Settembre 2003

CHE MONDO FA

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La svolta
dopo le macerie
Edward L. North
 
 

Il rallentamento
dell’economia
mondiale ha una
radice comune:
la crescente
preoccupazione delle famiglie che le induce
a limitare i consumi
e a risparmiare
di più.

 

Nel lungo boom degli anni Novanta, gli Stati Uniti attirarono i capitali di tutto il mondo perché erano riusciti a infondere un’eccellente fiducia nelle possibilità della loro economia, nella capacità della Borsa di cogliere e di stimolare nuove opportunità di crescita, nella politica di governo di un capitalismo particolarmente dinamico, ancorché abbastanza rischioso. Questa fiducia portò a “comprare America” a prezzi crescenti, con un biglietto verde sempre più forte e con valutazioni dei titoli azionari mai viste nella storia.
I cittadini americani si trovarono così a poter vivere al di sopra dei propri mezzi, accumulando un gigantesco debito verso il resto del mondo. Ma ai Paesi creditori veniva intanto un dividendo di crescita delle loro economie, trainate dal dinamismo di quella americana. E lo Stato americano poteva portare il suo bilancio pubblico in attivo, una riserva da spendere quando la Borsa e l’economia fossero giunte al termine di questa grande corsa.

La svolta del ciclo economico, tre anni di perdite in Borsa e la crisi di fiducia seguita ai vari “casi alla Enron” non hanno in fondo mutato questo contratto implicito tra capitali internazionali e Stati Uniti. I suoi termini hanno continuato a prevedere, anche con un dollaro in fase di svalutazione, la copertura dei debiti fidando nella superiore capacità della politica americana di riattivare la crescita e di favorire la ripresa mondiale.
Con la realizzazione pratica in Iraq della nuova dottrina delle guerre preventive, i termini del contratto sono cambiati. Quello che ora l’Amministrazione statunitense richiede ai capitali stranieri, ma anche a quelli domestici, è la fede in una politica che rappresenta una svolta storica, un cambiamento radicale rispetto all’equilibrio creatosi dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica. Un equilibrio che si era fondato sulla fiducia che il solo Superpotere rimasto venisse usato «con prudenza, equità e moderazione», per usare le parole del presidente americano.
L’America parla ora ai mercati finanziari non di economia, ma di politica. E da Superpotenza militare, non economica. Con questo nuovo linguaggio, da un lato, incute apprensione e semina incertezza, e, dall’altro, chiede ancora più soldi. Il deficit pubblico è cresciuto con le spese di guerra e non con quelle volte al rilancio dell’economia, sulla quale invece incombe il rischio di una recessione, ormai denunciata da più parti. Il passivo dei conti con l’estero monta oltre il cinque per cento del PIL, una situazione ben diversa da quella che accompagnò la guerra del Golfo di Bush padre, quando questi indicatori erano di poco sotto al pareggio.

Il maggior credito oggi richiesto ai capitali internazionali dagli Stati Uniti implica un giudizio di affidabilità diverso da quello formulato fino a ieri. Non più fondato su di un’economia con un forte potenziale di crescita, da cogliere con l’aiuto di spinte fiscali e monetarie, ma calibrato sulla probabilità di successo della nuova geopolitica di Washington, densa di incognite sui suoi sviluppi dopo la campagna militare irachena.
La quotazione giornaliera del dollaro ormai non riflette più un corso segnato dal riassorbimento degli eccessi, in fondo ammirati dalla finanza, dall’esuberante capitalismo americano, ma i possibili esiti di una rischiosa scommessa politica. Con l’importante conseguenza di prospettare l’eventualità di un crollo, non di un atterraggio morbido, del biglietto verde, se la scommessa va a carte quarantotto. E inoltre: con un rendimento ai minimi dei capitali investiti in titoli di Stato e il rischio di perdere sul dollaro, i tassi di interesse sul debito americano sono destinati a crescere. Aumenterà quindi anche il costo del servizio del debito esterno, che ha già superato nel 2002, per la prima volta dagli anni Novanta, i ricavi degli investimenti degli Usa all’estero, secondo i dati riportati dal settimanale Business Week. Per vivere al di sopra dei propri mezzi, i cittadini americani dovranno pagare di più. Se, per questo, saranno indotti a ridurre i consumi, anche il loro – e il nostro – reddito finirà per contrarsi perché l’economia mondiale ne soffrirà. Quali successi dobbiamo prevedere, perché questo non si verifichi?

