Giugno 2003

SOMIGLIANZE E DIFFERENZE

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Dalla Bosnia all'Iraq
Predrag Matvejevic
 
 

 

 

Per capire qualcosa di più degli interventi militari nell’ex Jugoslavia, e di quello in Iraq, è utile ricordare Sarajevo. Nel ‘92 Sarajevo subì più di mille e trecento giorni d’assedio, il più lungo della nuova storia d’Europa, più lungo persino dei novecento eroici giorni di Leningrado, durante la seconda guerra mondiale.
Ero a Sarajevo, in quei giorni, per un gesto di solidarietà verso la gente che soffriva, verso il Paese dove sono nato. Ero lì a sfogliare questa pagina a un tempo gloriosa e tragica della storia europea. Nessuno capiva le ragioni di quella guerra: nazionale, etnica, religiosa, o cos’altro? – ci si domandava. L’informazione non aiutava, non riusciva a descrivere, quindi a circoscrivere quanto stava accadendo. Clausewitz diceva che «un avvenimento che non sia accuratamente ricostruito in ogni sua parte è come un oggetto visto da troppo lontano: si presenta da ogni lato allo stesso modo, e non se ne distingue più la disposizione delle parti. E’ difficile ricostruire ed evocare gli avvenimenti storici in modo tale da poterli utilizzare come prove». Così non si poteva capire perché veniva colpito un Islam laico in Bosnia, più laico di tutte le sue versioni asiatiche e africane, fatto di gente slava come noi, serbi, croati, montenegrini; gente che ci assomigliava, che parlava praticamente la stessa lingua dei Serbi e Croati, e aveva la stessa origine.
L’Europa non ha saputo riconoscere in questo Islam laico un modello da opporre al fondamentalismo e all’integralismo che covava altrove. «Eravamo troppo pochi per diventare lago e troppi per essere inghiottiti dalla terra», diceva lo scrittore Mehmed Mesa Selimovic, bosniaco d’origine musulmana. Così si svolgeva l’assedio di Sarajevo, e in questa situazione ebbero via libera le violenze di Karadizc e di Mladic, che poi abbiamo scoperto essere burattini di Milosevic.
L’Europa non riuscì a fare gran che. Tranne enormi errori: come quando nel ‘95 le truppe ForprOnu, di stanza a Srebrenica, lasciarono massacrare settemila bosniaci musulmani. Quando fu bombardata la base degli aggressori che da Pale bombardavano Sarajevo, questo fu considerato un atto necessario e anche molti pacifisti erano d’accordo. Ne derivarono poi i patti di Dayton, che in un primo momento sembravano aver messo fine alla guerra. Presto però Dayton si rivelò un intralcio per pacificare la Bosnia: la Bosnia rimase divisa, oggi non produce nulla, vive di soli aiuti. L’Arabia Saudita ha costruito nuove moschee, distribuito soldi e importato un Islam che non c’era mai stato in questa regione – una specie di wahabismo. Questo va ricordato quando pensiamo alla situazione post-bellica in Iraq.

