grande capolavoro. E quei Rassieri si rassomigliano come tante gocce d’acqua, anche se qualche goccia è un po’ più grossa (Andrea e Titta, per esempio). Né risulta affatto, dal contesto, che essi operano per “far fallire” l’operazione dell’acquisto di grano; che anzi l’azione comincia proprio con i Rassieri che discutono e s’adoprano come e dove provvedersi subito di grano. Poi, a un certo punto della discussione, sulla battuta di Perulli, che si scusa con Andrea di non essere andato al “visito” per la morte del cognato (I, 110-117), ecco la prima radicale “svolta” (“Rassa a bute”) proprio per attizzamento da parte di Andrea: “Sapiti, Signuri, / cce m’è bbenutu a mente?” (I, 121-122). D’ora in poi tutta l’azione è volta al matrimonio d’interesse, fatta sempre salva la voce del Mesciu de Chiazza, clamantis in deserto; e addirittura un successivo ritorno di fiamma sull’argomento del grano e della carestia fallisce male e subito (nell’ultimo atto). Insomma i Rassieri hanno ben altro cui pensare; del grano, infine, proprio se ne fregano, e della fame della città.
E lo si percepisce anche dalle osservazioni generali sulla metrica, anche esse all’inizio e in corpo minore. Debbo confessare che in questo campo, in questi ultimi tempi m’è accaduto di leggere, o in dattiloscritti o a stampa, davvero cose turche: endecasillabi sdruccioli computati come dodecasillabi; gliommeri impaginati e resi in forma di strofette metastasiane e come tali considerati; la stessa Rassa a bute scritta “in prosa” e sia pure “a tratti” rimata, con “arie” costruite “senza criteri evidenti”. Pare incredibile. La Colotti, in verità, non cade e non ripete errori così grossolani; però cristallizza la metrica dell’opera in “settenari alternati agli endecasillabi” (p. 223); il che non è affatto vero; basterebbe aprire l’edizione in qualsiasi parte o in qualsiasi pagina. E così per le “arie”, che presentano varietà ben più numerose e ricche che i “quartetti” di quinari e di ottonari registrati dalla Colotti. La quale poi, a p. 237, addita una “seconda serie di ottave”; ma ottave lì proprio non se ne vedono; e rileggendo la pagina, insorge l’ipotesi che invece di “ottave” si dovrebbe leggere “ottonari”, di cui sono effettivamente costituite due quartine poco prima riprodotte. A questo proposito io non posso che rimandare alle pp. 114-120 della mia edizione critica (1989), nelle quali analizzo gli elementi e gli aspetti metrici di tutta l’opera.
E alle pp. 97-102 di quella mia stessa edizione critica sono costretto a rinviare anche per il significato del titolo apposto in cima all’opera e ripetuto tante volte in seguito. Perché, a conclusione del suo studio, la Colotti avanza un’altra nuova proposta di significato, senza per altro rifiutarne alcuna delle precedenti (p. 235; Romanello, Longo, Marti), ma tutte strumentalizzandole e distribuendole in un folle gioco polisemico; e senza, non dirò considerare e discutere, ma solo ricordare, sia pure di sfuggita, o citare magari in nota, le osservazioni, gli elementi, le documentazioni da me addotte avverso la ipotesi di Romanello e le ipotesi della Longo. Direi che la Colotti si è lasciata sedurre, insomma è stata irresistibilmente affascinata ed attratta da certe evenienze lessicali leggibili nientemeno che in documenti veneti (veneti, si badi bene) e antichi (antichi, si badi bene, sec. XV), riguardanti ricette gastronomiche. Sono riprodotti a p. 236; e in essi la parola rassa è il “tartaro di botte”, il “grassume di botte” (botte, quella del vino): “rassa de bote”, “rassa de bocti”, “rassa di bocti”. E queste venete e antiche locuzioni di tecnica gastronomica la Colotti pone a base storica ed etimologica dell’inscindibile “nesso sintagmatico” posto a titolo della pièce, non veneta ma salentina, non antica ma settecentesca: La Rassa a bute. E per scrupolo circa la differenza fonetica: “Poco importa – ella avverte – se nella Rassa a bute il raddoppiamento previsto non compare” (p. 237); affermazione sorprendente riferita al ms. moderno e corretto della Rassa (nel “Prologo” ‘ssettati, strittu, Titta, fatta con due t, e poi sempre); e come se, chi sa per quali misteriose e imprevedibili vie e ragioni occulte attraverso i secoli, l’autore della Rassa a bute si fosse trovato ad adottare un antico lessema dialettale veneto per titolo di un settecentesco dramma “in lingua leccese”; tutto leccese nella lingua, tutto leccese nell’azione, tutto leccese nel “paesaggio”. Senza dire del fatto che lungo tutta l’opera bute è sempre bute e soltanto bute (o, naturalmente, ute; mai botte o utte), per evitare confusione tra forme grafiche ed effetti fonetici, insomma tra grafia e pronunzia, ai fini della precisazione semantica. E’ da notare, infatti, che dei tre esempi veneti recati dalla Colotti a p. 236, uno presenta la grafia bote, ma gli altri due presentano entrambi la grafia bocti. Oltre tutto.

