Il rallentamento
delleconomia
mondiale ha una
radice comune:
la crescente
preoccupazione delle famiglie che le induce
a limitare i consumi
e a risparmiare
di più.
|
|
Nel lungo boom degli anni Novanta, gli Stati Uniti attirarono i
capitali di tutto il mondo perché erano riusciti a infondere
uneccellente fiducia nelle possibilità della loro economia,
nella capacità della Borsa di cogliere e di stimolare nuove
opportunità di crescita, nella politica di governo di un
capitalismo particolarmente dinamico, ancorché abbastanza
rischioso. Questa fiducia portò a comprare America
a prezzi crescenti, con un biglietto verde sempre più forte
e con valutazioni dei titoli azionari mai viste nella storia.
I cittadini americani si trovarono così a poter vivere al
di sopra dei propri mezzi, accumulando un gigantesco debito verso
il resto del mondo. Ma ai Paesi creditori veniva intanto un dividendo
di crescita delle loro economie, trainate dal dinamismo di quella
americana. E lo Stato americano poteva portare il suo bilancio pubblico
in attivo, una riserva da spendere quando la Borsa e leconomia
fossero giunte al termine di questa grande corsa.

La svolta del ciclo economico, tre anni di perdite in Borsa e la
crisi di fiducia seguita ai vari casi alla Enron non
hanno in fondo mutato questo contratto implicito tra capitali internazionali
e Stati Uniti. I suoi termini hanno continuato a prevedere, anche
con un dollaro in fase di svalutazione, la copertura dei debiti
fidando nella superiore capacità della politica americana
di riattivare la crescita e di favorire la ripresa mondiale.
Con la realizzazione pratica in Iraq della nuova dottrina delle
guerre preventive, i termini del contratto sono cambiati. Quello
che ora lAmministrazione statunitense richiede ai capitali
stranieri, ma anche a quelli domestici, è la fede in una
politica che rappresenta una svolta storica, un cambiamento radicale
rispetto allequilibrio creatosi dopo la scomparsa dellUnione
Sovietica. Un equilibrio che si era fondato sulla fiducia che il
solo Superpotere rimasto venisse usato «con prudenza, equità
e moderazione», per usare le parole del presidente americano.
LAmerica parla ora ai mercati finanziari non di economia,
ma di politica. E da Superpotenza militare, non economica. Con questo
nuovo linguaggio, da un lato, incute apprensione e semina incertezza,
e, dallaltro, chiede ancora più soldi. Il deficit pubblico
è cresciuto con le spese di guerra e non con quelle volte
al rilancio delleconomia, sulla quale invece incombe il rischio
di una recessione, ormai denunciata da più parti. Il passivo
dei conti con lestero monta oltre il cinque per cento del
PIL, una situazione ben diversa da quella che accompagnò
la guerra del Golfo di Bush padre, quando questi indicatori erano
di poco sotto al pareggio.

Il maggior credito oggi richiesto ai capitali internazionali dagli
Stati Uniti implica un giudizio di affidabilità diverso da
quello formulato fino a ieri. Non più fondato su di uneconomia
con un forte potenziale di crescita, da cogliere con laiuto
di spinte fiscali e monetarie, ma calibrato sulla probabilità
di successo della nuova geopolitica di Washington, densa di incognite
sui suoi sviluppi dopo la campagna militare irachena.
La quotazione giornaliera del dollaro ormai non riflette più
un corso segnato dal riassorbimento degli eccessi, in fondo ammirati
dalla finanza, dallesuberante capitalismo americano, ma i
possibili esiti di una rischiosa scommessa politica. Con limportante
conseguenza di prospettare leventualità di un crollo,
non di un atterraggio morbido, del biglietto verde, se la scommessa
va a carte quarantotto. E inoltre: con un rendimento ai minimi dei
capitali investiti in titoli di Stato e il rischio di perdere sul
dollaro, i tassi di interesse sul debito americano sono destinati
a crescere. Aumenterà quindi anche il costo del servizio
del debito esterno, che ha già superato nel 2002, per la
prima volta dagli anni Novanta, i ricavi degli investimenti degli
Usa allestero, secondo i dati riportati dal settimanale Business
Week. Per vivere al di sopra dei propri mezzi, i cittadini americani
dovranno pagare di più. Se, per questo, saranno indotti a
ridurre i consumi, anche il loro e il nostro reddito
finirà per contrarsi perché leconomia mondiale
ne soffrirà. Quali successi dobbiamo prevedere, perché
questo non si verifichi?
Il rallentamento delleconomia mondiale, del quale non si
intravede la fine, ha una radice comune: la crescente preoccupazione
delle famiglie che le induce a limitare i consumi e a risparmiare
di più. In Germania e in Giappone gli anziani hanno ricominciato
a risparmiare, invece di godersi quanto messo da parte: prevale
la preoccupazione per unassistenza che lo Stato non potrà
più garantire. Oggi i giapponesi, che a 50 anni risparmiano
il 20 per cento del reddito, oltre i 60 ne accantonano quasi il
30 per cento. In Germania i cittadini con più di 65 anni
sono oggi il 15 per cento della popolazione, e nel 2030 saranno
uno su quattro.