L’ultimo dopoguerra nei Balcani è quello successivo al bombardamento di Belgrado, nel 1999. Il nazionalismo di Milosevic si era accanito contro il Kosovo, settecentomila kosovari furono sfollati e spinti nel fango. Sono andato sulla sponda italiana, a Otranto, per stare vicino ai profughi kosovari. Arrivavano a centinaia in gommoni carichi di gente poverissima; alcuni si erano imbarcati ed era la prima volta che vedevano il mare. Anche in questo caso si pose il problema se bombardare o no. Ero contrario, ma combattuto: avevo tanti amici a Belgrado e in Serbia, che consideravo fratelli, malgrado i conflitti e le differenze. Mi dicevo, da una parte: Milosevic deve essere distrutto. Dall’altra, mi era intollerabile sapere che le vittime sarebbero state ancora i poveri innocenti. Tanti amici iracheni hanno lo stesso atteggiamento: erano contro Saddam Hussein, ma anche contro i bombardamenti americani che colpivano la popolazione.
Oggi possiamo vedere i risultati balcanici: la Bosnia, esangue, non riesce a farsi Stato; la Serbia è alla miseria, preda di criminali e mafie, come dimostra il recente assassinio di un politico colto e illuminato come Zoran Djindjic. La ex Jugoslavia, un Paese prospero, aperto e più sano di qualsiasi altro dell’Europa dell’Est, oggi non è in Europa (tranne la piccola Slovenia), né è certo che potrà entrarvi nel 2007 accanto alla Bulgaria e alla Romania, che erano e sono ancora molto meno sviluppate. Il ritardo di tutta quest’area si è intensificato, non è stato risolto niente, tanto meno il problema del Kosovo, sul quale c’è una risoluzione dell’Onu (ma chi rispetta le risoluzioni dell’Onu?) secondo la quale questa regione dovrebbe esser parte della Serbia; ma lì ormai di Serbi non ce n’è più, il 95 per cento è albanese.
Insomma, oggi i Balcani sono ancora più balcanizzati, e tutte le promesse si sono rivelate false e deludenti. Peggio ancora quelle della Nato: che ormai, avendo perduto il suo principale avversario, l’Urss, si presenta come un purgatorio attraverso il quale bisogna passare per diventare membri dell’Unione europea! Questa Nato oggi si atteggia a tribunale della coscienza mondiale e costituisce un elemento di una miscela esplosiva, combinata con quelli che erano i Paesi satelliti dell’Urss e che ora rivelano la stessa attitudine ad esser vassalli dell’arroganza degli Stati Uniti.
E’ stata un’illusione sperare che all’enorme sviluppo dei mezzi della comunicazione globale corrispondesse anche la crescita delle forme di dialogo. Quello che abbiamo visto alla vigilia dell’intervento anglo-americano in Iraq è stata solo una simulazione: al dialogo si è sostituito il monologo parallelo e successivo, dove ognuno parla ma nessuno ascolta. Un falso dialogo, come falsa è la teoria del cosiddetto “scontro di civiltà”. L’ideologia servita come uno degli argomenti per la giustificazione della guerra in Iraq ha cercato spesso la sua legittimazione nella teoria di Samuel Huntington. Non meraviglia affatto che il suo libro Lo scontro delle civiltà e la trasformazione dell’ordine mondiale (The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order) sia stato accolto con entusiasmo sia da Bush jr. che, ancora prima di lui, da Milosevic e Tudjiman. Ci è difficile metterci d’accordo con la conclusione del suo libro, diventato in America una specie di rivelazione.

Sarebbe davvero «l’imperialismo il corollario inevitabile dell’universalismo», come crede Huntington? E’ possibile rovesciare completamente questo giudizio: la non realizzazione dei progetti universali di tipo illuminista ha causato distorsioni imperialiste di cui siamo oggi testimoni. In alcuni Paesi ha privato la cultura della sua secolarità, della laicità, dei vari attributi di una cultura aperta e moderna.
Questa mancanza si può notare anche in una cultura religiosa che favorisce il clericalismo cristiano oppure il fondamentalismo islamico (naturalmente, sottintendo che si può essere a un tempo credente e laico). Il deficit di laicità nella cultura religiosa, oppure l’appropriazione e l’utilizzo della religione come ideologia, si sono dimostrati rovinosi. (Anche lo stalinismo abbondava di un repertorio concettuale che sembrava copiato da qualche antico Index ecclesiastico: “settari”, “rinnegati”, “eretici”…).
Sta qui il più grande errore di Samuel Huntington: non si tratta di uno scontro di culture in quanto tali, ma di culture alienate e trasformate in ideologie: esse operano e si scontrano non come realtà culturali, ma proprio come fatti ideologici.
Il pericolo è conosciuto da tempo: una parte della cultura nazionale si è trasformata in varie epoche e in vari posti in ideologia della nazione. Non è un gioco di parole. Questo si è visto non solo nel Medioevo, ma di nuovo durante i regimi fascisti in Europa tra le due guerre, in Germania, in Spagna e anche in Italia: una gran parte della cultura esaltava l’ideologia fascista, la alimentava e s’impregnava della sua essenza. Quindi, questo succedeva, non dimentichiamolo, anche nel seno delle più grandi culture europee. Ora sta avvenendo in alcuni Paesi islamici: non c’entra l’Islam come tale, ma la sua applicazione fanatica, la sua ideologizzazione.
Occorre ricordarsene quando sentiamo parlare dello “scontro di civiltà”. Ci può essere d’aiuto nel correggere simili ipotesi: non si stanno scontrando, lo ripeto, le acquisizioni della civiltà e della cultura come tali, ma le ideologie che le hanno alienate e deformate. Non è la stessa cosa. Altrimenti, sarebbe un assurdo: ogni tentativo di sviluppare culture svilupperebbe a un tempo la virtualità dei conflitti!
La teoria di Huntington ha offerto ai falchi attorno a Bush jr. una base comoda, ma molto problematica e in fondo fasulla. Purtroppo, egli non è l’unico che la sta abbracciando e propagandando.

   
   
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