Eppure, dico, già dai primi versi del Prologo emerge chiaro qual fosse, per l’autore, il motore centrale di tutta l’azione: “Voi che siete qui seduti – egli esorta – indovinate che cosa si fa in questa commedia: “ognunu ‘pensa [pensi, sappia] / ch’autru furnisce de comu ccumenza”, cioè che la commedia finisce in modo diverso da come comincia (vv. 1-7). E se questo non è il preannunzio di una “svolta” nell’azione, non saprei davvero che cosa possa essere.
E la svolta principale, s’è già detto, è ai vv. 121-125 del primo atto: “Sapete che cosa m’è venuto in mente? ecc.”, dice Andrea; dal che nascono poi voltagiri, maneggi, mene, imbrogli numerosi (le bute). E Andrea è un eminente e attivo componente della Rassa. La quale Rassa, dunque, non è, non può assolutamente essere materia (il tartaro, il grassume delle botti di vino), ma identifica un preciso ufficio comunale (Annona), che è costituito, ovviamente, da persone deputate a farlo funzionare secondo necessità. La Rassa sono quelle persone; le quali, per altro, sono singolarmente nominate fra gli “Interlocutori” all’inizio, nell’indice dei personaggi; Rassieri: Titta, ‘Ndrea, Scanna, Lebetta...”; questi sono gli artefici delle bute, nemine discrepante e d’accordo col signor Sindaco. La controparte è il Mesciu de chiazza, che rappresenta e simboleggia la coscienza civica dell’amministrazione, voce solitaria, inascoltata e derisa dai Rassieri; è lui che puntualmente denuncia le ute dei Rassieri e se ne lamenta; è lui che le rinfaccia, le contesta, le condanna; e di esse, a conclusione, dichiara supremo responsabile proprio il Sindaco: “Cce me cumandi, Mesciu de ute?”. L’ultima proposta invece, che è quella della Colotti (p. 237), è che il Sindaco esercitasse il mestiere di “bottaio”: “E tu che cosa vuoi, maestro bottaio?”; oltre tutto (considerato ciò che finora s’è detto a questo proposito) con un’incredibile contrapposizione fra un’apostrofe di natura giuridica, burocratica, amministrativa (“Mesciu de Chiazza”) e un’altra del tutto privata e assolutamente anacronistica, rivolta a un personaggio che tuttavia era addirittura il Sindaco. Si consideri infine il fatto, abbastanza significativo, che tutte le battute riguardanti le ute, la loro contestazione, la loro condanna sono messe, di solito, sulla bocca del Mesciu de chiazza; sempre amare, sempre irridenti e sferzanti: II, 245; III, 82; III, 99; III, 169; III, 343; III, 366; sempre lui, il Mesciu de Chiazza. E le si accostino agli analoghi e preannunziatori casi del Prologo (vv. 34, 38, 41); e non si potrà, ancora, concludere, se non che le bute, o le ute della Rassa sono sempre e solo voltagiri, svolte, mene, maneggi, imbrogli, in unità e coerenza semantica, stilistica, e anche – il che non guasta – psicologica.

   
   
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