Rassa non è
materia (il tartaro, il grassume delle botti di vino), ma identifica
un preciso ufficio comunale.
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Non credo che siano moltissimi i patiti della Rassa a bute, cioè
del Dramma in lingua leccese, la cui composizione, da
parte di autore ignoto, dovrebbe risalire al primo Settecento; quelli,
insomma, che letta lopera, se ne siano un poco incuriositi
e interessati, o che labbiano ripercorsa per professionali
ragioni di studio, o che labbiano studiata più o meno
a fondo col risultato di scritti critici specifici e di edizioni
più o meno affidabili e corredate. Ma quanti e quali che
siano questi patiti, essi ora dovrebbero esser grati a Mariateresa
Colotti per un suo recente contributo, apparso nel primo volume
degli Studi in onore di Michele DellAquila (voll. XI e XII,
nn. 11 e 12, rispettivamente anni 2002 e 2003 di La nuova
ricerca), pubblicati dagli Istituti Editoriali e Poligrafici
Internazionali, Pisa-Roma, 2003. Esso reca il titolo seguente:
La Rassa a bute. Dramma in lingua leccese. Note linguistiche,
e vi è collocato alle pp. 223-244.
Si sa che La Rassa a bute è un testo piuttosto difficile;
e non tanto per la sua assegnazione sulla quale ormai sè
daccordo al genere letterario dell opera
buffa napoletana, appunto per essa e con essa vivo nel Salento;
quanto proprio, e si direbbe quasi esclusivamente, per la peculiare
problematica linguistica; un settore tuttora nervoso di opinabili
questioni, di dubbi alternativi, e talora di radicali dissensi.
Lintervento della Colotti è dedicato pressoché
interamente ai problemi appunto della lingua, come lautrice
stessa sè premurata davvertire fin dal titolo,
nel quale si precisa: Note linguistiche.
Per quanto riguarda me personalmente poi, io sono grato e anche
interessato quanto nessun altro mai, per il fatto che la Colotti
non affronta né elabora argomenti linguistici generali e
di fondo, ma aggredisce sempre (tranne una sola volta, di cui si
parlerà alla fine) casi specifici e limitati, dimportanza
per così dire strettamente locale, solitamente
di natura lessico-grafica. E per procedere in questa direzione,
sè dovuta servire delle mie edizioni; e soprattutto
di quella critica, con traduzione, varianti, commento,
capitoli illustrativi e indici (Galatina, Congedo, 1989), ma con
un occhio rivolto anche allaltra mia successiva del 1994,
inclusa nel Settecento della Letteratura dialettale salentina mia
e di Valli per la BSS, la quale, rispetto a quella,
presenta qualche minimo ritocco. Sono informazioni e indicazioni
offerte dalla Colotti stessa a p. 224 del suo lavoro, aggiungendo:
daltra parte si è controllato direttamente il
manoscritto originale. Posizione critica si direbbe
assolutamente obbligata e metodologicamente ineccepibile.
Ne consegue fatalmente che tutta la sua discettazione percorre la
mia edizione critica (1989), caso per caso, punto dopo punto (con
le sue Note linguistiche), ogni volta che la studiosa
ritiene di dover dissentire (ai consensi non vè luogo)
e proporre una soluzione diversa. Sicché, in realtà,
e in definitiva, lo studio della Colotti appare come unattenta
e puntigliosa recensione della mia edizione (un tempo si chiamavano
recensioni-contributo, poi divenute sempre più rare); come
una superiore revisione della problematica linguistica, o di qualche
aspetto di essa (il lessicografico), riguardante è
ovvio direttamente la Rassa a bute. Bersaglio diretto e visibile
dirò scherzosamente con linguaggio tecnico dellartiglieria
è ledizione; bersaglio in falso scopo
lopera buffa, La Rassa a bute. E qui aggiungerò, francamente,
che se si fosse trattato di una discettazione di carattere generale,
sarei stato restio a tornare sullargomento, già da
me così a lungo ruminato. Ma la Colotti chiama
direttamente in causa non lanonimo autore della Rassa, bensì
me personalmente e la mia edizione critica; e dunque mi sarebbe
sembrato scorretto, e soprattutto snobbante, non raccogliere un
così pressante, e continuamente implicito, invito alla discussione.
