Giugno 2003

FRONTIERE DELL'INCOMPRENSIONE

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Occidente / Non Occidente
Khaled Fouad Allam
 
 

 

 

Ho affermato più volte, anche nel mio saggio su L’Islam globale, che non ha più significato parlare di Islam da una parte e di Occidente dall’altra, perché i due mondi sono strettamente interconnessi, e si sono contaminati a vicenda attraverso i secoli. E invece l’Occidente sembra voler negare questo stretto legame; d’altra parte molti musulmani, che pure consumano i prodotti occidentali, rifiutano il contesto da cui quei prodotti provengono. La relazione è dunque molto complessa, e i recenti eventi di guerra in Iraq ne aggravano la difficoltà.
Io non ho mai accettato la dialettica semplificatrice che spezza il mondo in due parti, e fa della storia un tribunale che proclama vincitori e vinti. Da molti anni ho la sensazione che in realtà siamo tutti perdenti, sia il mondo occidentale sia l’Islam, perché ci nascondiamo la vera posta in gioco.
Orizzonti sconosciuti, territori nascosti, sentimenti mai confessati, deserti non immaginati… Già negli anni ‘70 Roland Barthes, nel suo saggio L’impero dei segni, risultato di un viaggio in Giappone, metteva l’accento sul fatto che l’Occidente si distingue per la sua debole capacità di essere richiamato da culture, luoghi, linguaggi diversi dai suoi. Lo studioso aggiungeva: «Dovremmo saper ascoltare…».
In realtà, ciò che non riusciamo a vedere, a percepire, ciò che si nasconde dietro queste grandi difficoltà, sono la questione dell’uomo e della conoscenza, della libertà e della tirannia, della democrazia e del potere. Noi musulmani abbiamo creato prodotti storici deformi: democrazia senza democratici, religiosi che parlano il linguaggio della spada, politici che confondono libertà e silenzio. Nel mondo musulmano la storia del Novecento ha un gusto amaro, quello di aver perduto un appuntamento con la storia, di aver attraversato la strada della libertà senza aver potuto coglierla, di aver confuso il linguaggio della cultura con quello delle pietre, il linguaggio duro dei templi profani della politica: sacralizzando la politica, abbiamo profanato la nostra storia.

Probabilmente lungo il secolo appena trascorso abbiamo abitato una terra di mezzo, che volevamo fosse nostra, ma in realtà era fatta soltanto di prestiti; il nostro nazionalismo esasperato era il prodotto di un miscuglio pericoloso, fatto di tradizioni spesso inventate e di una parola politica che affermando la libertà, la negava, proprio perché imprigionata dalla tradizione. I nostri sentimenti religiosi si sono stemperati in un amalgama di retorica, la nostra sensibilità si è diluita nel puro condizionamento ideologico. Così abbiamo attribuito più valore a coloro che interpretano e condizionano, che ai nostri libri, alla nostra memoria. Che cos’è il radicalismo, se non un male oscuro che ci rende incapaci di guardare l’uomo nella sua nudità? Così la politica è ridotta al suo minimo, e si confonde la crudeltà dei linguaggi totalitari con la generosità.
Ma non c’è solo questo: le colpe non possono essere individuate esclusivamente in una reazione, in un segmento isolato della storia, in una parentesi temporale o sociale. No, c’è qualcosa di più invisibile, come una parola di cui si conosce il significato ma che non si riesce a pronunciare, cui non si riesce a dare forma e corporeità. Questa parola è una frontiera simbolica, quella che tende a inserirsi entro le nostre mura, nei nostri quartieri, libri, televisione, musica: la negazione dell’altro. In ciò penso che l’Europa, l’Europa come parte dell’Occidente, abbia negato il mondo arabo e l’Islam. Ma negandolo, l’Europa nega se stessa. Come non ricordare che questo mondo è stato un prolungamento dell’Europa, e che l’Europa è il luogo in cui inizia il mondo e laddove il mondo finisce? Non mi riferisco a categorie geografiche e storiche, ma al mondo in quanto conoscenza, in quanto dimensione del cosmopolitismo, come la statua che a Delfi rappresenta il centro del mondo. E questo mondo non è Parigi, Roma o Istanbul: vive nella sua realtà sfuggente, non lo si può isolare, non è riducibile a un territorio, a uno spazio; percepiamo la sua esistenza nella sua essenza. Dove finisce un pezzo d’Europa, se ne annuncia un altro, di cui non conosciamo esattamente la consistenza: come a Trieste finisce un mondo e ne nasce un altro, come a Cipro pensiamo alla Grecia ma sogniamo la Turchia e Damasco, come negli Urali ricordiamo l’Occidente ma sentiamo entrare in noi l’Asia: come a Cordoba percepiamo il peso profondo di secoli di Cristianità ma non possiamo fare a meno di gettare lo sguardo sul Guadalquivir facendoci trascinare sulle coste dell’Africa. Strana Europa è questa, è una e tutto, è il prolungamento di ogni cosa; e però continuiamo a non capire.

Come non riconoscere che questa circolarità tra Europa, mondo arabo, Islam, un tempo era una realtà operante, governata dalla circolazione di idee, territorio di coltura di un umanesimo mediterraneo, e oggi ha come unica rappresentazione il volto dell’immigrato, dello straniero nel senso biblico della parola, che considera il mondo come una casa, come un tetto? Qui, oggi, questo tetto è negato. L’orizzonte è fosco, non riconosciamo i legami di interdipendenza fra Europa-Occidente e Islam: gli individui di oggi non sono più tradizionali né moderni. Viviamo in un mondo della non-vita e della non-morte, viviamo nell’ordine della rottura, proprio perché rifiutiamo di percepire questi legami e queste concatenazioni. Ma sotto tutto ciò c’è un vulcano che noi stessi abbiamo suscitato: i secoli di presenza, confronto e convivenza, i prolungamenti di una civiltà nell’altra sono ormai pezzi di storia, non costituiscono una memoria condivisa.
La tragedia sta qui, nella difficoltà di realizzare un passaggio fra storia e memoria, nel superare la distanza, nel costruire quello che Derrida ha chiamato “alterità”: ed è vero che le forme dell’alterità dipendono dalle forme della democrazia. Forse ha ragione il poeta Adonis quando dice: «I miei passi sono davanti ai miei piedi».

   
   
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