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Ho affermato più volte, anche nel mio saggio su LIslam
globale, che non ha più significato parlare di Islam da una
parte e di Occidente dallaltra, perché i due mondi
sono strettamente interconnessi, e si sono contaminati a vicenda
attraverso i secoli. E invece lOccidente sembra voler negare
questo stretto legame; daltra parte molti musulmani, che pure
consumano i prodotti occidentali, rifiutano il contesto da cui quei
prodotti provengono. La relazione è dunque molto complessa,
e i recenti eventi di guerra in Iraq ne aggravano la difficoltà.
Io non ho mai accettato la dialettica semplificatrice che spezza
il mondo in due parti, e fa della storia un tribunale che proclama
vincitori e vinti. Da molti anni ho la sensazione che in realtà
siamo tutti perdenti, sia il mondo occidentale sia lIslam,
perché ci nascondiamo la vera posta in gioco.
Orizzonti sconosciuti, territori nascosti, sentimenti mai confessati,
deserti non immaginati
Già negli anni 70 Roland
Barthes, nel suo saggio Limpero dei segni, risultato di un
viaggio in Giappone, metteva laccento sul fatto che lOccidente
si distingue per la sua debole capacità di essere richiamato
da culture, luoghi, linguaggi diversi dai suoi. Lo studioso aggiungeva:
«Dovremmo saper ascoltare
».
In realtà, ciò che non riusciamo a vedere, a percepire,
ciò che si nasconde dietro queste grandi difficoltà,
sono la questione delluomo e della conoscenza, della libertà
e della tirannia, della democrazia e del potere. Noi musulmani abbiamo
creato prodotti storici deformi: democrazia senza democratici, religiosi
che parlano il linguaggio della spada, politici che confondono libertà
e silenzio. Nel mondo musulmano la storia del Novecento ha un gusto
amaro, quello di aver perduto un appuntamento con la storia, di
aver attraversato la strada della libertà senza aver potuto
coglierla, di aver confuso il linguaggio della cultura con quello
delle pietre, il linguaggio duro dei templi profani della politica:
sacralizzando la politica, abbiamo profanato la nostra storia.
Probabilmente lungo il secolo appena trascorso abbiamo abitato
una terra di mezzo, che volevamo fosse nostra, ma in realtà
era fatta soltanto di prestiti; il nostro nazionalismo esasperato
era il prodotto di un miscuglio pericoloso, fatto di tradizioni
spesso inventate e di una parola politica che affermando la libertà,
la negava, proprio perché imprigionata dalla tradizione.
I nostri sentimenti religiosi si sono stemperati in un amalgama
di retorica, la nostra sensibilità si è diluita nel
puro condizionamento ideologico. Così abbiamo attribuito
più valore a coloro che interpretano e condizionano, che
ai nostri libri, alla nostra memoria. Che cosè il radicalismo,
se non un male oscuro che ci rende incapaci di guardare luomo
nella sua nudità? Così la politica è ridotta
al suo minimo, e si confonde la crudeltà dei linguaggi totalitari
con la generosità.
Ma non cè solo questo: le colpe non possono essere
individuate esclusivamente in una reazione, in un segmento isolato
della storia, in una parentesi temporale o sociale. No, cè
qualcosa di più invisibile, come una parola di cui si conosce
il significato ma che non si riesce a pronunciare, cui non si riesce
a dare forma e corporeità. Questa parola è una frontiera
simbolica, quella che tende a inserirsi entro le nostre mura, nei
nostri quartieri, libri, televisione, musica: la negazione dellaltro.
In ciò penso che lEuropa, lEuropa come parte
dellOccidente, abbia negato il mondo arabo e lIslam.
Ma negandolo, lEuropa nega se stessa. Come non ricordare che
questo mondo è stato un prolungamento dellEuropa, e
che lEuropa è il luogo in cui inizia il mondo e laddove
il mondo finisce? Non mi riferisco a categorie geografiche e storiche,
ma al mondo in quanto conoscenza, in quanto dimensione del cosmopolitismo,
come la statua che a Delfi rappresenta il centro del mondo. E questo
mondo non è Parigi, Roma o Istanbul: vive nella sua realtà
sfuggente, non lo si può isolare, non è riducibile
a un territorio, a uno spazio; percepiamo la sua esistenza nella
sua essenza. Dove finisce un pezzo dEuropa, se ne annuncia
un altro, di cui non conosciamo esattamente la consistenza: come
a Trieste finisce un mondo e ne nasce un altro, come a Cipro pensiamo
alla Grecia ma sogniamo la Turchia e Damasco, come negli Urali ricordiamo
lOccidente ma sentiamo entrare in noi lAsia: come a
Cordoba percepiamo il peso profondo di secoli di Cristianità
ma non possiamo fare a meno di gettare lo sguardo sul Guadalquivir
facendoci trascinare sulle coste dellAfrica. Strana Europa
è questa, è una e tutto, è il prolungamento
di ogni cosa; e però continuiamo a non capire.

Come non riconoscere che questa circolarità tra Europa,
mondo arabo, Islam, un tempo era una realtà operante, governata
dalla circolazione di idee, territorio di coltura di un umanesimo
mediterraneo, e oggi ha come unica rappresentazione il volto dellimmigrato,
dello straniero nel senso biblico della parola, che considera il
mondo come una casa, come un tetto? Qui, oggi, questo tetto è
negato. Lorizzonte è fosco, non riconosciamo i legami
di interdipendenza fra Europa-Occidente e Islam: gli individui di
oggi non sono più tradizionali né moderni. Viviamo
in un mondo della non-vita e della non-morte, viviamo nellordine
della rottura, proprio perché rifiutiamo di percepire questi
legami e queste concatenazioni. Ma sotto tutto ciò cè
un vulcano che noi stessi abbiamo suscitato: i secoli di presenza,
confronto e convivenza, i prolungamenti di una civiltà nellaltra
sono ormai pezzi di storia, non costituiscono una memoria condivisa.
La tragedia sta qui, nella difficoltà di realizzare un passaggio
fra storia e memoria, nel superare la distanza, nel costruire quello
che Derrida ha chiamato alterità: ed è
vero che le forme dellalterità dipendono dalle forme
della democrazia. Forse ha ragione il poeta Adonis quando dice:
«I miei passi sono davanti ai miei piedi».
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