Giugno 2003

SPECCHI

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Un padre
Antonio Errico
 
 

Mi vorticavano
nella testa le parole di Capalò:
ho sentito che tuo figlio l’hanno visto con gli zingari fuori dalle mura.

 

Lo avrei portato al circo quella sera, come una volta, come un’altra sera, lo avrei portato al circo quella sera che nevicava come un’altra sera che nevicava quando andammo al circo mentre nevicava come se fosse farina, nevicava, e lui stringeva gli occhi per gli acrobati che saltavano nel vuoto e io gli sfregavo la schiena con la mano per riscaldarlo, per rassicurarlo, perché aveva paura dei salti dentro il vuoto e fuori nevicava e nevicava.
Non lo vedo più. Adesso sono vecchio. Gli anni non li conto. Non m’importa. Sarà invecchiato anche lui ormai. Ho smesso di aspettarlo. Non immagino nemmeno come sia, adesso. Ce l’ho negli occhi il mattino ch’è partito, ce l’ho negli occhi quando nevicava, quella sera che lo portai al circo mentre nevicava.
Questo di lui ho negli occhi.
Poi ho scordato. Tutto il resto ormai l’ho scordato.
Ora vorrei scordare anche quel mattino. Vorrei scordare anche quella sera.
Mai avrei voluto rivederlo un’altra volta, parlargli un’altra volta sola, almeno, chiedergli come stai, almeno, sentire un’altra volta la sua voce, avrei voluto che mi dicesse ancora dormi, non ritorno tardi questa sera, mi diceva non torno tardi quando usciva e non finiva di baciare mai sua madre, mai finiva di baciarla quando usciva.
Non riesco a capire perché non è tornato. Perché non è tornato non lo so capire.
Da una guerra si deve ritornare. Se non si muore si deve ritornare. A casa. A quella che hai lasciato. A quello che c’era prima della guerra. A quello che avevi prima di partire. Se non si muore si deve ritornare. A casa. E lui non è morto. Lo so. Tutti lo sanno. Lo dicevano tutti quelli che tornavano che lui non era morto.
Non riesco a capire perché non è tornato. A casa.
Non lo aspetto più, ormai. Ma certe sere, certe sere dal fondo della strada, certe sere quando è già imbrunito, certe sere mi sembra di vederlo che ritorna dal fondo della strada, e mi sembra che mi rassomigli, adesso, quando lo vedo che torna dalla strada, stanco, sudato, mi sembra di vederlo che ritorna dal fondo della strada quando è già imbrunito, mi sembra di vederlo.
Tutte le volte mi distrae una volpe che passa da un ciglio all’altro della strada.
Mi chiedo da che parte avrà la tana, se qualcuno l’aspetta nella tana.

Sta tornando l’inverno. Un altro inverno. Bisogna spostare la legna, metterla al riparo. Fra qualche giorno forse arriverà la pioggia. Arriverà la pioggia che non la stai aspettando, senza che s’annunci con un tuono. Bisogna mettere la legna al riparo.
Sono stato tutto questo tempo senza parlare mai di lui, a nessuno. E nessuno mi ha chiesto mai di lui.
Per un po’ sono corse tante voci. Sono corse tante voci strane. Poi lentamente sono svaporate. Si sa com’è quando corrono le voci.
Ora nessuno parla più. Però sono corse tante voci.
Una sera, un anno fa o dieci non ricordo, Capalò mi disse: Laerte, ho sentito che tuo figlio l’hanno visto con gli zingari fuori dalle mura.
Disse così, senza alzare gli occhi dalle carte.
Nemmeno Ermete e Imerio alzarono gli occhi dalle carte.
Nemmeno io alzai gli occhi dalle carte.
Da casa uscivo poco. Provavo come un senso di vergogna a farmi vedere nel paese. Non mi apparteneva più niente del paese. La gente, le strade, gli angoli, la piazza, non mi appartenevano più. Non mi apparteneva niente.
Non so perché uscii quella sera, non so perché tornai dentro quel bar.
Forse per un’abitudine, per uno scarto del pensiero che mi riportò indietro, senza cognizione.
Vidi l’insegna da lontano, illuminata a metà. Dentro era tutto come ricordavo, come se non fosse accaduto niente, come se la guerra non fosse mai passata, di là. Mi salutarono come se mancassi solo da una sera.
Mi sedetti al tavolo con Imerio, Ermete, Capalò, come se non fosse accaduto niente, come se non fosse passata una guerra di là.
Quando Capalò mi disse così, nessuno alzò gli occhi dalle carte. Mi sentii una debolezza nelle gambe, un sudore freddo colarmi per la schiena.
Andammo via dal bar all’ora che si andava via dal bar. Come se non fosse accaduto niente. Si andava via sempre in due o tre, secondo la direzione delle nostre case.
Io quella sera m’incamminai verso le mura, solo. Con calma. Lentamente.
Cominciava a scendere quella nebbia leggera di novembre.
Alle mura non c’erano più le sentinelle. La guerra era finita. Molti erano morti. Molti erano tornati. Perché se non si muore da una guerra si ritorna.
Lui non era morto e non era ritornato.
Mi vorticavano nella testa le parole di Capalò: ho sentito che tuo figlio l’hanno visto con gli zingari fuori dalle mura.
Non avevo ansia. Anzi, sentivo dentro me una tranquillità d’indifferenza.