E prima di tutto, si festeggi, e si banchetti col vitello più
grasso, quando si acquisiscono, con alta percentuale dessere
nel giusto, nuove verità, sia pure minime, a sostituzione
di trascorsi errori, o dubbi, o inadeguatezze. La Colotti ce ne
offre qui più volte loccasione, forte della sua competenza
specifica (mi risulta essere una dialettologa e glottologa in servizio
permanente effettivo nellarea accademica), e dei suoi vari
studi sullopera buffa napoletana; che vengono regolarmente
registrati nella bibliografia (p. 240), lemmatizzata per sigle alla
fine del suo studio. E il caso, per esempio, della parola
nasafasi (no nci trüamu tanti nasafasi, I, 46),
già dalla Longo (e poi anche da me) fatta derivare da nasafausi
(storcimenti di naso per segno di disgusto o disapprovazione); là
dove, con perspicua argomentazione linguistica, per sua natura qui
non riassumibile, la Colotti propone tanti imbrogli,
onestamente precisando, per altro: Si tratta di una spiegazione
ancora problematica, ma che tuttavia permette la sicura traduzione
(p. 227).
Altra soluzione proposta dalla Colotti, e che a me sembra indiscutibile,
è quella di nnudecare: Iddha, cu no li fazza nnudecare
(II, 14). Qui nel Salento, ancora oggi tutti sanno bene che cosa
sia lu nnùdecu o nnùtecu; è il nodo
che ti chiude la gola per cause psicologiche o anche, più
semplicemente, per cause biologiche. Ora, la Colotti, assai opportunamente,
riporta il verbo nnudecare allitaliano annodare,
sempre sulla base dellimmagine del nodo; e lo
collega al costume dellannodare le mani fra due promessi sposi
o fra due sposi novelli: Lei perché [...] non li faccia
sposare... (p. 229). E oltre tutto la spiegazione sattaglia
perfettamente allazione della commedia.
Assai soddisfacente e linguisticamente acuto mappare poi il
discorso sul già misterioso Räùni: Räùni
me nde vegnu cu te servu (III, 79). Räùni, dice
la Colotti, è lenizione del normale graduni, gradoni,
da grada, scalini, e spiega la velocità
di Perulli, pronto a correre, a scapicollarsi, per il piacere di
servire Titta (p. 232). E giusto anche pare a me il diverso significato
attribuito dalla Colotti al chiarìscase di II, 74, impallidire,
impallidisca (p. 229). Il soggetto è Don Carlo
che, per così dire, viene aggirato proprio per essere preso
in giro: Quando Donnu Carlu esse de casa, / tandu lu Titta
facimu cu trasa, / mitta lanieddu... e fazza cce bole
(II, 59-61). Tanto che Don Carlo sarebbe certo costretto a impallidire;
e, se mai, non per la vergogna (come suggerisce la Colotti),
che farebbe piuttosto arrossire, ma per la rabbia
dessere stato aggirato, dunque per un attacco di bile, che
si manifesta proprio col pallore epatico.
Varie altre evenienze gioverà ricordare qui rapidamente,
perché sono meno radicali, insomma meno incisive; e certe
volte anzi confermano la mia precedente ipotesi, sia pure in qualche
modo integrandola e sostenendola con altri argomenti, diversi da
quelli già addotti. Penso, per esempio, a rusecare stessu
in rima con fuessu (I, 57-59), che la Colotti accosta a spontecare
stuosso in rima con fuosso della Vattaglia di Pagano (p. 228);
oppure a mancu sale (II, 131), confermato dalla Colotti nel significato
di niente, con riferimento alla tradizione dialettale
napoletana (p. 230); o ancora ai casi di cighi-spennatu (II,
162), di canati mpessemati (II, 170), di me vóta lu
sanapu (II, 177), dei quali vengono in sostanza accettate le traduzioni
già presenti nella mia edizione critica, e illustrate magari
con riflessioni tecniche e rinvii alla letteratura dialettale napoletana,
di cui la Colotti appare sempre affidabile dispensiera.