In Gran Bretagna, lo straordinario aumento del valore delle abitazioni
ha consentito alle famiglie di indebitarsi per acquistare di tutto,
dando in garanzia la propria casa: oggi il mercato immobiliare è
sopravvalutato, e una caduta dei prezzi lo obbligherebbe a restituire
una parte dei prestiti. Uneventualità che induce alla
cautela. Negli Stati Uniti i consumatori hanno resistito più
a lungo, ma da alcuni mesi si avvertono gli effetti della caduta
di Wall Street (che in tre anni ha perso il 30 per cento). I fondi
pensione sono tutti investiti in Borsa e chi due anni fa programmava
una tranquilla vecchiaia, oggi deve rivedere i propri piani: alcuni
riprendono a risparmiare, altri a lavorare, e rinviano la pensione.
La fine della guerra irachena ha dato un breve sollievo. Per riprendere
a crescere, il mondo ha bisogno di un nuovo motore e non sarà
sufficiente ridurre le imposte: negli Usa la riforma fiscale di
Bush ha aumentato il risparmio, non i consumi, e quando i consumi
languono le imprese non investono.
Aspettarsi che la Banca centrale europea indebolisca leuro
per aiutare le nostre esportazioni è una pia illusione: si
tentò questa via negli anni Trenta, con una serie di svalutazioni
competitive che inasprirono le tensioni tra i Paesi occidentali.
Dovremo abituarci a vivere a lungo con un dollaro debole, fino a
che scomparirà lo straordinario deficit estero americano.
Come scriveva Keynes (appunto, negli anni Trenta), questi sono tempi
in cui la crescita può venire soltanto da un aumento degli
investimenti pubblici. Washington e Londra lo stanno già
facendo, anche se, purtroppo, con le spese militari e con la ricostruzione
dellIraq. I Paesi europei che saranno esclusi dagli appalti
iracheni hanno in alternativa una grande occasione: investire nelle
infrastrutture che collegheranno lEst al cuore dellEuropa,
e investire in ricerca, anche nellindustria della difesa,
dove si concentrano le nuove tecnologie. Unazione che non
deve realizzarsi per iniziativa dei singoli governi, tutti già
troppo indebitati e ciascuno in preda alle proprie lobbies nazionali,
ma che va affidata alle istituzioni che lEuropa ha costruito
per questi scopi: la Banca europea per gli investimenti (Bei) e
la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers). Diversamente,
lequilibrio tra risparmio abbondante e scarsi investimenti
si otterrà solo con una recessione. Che è come dire:
diventando tutti più poveri.
Dopo un periodo in cui le vicende e le spinte delleconomia,
la liberalizzazione dei mercati, la globalizzazione, sono apparse
prevalenti, oggi sembrerebbe affermarsi una tendenza in cui il quadro
politico mette in movimento forze che agiscono nella direzione opposta.
Cè da augurarsi che si tratti di una situazione del
tutto transitoria e che simili segnali si attenuino e non abbiano
seguito. In ogni caso, va ricordato che la ricostruzione in Iraq
si dovrà accompagnare ad un aiuto massiccio a favore dello
sviluppo della Palestina e dei Paesi più poveri del Vicino
Oriente, se vorremo evitare che questa parte del mondo continui
a non avere una speranza diversa dalla violenza e dalla contrapposizione.
In questottica va osservata con molta attenzione la nuova
dottrina americana riguardo ai Paesi meno sviluppati.
In un suo intervento, lo scorso anno, il presidente americano enunciò
due princìpi che rappresentano anche in questo caso una svolta
nella politica di assistenza allo sviluppo. Primo: gli Stati Uniti
sono disposti ad offrire nuovi e significativi livelli di assistenza
solo ai governi che producono reali cambiamenti politici. Si tratta
dei governi che investono sulla giustizia, combattono la corruzione
e incoraggiano la libertà economica. Secondo: la scelta non
deve essere più quella di misurare laiuto allo sviluppo
in termini di dollari spesi dai donatori, perché occorre
guardare ai risultati ottenuti nella riduzione della povertà.
Perciò, occorre utilizzare indicatori quantitativi che mettano
in evidenza i risultati dellintervento di assistenza, in modo
che si possa, poi, decidere lulteriore spesa. Solo così
si otterrà un miglioramento del benessere di quella popolazione.
Limportanza della svolta consiste nel fatto che in Europa
discutiamo ancora prevalentemente della percentuale del PIL da destinare
ai Paesi in via di sviluppo, anziché della sua efficacia,
e ci preoccupiamo poco di interventi per rinforzare le istituzioni
di questi Paesi. Ma, soprattutto, sembriamo poco consapevoli di
quanto sia radicata nellattuale amministrazione americana
una visione filosofica che parte da punti di vista così differenti
dai nostri.
E ora che lEuropa si interroghi sul suo ruolo nei confronti
non solo della ricostruzione dellIraq, ma anche sul modo di
accompagnare lo sviluppo dellintera area mediorientale, tenendo
conto dellesigenza di elaborare una sua propria filosofia.
Potrebbe essere, questa, una maniera di riprendere quello spazio
nel contesto internazionale che oggi sembra mancarle, anche a ragione
dei suoi dissidi interni.
|