Settembre 2003

IDEOLOGIA DELLA DIVERSITÀ USA-UE

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Hobbes contro Kant
Aldo Bello
 
 

La tanto
conclamata tesi
dell’America
figlia di Marte e dell’Europa figlia
di Venere, idealista perché debole,
è poco più che una battuta ad effetto.

 

«Abbiamo bisogno dell’Europa per salvarci da noi stessi»: è quanto ha scritto Harold Meyerson in “The U.S.-Europe Schism”, rendendo bene la preoccupazione degli intellettuali liberal americani per il distacco («il divorzio») che si sta verificando tra America e Vecchio Continente. Ben visibile nei contrasti politici tra Amministrazione Bush jr. e importanti Paesi europei, oltre che nelle opinioni pubbliche occidentali, il distacco ha ora una sua base teorica che sta suscitando un articolato dibattito.

L’ideologo della separazione è Robert Kagan, autore di “Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order”, che è diventato il testo sacro degli ambienti diplomatici e politici repubblicani e l’obiettivo polemico dei democratici. La tesi è molto semplice: il contrasto fra Stati Uniti ed Europa non ha radici filosofiche e culturali (non è quindi uno scontro di civiltà), ma dipende dal fatto che gli Usa sono un gigante militare, mentre l’Europa è un pigmeo. La differenza di potenza determina una diversa percezione dei nemici della libertà: mentre gli Stati Uniti vedono bene la natura del pericolo e sono pronti ad usare l’unica arma possibile, quella della forza militare, i deboli europei si illudono di poter fermare i nemici della libertà con i patteggiamenti, con i negoziati, con la diplomazia e con le leggi internazionali.

Da ciò discendono due contrasti. Il primo fra un’Europa prigioniera dell’utopia kantiana della pace perpetua, dedita ai commerci, al dialogo e alle relazioni negoziali nel pacifico giardino dell’Unione, e gli Stati Uniti, che si confrontano con il duro mondo hobbesiano della guerra di tutti contro tutti che domina lo scenario delle relazioni internazionali. Amor di verità e di giustizia suggerisce invece, a giudizio di Kagan, che gli europei accettino quel ruolo subordinato agli Usa che la loro debolezza impone. Soltanto così il divorzio potrà essere ricomposto e si aprirà una nuova fase di cooperazione fruttuosa per gli uni e per gli altri.

Ovvie e immediate le critiche: se il distacco o divorzio nasce dall’enorme differenza di potenziale militare, come si spiega l’identità di intenti fra Europa e Stati Uniti durante i decenni della guerra fredda, quando il divario militare era forse ancora maggiore? Ed è poi credibile l’immagine dei francesi diventati teneri pacifisti? E infine, non sono stati proprio gli Usa a dare impulso alle istituzioni internazionali e alla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” che vieta l’uso unilaterale della forza militare? I “deboli europei”, tuonano altri democratici di ferro, si sono battuti con onore e hanno pagato alti costi di vite umane in tutte le operazioni di pace dirette dall’Onu. Gli europei, esausti dopo millenni di guerre civili, non amano più la guerra, questo è vero, ma non sono né pacifisti né fiacchi. E’ Washington con le sue recenti scelte a violare princìpi del diritto internazionale che non sono affatto europei ma patrimonio del mondo e dell’umanità.

Tuttavia, anche i più filoeuropei degli intellettuali americani pongono a noi europei una domanda alla quale si può rispondere soltanto ammettendo che abbiamo torto: perché, se proclamate il vostro ripudio della guerra e dell’olocausto, non avete fatto niente per fermare i massacri in Bosnia e la pulizia etnica in Kosovo? La vostra posizione è incoerente: da una parte odiate la violenza, dall’altra permettete che criminali travestiti da uomini di Stato massacrino innocenti; anzi, pur sapendo quel che stanno facendo, continuate a intrecciare rapporti d’affari con loro.
Di fronte a Saddam Hussein, sostengono altri, l’unica alternativa credibile alla guerra su larga scala era il piano elaborato dal consigliere del presidente Clinton, Morton Halperin, volto ad estendere a tutto l’Iraq il divieto di volo agli aerei militari; rendere più serie le ispezioni, togliendo di mezzo il ridicolo limite di dare agli iracheni un preavviso di 48 ore e dicendo loro che se avessero impedito agli ispettori l’accesso a qualche edificio dopo poche ore sarebbe entrata in azione l’arma aerea per distruggerlo; dare forza agli ispettori con la minaccia permanente di guerra. «Ma voi europei non eravate disposti a fare la vostra parte in uno sforzo complesso, costoso e pericoloso come questo: prova ne sia che i francesi, quegli stessi che hanno accusato gli Stati Uniti, si erano ben presto defilati dai voli di ricognizione e dalle successive iniziative militari volte a imporre a Saddam Hussein il divieto di far volare i suoi aerei». Che è come dire: fino a quando l’Europa non sarà credibile, fino a quando non sarà disposta ad assumersi le proprie responsabilità, sarà difficile rimuovere le diffidenze. Se, di fatto, continuerà a dire: «Dovete fare tutto da soli», gli Stati Uniti, in nome dei cittadini che pagano le tasse, risponderanno: «Bene, allora facciamo a modo nostro».