Ed è pure positivamente notevole lo sforzo messo in opera
dalla Colotti (p. 233) per ovviare a quella che, secondo me, è
una palese e insanabile (senza il microemendamento da me suggerito
di mutare il no in mo, II, 94) incongruenza semantica testuale:
Se lannata si salva dice il Mesciu de Chiazza
bisogna proprio dire che pazzi e ragazzi li aiuta Dio. Meno
male che il clima è stato fresco, non so se mi capisci; perché,
se il clima fosse stato caldo, non si sarebbe sentita (no
saveria dduratu) la puzza dei cacacchia
(Sindaco e Rassieri). Qui qualcosa non corre liscio sul filo della
logica: nel senso che, se lannata si è salvata per
via del tempo fresco (con implicito e conseguente salvamento dei
cacacchia), non si capisce davvero come avrebbe potuto
essere salva (con medesimo salvamento dei cacacchia)
anche se il tempo fosse stato caldo. Leggendo mo invece di
no (mo saveria dduratu invece di no
saveria dduratu), tutto andrebbe a posto: che
se il tempo fosse stato caldo, ecco che si sarebbe sentita subito
la puzza dei cacacchia. La Colotti crede di poter
cogliere in quella incongruenza una metafora per la quale
si è verificato un forte spostamento semantico (p.
233); ma adducendo elementi (il preteso putridume del grano, fenomeno
però dovuto più a eccesso di umidità che di
calore), i quali non compaiono affatto in quel breve passo della
Rassa, che qui è stato preso in esame (II, 93-95). In conclusione,
confermerei la necessità del ritocco al testo (mo per
no): Col clima temperato (tempi frischi) la gente
sta più quieta e tranquilla; ma col caldo torrido (se
lu sule saveria scarfatu) simbestialisce e contesta;
contro chi, contro i cacacchia, appunto. Questo
pensa, non so quanto giustamente, io credo il civico
Mesciu de Chiazza.
Diomio, qualche dissenso è pur naturale che ci sia; e dal
confronto è sperabile che ci si avvicini, almeno, alla verità.
Mi domando: perché mai canighia (III, 209) dovrebbe significare
canaglia? (p. 227). Va bene; etimologicamente canigla
è il cibus quo canes nutriuntur... quasi canis nutrimentum,
come dottamente sottolinea la Colotti alla n. 15, con citazioni
nientedimeno che da Papias, da Uguccione ecc. Ma la canaglia,
par chiaro, pur riallacciandosi per antica etimologia a canis, non
è stata mai un cibo, e sia pure solo per i cani,
bensì, come è noto, è stata ed è tuttaltra
cosa, ed è fatta di persone. Cibo per i cani e altri animali,
segnatamente i maiali, era invece la crusca (o cruscone), che nel
dialetto salentino era ed è denominata canighia o canija.
Dice Titta: Preferirei affrontare dieci duelli, piuttosto
che avere a che fare (cu mme spartu) cu quisti canighia;
e dove canighia è il pastone di crusca per i maiali, onde
lirridente indiretta qualifica (in contrapposizione con la
nobile stirpe dei Falconi, citata due versi prima). Grammaticalmente,
poi, visto che canighia è singolare, lautore opera
un ardito, ellittico accostamento tra persona, quisti,
e cosa qualificante, canighia (come se dicesse: con
questi merda).
Unaltra precisazione credo che giovi a proposito del totale
scetticismo della Colotti (pp. 225-226) nei confronti della mia
ipotesi secondo la quale allautore della Rassa a bute va riconosciuta
una coscienza linguistica tuttaltro che priva di garbo
artistico o di una certa, almeno, tensione letteraria (ediz.
crit., p. 123). La Colotti sceglie solo tre casi, fra i tanti altri
molti, da me addotti a sostegno e corredati di una serie di considerazioni
critiche, per contestare questa mia analisi (p. 225); e cioè:
a) forme latineggianti in -ate (qualitate, cetate, nfermetate
ecc.); b) la presenza di asenu invece di ciucciu; c) il verbo tornare
(più largamente tornare in) nel significato di diventare.