Alla luce giallastra delle lampade appese alle roulotte non mi accorsi da dove uscì quell’uomo che andò a legare il sacco della biada al collo del cavallo.
Mi avvicinai e gli chiesi se tra di loro ci fosse uno forestiero.
Mi guardò in silenzio, a lungo, oppure sembrò a me che fosse lungo il tempo che l’uomo mi guardò.
Pensai che non avesse capito la domanda, pensai che non conoscesse la mia lingua.
Dissi: vorrei sapere se fra di voi c’è uno forestiero.
Disse: tutti noi che siamo qui siamo forestieri.
Dissi: uno che è di qui, che è di queste parti.
Disse: siamo di queste parti tutti noi, anche di queste parti.
Dissi: uno che ha fatto la guerra e che non è tornato.
Disse: nessuno di noi è mai ritornato.
Dissi: vorrei sapere se fra di voi c’è uno forestiero.
Mi guardò in silenzio, a lungo, oppure sembrò a me che fosse lungo il tempo che l’uomo mi guardò.
Mi rodevano il cervello le parole di Capalò: ho sentito che tuo figlio l’hanno visto con gli zingari fuori dalle mura.

Non lo aspettavo più da molto tempo.
Accade a un certo punto che non si aspetti più.
Non che uno si stanchi, che uno si sconsoli, che perda la speranza, l’illusione.
Accade che non si aspetti più. Basta. Forse senza nemmeno una ragione.
A me accadde all’improvviso. Così. Come se non avessi mai aspettato.
All’improvviso, così, dal fondo della strada non arriva più nessuno, all’improvviso, così, non pensi più che possa arrivare qualcuno.
A volte t’infastidisce anche ricordare che un tempo hai aspettato, e in qualche confusione della mente non ricordi nemmeno più chi hai aspettato, e perché dovesse ritornare chi aspettavi, e da dove dovesse ritornare chi aspettavi.
A un certo punto ho smesso di aspettare, all’improvviso, così, cominciai a rendermi conto che le sere passavano più in fretta, che erano più serene le mattine, l’insonnia mi diede un po’ di tregua, ricominciai a dormire senza soprassalti, no, non che non mi svegliassi, ma non avevo più quel batticuore che mi soffocava, che mi costringeva a uscire nel giardino, ad appoggiarmi al tronco del mandorlo aspettando che l’angoscia si sperdesse nella notte.
A un certo punto ho smesso di aspettare.
Chi non era morto era già tornato.

Non mi rispose sì, non mi rispose no, quella sera lo zingaro fuori dalle mura.
Per la strada verso casa andavo a passi svelti, c’era odore di oleandri, non nevicava più, da lontano mi arrivava la musica del circo, lo tenevo per la mano, non aveva più paura, ma il suo cappotto era più corto, i suoi capelli erano bianchi, ora la guerra era finita, si poteva ritornare, adesso torno presto, tornerò ogni sera presto mi diceva e io correvo, io correvo verso casa, nessuno mi aspettava, nessuno lo aspettava, ma io correvo verso casa, lui correva verso casa.

   
   
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