Oltre al sospetto di essere tutt’altro che affidabili, grava sugli europei quello, anch’esso comune a repubblicani e democratici, che l’Europa voglia essere sicura senza pagarne il prezzo. Perché, pur avendo tutte le necessarie risorse economiche e tecnologiche, non si dota di un esercito di potenza paragonabile a quello statunitense per mettersi in condizione di proteggersi da sola e di intervenire militarmente, dove necessario, senza continuare a chiedere aiuto agli Stati Uniti? La risposta che la maggioranza degli americani dà a questa domanda è spregiudicatamente dura: per avere un esercito serio, gli europei dovrebbero investire risorse ingenti, rinunciare a molti dei loro diritti sociali, lavorare di più, pagare più tasse ancora, e dunque accettare di abbassare la qualità della loro vita ai livelli americani. Fino a quando i sospetti di infingardaggine e di egoismo non saranno in qualche modo rimossi, sarà impossibile che noi europei, pur con le migliori intenzioni, riusciamo a persuadere gli americani a rientrare nell’alveo del diritto internazionale.

Resta comunque il fatto che la tanto conclamata tesi dell’America figlia di Marte, che valuta realisticamente i nemici perché è forte, e dell’Europa figlia di Venere, idealista perché debole, è poco più che una battuta ad effetto, analoga a quella della “fine della Storia”. La verità sta esattamente dall’altra parte. L’attuale amministrazione americana, e il modo di pensare dominante nell’America di oggi, sono profondamente idealisti, anzi religiosi. Realisti sono gli europei. Il presidente americano lancia una guerra in nome del principio religioso della lotta del Bene contro il Male, e per far trionfare l’ideale della democrazia (quali che siano le motivazioni di ordine geopolitico); gli europei sono contro la guerra in nome delle conseguenze negative che potrebbero derivarne. Chi è l’idealista, e chi il realista?

Le posizioni ideali e politiche sono dunque invertite: un giorno i repubblicani erano realisti (e ottenevano successi nelle relazioni internazionali per il loro realismo) e i democratici erano idealisti (e provocavano guai seri nelle relazioni internazionali per il loro idealismo). Oggi alla Casa Bianca ci sono dei repubblicani animati da zelo religioso e in Europa (e nell’“altra America”) dei democratici realisti e prudenti. Purtroppo, l’America attuale non dà ascolto a chi suggerisce la prudenza e il realismo, ma a nuovi profeti che nel Vecchio Continente troverebbero scarsissimo seguito. Loro sono molto religiosi, gli europei molto meno. Sembra che questa sia la differenza: ma l’aveva già prevista Tocqueville.

Ha scritto Vargas Llosa: «Se l’unione europea procede – la guerra in Iraq ha seminato di nuovi massi la strada, ma non l’ha cancellata – il suo sistema di difesa, senza avere la necessità di trascinarla in un’inutile concorrenza con gli Stati Uniti, dovrebbe renderla immune da rischi [...]. L’Alleanza Atlantica, intaccata dall’ottusa manifestazione opportunistica d’antiamericanismo dei governi di Chirac e di Schröder, dovrà tornare forte nel futuro, quando – spentisi gli echi di guerra in Iraq e con l’Europa che trae pertinenti conclusioni dalla felicità con cui milioni di iracheni hanno festeggiato la caduta di Saddam Hussein – prenda coscienza di quanto l’Alleanza sia indispensabile per la sua sicurezza in un mondo ancora pieno di insidie e di rischi per i Paesi democratici».

E’ poi vero che gli Stati Uniti possono fare a meno dell’Europa, senza che ciò rappresenti un deficit importante nell’ambito militare ed economico? Forse. Ma sicuramente non nell’ambito politico. Senza l’alleanza con l’Unione europea e l’amichevole freno in campo internazionale che questa implica, il bene più prezioso del colosso del Nord, quella cultura democratica alla quale deve il potere che l’ha portato ad essere una superpotenza mondiale, ne uscirebbe deteriorato e, con tutta probabilità, squilibrato. Qualcosa del genere è possibile intravederlo nell’atteggiamento degli Usa che tendono a credere sempre meno alle Nazioni Unite e si rifiutano di inserire le proprie politiche nel quadro di istituzioni internazionali quali il Protocollo di Kyoto sull’ambiente e la Corte Penale Internazionale. Un unilateralismo del genere può erodere i cardini di una democrazia e di uno Stato di diritto. Può portare alla bancarotta. Perché le democrazie non richiedono solo che ci siano libere elezioni e che funzioni l’equilibrio dei poteri all’interno del proprio territorio; esigono anche che, nella trama delle relazioni con gli altri Paesi, prevalga la stessa somma di valori e di diritti che costituiscono la cultura della libertà. Ciò, sostiene Llosa, «non significa che, in nome del remoto ideale kantiano d’una pace universale, una democrazia debba diventare vulnerabile di fronte al terrore o al ricatto delle dittature che possiedono armi nucleari. Ma se il pragmatismo e la forza sono l’unico motore dei suoi governi, una democrazia smette in poco tempo d’essere tale e, anche se conserva l’aspetto esteriore di un Paese libero, diventa – dentro – una società autoritaria».


L’alleanza del superpotere con la vecchia Europa, culla di libertà e di legalità alla quale il mondo deve le cose migliori che ha vissuto, è, proprio adesso che gli Stati Uniti sono una Potenza senza concorrenti, il miglior modo di procedere sui binari della buona tradizione di Washington e di Jefferson che tanto esaltò Tocqueville. Il realismo di Hobbes trova giustificazione solo come necessità transitoria nel difficile cammino verso l’ideale di Kant, di un mondo pacifico e solidale in una cornice nella quale coesistano legge e libertà.

   
   
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