Queste sono forme osserva la Colotti ricorrenti
ed endemiche nel Sud; e, specificamente, per tornare, essa
aggiunge labitualità del codice dellopera buffa.
Vorrei permettermi, al proposito, due osservazioni. La prima, di
carattere etico-metodologico: che non pare legittimo, per un giudizio
di carattere generale, isolare tre soli casi da una discettazione
articolata lungo quasi quattro pagine (121-124 con 150 righe dimpaginato,
di larghezza piuttosto notevole).
La seconda, di carattere tecnico-metodologico: che il punto di vista
della valutazione linguistica occupato dalla Colotti è certamente
importante e rispettabile, ma è anche assai diverso dal mio,
che è sostanzialmente storico-stilistico, volto cioè,
attraverso lesame della lingua e dello stile, alla caratterizzazione
storica dellopera darte. Che il suffisso -ate sia reperibile
anche nel Sidrac (p. 225, nota 8) è notizia preziosa, ma
non certo per la caratterizzazione stilistica della Rassa a bute,
bensì, magari, per la storia glottologica del suffisso -ate,
per chi voglia conoscerne le vicende. E che la parola aseno non
compaia nel VDS del Rohlfs, dove invece trionfano ciucciu e derivati,
vorrà pur dire qualcosa. Quanto a tornare (e soprattutto
tornare in), se risulta ben presente conforme alle oggettive
documentazioni della Colotti nellopera buffa napoletana,
ebbene questo significa appunto lantica forza della locuzione
tornare e tornare in, che è tipica e originaria dei primi
secoli, a penetrare anche nellopera buffa.
E ora veniamo a discutere, senza alcuna intenzione polemica, ma
solo per amore di ricerca verso la verità, delle scelte
sentite come particolari (ovviamente da me). Queste invece
andrebbero riconsegnate, secondo la Colotti, a un contesto
più ampio (p. 226), come le altre precedenti, in sostanza,
e sotto lo stesso riflettore. Ora, alla puntigliosa attenzione della
Colotti, la quale afferma appunto sè già
visto di aver tenuto docchio anche la mia ultima edizione
(1994) nonché il manoscritto, è sfuggito che una di
queste scelte particolari, fatta oggetto di contestazione
(e cioè durmecchiune, parola esaminata a pag. 226), è
purtroppo cattiva lettura di durmecchiàure, come si legge
appunto nel manoscritto e come risulta corretto nella mia ultima
edizione (II, 289-290), in rima con temàure. Altra successiva
correzione è reperibile in I, 119, dove il verso Cussì
è, cussì bi è stato doverosamente
corretto in Cussì è, cussibi!, col recupero
dellavverbio rinforzato cussibi, ben attestato nei testi narrativi
dialettali settecenteschi in dialetto salentino.
Note linguistiche, precisa la Colotti nel titolo del
suo saggio. Ed effettivamente di note si tratta, come
sè visto via via che scorrevano fin qui gli argomenti:
casi specifici, limitati, di stretta natura dialettologica o glottologica,
soprattutto nel campo della lessicografia dialettale. Più
che allopera nel suo complesso, come organismo darte
vivo e compatto, la sua attenzione più vera appare stimolata
da elementi peculiari di particolare interesse linguistico. Dico
più vera, perché non è la sola,
visto che non mancano allunghi riguardanti lopera intera;
ed è certamente la più viva e la più produttiva.
E il carattere precipuo dellintervento. E infatti succede
che quando la Colotti passa a considerazioni di carattere generale,
voglio dire storico-culturale, si sente che la musica cambia; non
è più quella, nella tensione, nellintonazione,
nella struttura compositiva.
Lo si percepisce già subito, quando, allinizio del
suo discorso, lautrice fa luogo in corpo minore
al riassunto dellopera e agli aspetti della sua metrica. E
si evocano nientemeno che loschi personaggi caparbiamente
intenzionati a far fallire ogni buona intenzione nei
confronti della città affamata (p. 223). Loschi personaggi,
gli allegri Rassieri Titta, Andrea ecc.? Via; sono delle maschere
assolutamente tipiche, ridotte allosso, schematizzate,
per evidente limite di capacità creative; la Rassa a bute,
interessante e stimolante sotto tanti aspetti, non è che
sia quel grande capolavoro. E quei Rassieri si rassomigliano come
tante gocce dacqua, anche se qualche goccia è un po
più grossa (Andrea e Titta, per esempio). Né risulta
affatto, dal contesto, che essi operano per far fallire
loperazione dellacquisto di grano; che anzi lazione
comincia proprio con i Rassieri che discutono e sadoprano
come e dove provvedersi subito di grano. Poi, a un certo punto della
discussione, sulla battuta di Perulli, che si scusa con Andrea di
non essere andato al visito per la morte del cognato
(I, 110-117), ecco la prima radicale svolta (Rassa
a bute) proprio per attizzamento da parte di Andrea: Sapiti,
Signuri, / cce mè bbenutu a mente? (I, 121-122).
Dora in poi tutta lazione è volta al matrimonio
dinteresse, fatta sempre salva la voce del Mesciu de Chiazza,
clamantis in deserto; e addirittura un successivo ritorno di fiamma
sullargomento del grano e della carestia fallisce male e subito
(nellultimo atto). Insomma i Rassieri hanno ben altro cui
pensare; del grano, infine, proprio se ne fregano, e della fame
della città.
E lo si percepisce anche dalle osservazioni generali sulla metrica,
anche esse allinizio e in corpo minore. Debbo confessare che
in questo campo, in questi ultimi tempi mè accaduto
di leggere, o in dattiloscritti o a stampa, davvero cose turche:
endecasillabi sdruccioli computati come dodecasillabi; gliommeri
impaginati e resi in forma di strofette metastasiane e come tali
considerati; la stessa Rassa a bute scritta in prosa
e sia pure a tratti rimata, con arie costruite
senza criteri evidenti. Pare incredibile. La Colotti,
in verità, non cade e non ripete errori così grossolani;
però cristallizza la metrica dellopera in settenari
alternati agli endecasillabi (p. 223); il che non è
affatto vero; basterebbe aprire ledizione in qualsiasi parte
o in qualsiasi pagina. E così per le arie, che
presentano varietà ben più numerose e ricche che i
quartetti di quinari e di ottonari registrati dalla
Colotti. La quale poi, a p. 237, addita una seconda serie
di ottave; ma ottave lì proprio non se ne vedono; e
rileggendo la pagina, insorge lipotesi che invece di ottave
si dovrebbe leggere ottonari, di cui sono effettivamente
costituite due quartine poco prima riprodotte. A questo proposito
io non posso che rimandare alle pp. 114-120 della mia edizione critica
(1989), nelle quali analizzo gli elementi e gli aspetti metrici
di tutta lopera.
E alle pp. 97-102 di quella mia stessa edizione critica sono costretto
a rinviare anche per il significato del titolo apposto in cima allopera
e ripetuto tante volte in seguito. Perché, a conclusione
del suo studio, la Colotti avanza unaltra nuova proposta di
significato, senza per altro rifiutarne alcuna delle precedenti
(p. 235; Romanello, Longo, Marti), ma tutte strumentalizzandole
e distribuendole in un folle gioco polisemico; e senza, non dirò
considerare e discutere, ma solo ricordare, sia pure di sfuggita,
o citare magari in nota, le osservazioni, gli elementi, le documentazioni
da me addotte avverso la ipotesi di Romanello e le ipotesi della
Longo. Direi che la Colotti si è lasciata sedurre, insomma
è stata irresistibilmente affascinata ed attratta da certe
evenienze lessicali leggibili nientemeno che in documenti veneti
(veneti, si badi bene) e antichi (antichi, si badi bene, sec. XV),
riguardanti ricette gastronomiche. Sono riprodotti a p. 236; e in
essi la parola rassa è il tartaro di botte, il
grassume di botte (botte, quella del vino): rassa
de bote, rassa de bocti, rassa di bocti.
E queste venete e antiche locuzioni di tecnica gastronomica la Colotti
pone a base storica ed etimologica dellinscindibile nesso
sintagmatico posto a titolo della pièce, non veneta
ma salentina, non antica ma settecentesca: La Rassa a bute. E per
scrupolo circa la differenza fonetica: Poco importa
ella avverte se nella Rassa a bute il raddoppiamento previsto
non compare (p. 237); affermazione sorprendente riferita al
ms. moderno e corretto della Rassa (nel Prologo ssettati,
strittu, Titta, fatta con due t, e poi sempre); e come se, chi sa
per quali misteriose e imprevedibili vie e ragioni occulte attraverso
i secoli, lautore della Rassa a bute si fosse trovato ad adottare
un antico lessema dialettale veneto per titolo di un settecentesco
dramma in lingua leccese; tutto leccese nella lingua,
tutto leccese nellazione, tutto leccese nel paesaggio.
Senza dire del fatto che lungo tutta lopera bute è
sempre bute e soltanto bute (o, naturalmente, ute; mai botte o utte),
per evitare confusione tra forme grafiche ed effetti fonetici, insomma
tra grafia e pronunzia, ai fini della precisazione semantica. E
da notare, infatti, che dei tre esempi veneti recati dalla Colotti
a p. 236, uno presenta la grafia bote, ma gli altri due presentano
entrambi la grafia bocti. Oltre tutto.
Eppure, dico, già dai primi versi del Prologo emerge chiaro
qual fosse, per lautore, il motore centrale di tutta lazione:
Voi che siete qui seduti egli esorta indovinate
che cosa si fa in questa commedia: ognunu pensa [pensi,
sappia] / chautru furnisce de comu ccumenza, cioè
che la commedia finisce in modo diverso da come comincia (vv. 1-7).
E se questo non è il preannunzio di una svolta
nellazione, non saprei davvero che cosa possa essere.
E la svolta principale, sè già detto, è
ai vv. 121-125 del primo atto: Sapete che cosa mè
venuto in mente? ecc., dice Andrea; dal che nascono poi voltagiri,
maneggi, mene, imbrogli numerosi (le bute). E Andrea è un
eminente e attivo componente della Rassa. La quale Rassa, dunque,
non è, non può assolutamente essere materia (il tartaro,
il grassume delle botti di vino), ma identifica un preciso ufficio
comunale (Annona), che è costituito, ovviamente, da persone
deputate a farlo funzionare secondo necessità. La Rassa sono
quelle persone; le quali, per altro, sono singolarmente nominate
fra gli Interlocutori allinizio, nellindice
dei personaggi; Rassieri: Titta, Ndrea, Scanna, Lebetta...;
questi sono gli artefici delle bute, nemine discrepante e daccordo
col signor Sindaco. La controparte è il Mesciu de chiazza,
che rappresenta e simboleggia la coscienza civica dellamministrazione,
voce solitaria, inascoltata e derisa dai Rassieri; è lui
che puntualmente denuncia le ute dei Rassieri e se ne lamenta; è
lui che le rinfaccia, le contesta, le condanna; e di esse, a conclusione,
dichiara supremo responsabile proprio il Sindaco: Cce me cumandi,
Mesciu de ute?. Lultima proposta invece, che è
quella della Colotti (p. 237), è che il Sindaco esercitasse
il mestiere di bottaio: E tu che cosa vuoi, maestro
bottaio?; oltre tutto (considerato ciò che finora sè
detto a questo proposito) con unincredibile contrapposizione
fra unapostrofe di natura giuridica, burocratica, amministrativa
(Mesciu de Chiazza) e unaltra del tutto privata
e assolutamente anacronistica, rivolta a un personaggio che tuttavia
era addirittura il Sindaco. Si consideri infine il fatto, abbastanza
significativo, che tutte le battute riguardanti le ute, la loro
contestazione, la loro condanna sono messe, di solito, sulla bocca
del Mesciu de chiazza; sempre amare, sempre irridenti e sferzanti:
II, 245; III, 82; III, 99; III, 169; III, 343; III, 366; sempre
lui, il Mesciu de Chiazza. E le si accostino agli analoghi e preannunziatori
casi del Prologo (vv. 34, 38, 41); e non si potrà, ancora,
concludere, se non che le bute, o le ute della Rassa sono sempre
e solo voltagiri, svolte, mene, maneggi, imbrogli, in unità
e coerenza semantica, stilistica, e anche il che non guasta
psicologica.
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