Il rallentamento dell’economia mondiale, del quale non si intravede la fine, ha una radice comune: la crescente preoccupazione delle famiglie che le induce a limitare i consumi e a risparmiare di più. In Germania e in Giappone gli anziani hanno ricominciato a risparmiare, invece di godersi quanto messo da parte: prevale la preoccupazione per un’assistenza che lo Stato non potrà più garantire. Oggi i giapponesi, che a 50 anni risparmiano il 20 per cento del reddito, oltre i 60 ne accantonano quasi il 30 per cento. In Germania i cittadini con più di 65 anni sono oggi il 15 per cento della popolazione, e nel 2030 saranno uno su quattro.
In Gran Bretagna, lo straordinario aumento del valore delle abitazioni ha consentito alle famiglie di indebitarsi per acquistare di tutto, dando in garanzia la propria casa: oggi il mercato immobiliare è sopravvalutato, e una caduta dei prezzi lo obbligherebbe a restituire una parte dei prestiti. Un’eventualità che induce alla cautela. Negli Stati Uniti i consumatori hanno resistito più a lungo, ma da alcuni mesi si avvertono gli effetti della caduta di Wall Street (che in tre anni ha perso il 30 per cento). I fondi pensione sono tutti investiti in Borsa e chi due anni fa programmava una tranquilla vecchiaia, oggi deve rivedere i propri piani: alcuni riprendono a risparmiare, altri a lavorare, e rinviano la pensione.
La fine della guerra irachena ha dato un breve sollievo. Per riprendere a crescere, il mondo ha bisogno di un nuovo motore e non sarà sufficiente ridurre le imposte: negli Usa la riforma fiscale di Bush ha aumentato il risparmio, non i consumi, e quando i consumi languono le imprese non investono.
Aspettarsi che la Banca centrale europea indebolisca l’euro per aiutare le nostre esportazioni è una pia illusione: si tentò questa via negli anni Trenta, con una serie di svalutazioni competitive che inasprirono le tensioni tra i Paesi occidentali. Dovremo abituarci a vivere a lungo con un dollaro debole, fino a che scomparirà lo straordinario deficit estero americano.
Come scriveva Keynes (appunto, negli anni Trenta), questi sono tempi in cui la crescita può venire soltanto da un aumento degli investimenti pubblici. Washington e Londra lo stanno già facendo, anche se, purtroppo, con le spese militari e con la ricostruzione dell’Iraq. I Paesi europei che saranno esclusi dagli appalti iracheni hanno in alternativa una grande occasione: investire nelle infrastrutture che collegheranno l’Est al cuore dell’Europa, e investire in ricerca, anche nell’industria della difesa, dove si concentrano le nuove tecnologie. Un’azione che non deve realizzarsi per iniziativa dei singoli governi, tutti già troppo indebitati e ciascuno in preda alle proprie lobbies nazionali, ma che va affidata alle istituzioni che l’Europa ha costruito per questi scopi: la Banca europea per gli investimenti (Bei) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers). Diversamente, l’equilibrio tra risparmio abbondante e scarsi investimenti si otterrà solo con una recessione. Che è come dire: diventando tutti più poveri.

Dopo un periodo in cui le vicende e le spinte dell’economia, la liberalizzazione dei mercati, la globalizzazione, sono apparse prevalenti, oggi sembrerebbe affermarsi una tendenza in cui il quadro politico mette in movimento forze che agiscono nella direzione opposta. C’è da augurarsi che si tratti di una situazione del tutto transitoria e che simili segnali si attenuino e non abbiano seguito. In ogni caso, va ricordato che la ricostruzione in Iraq si dovrà accompagnare ad un aiuto massiccio a favore dello sviluppo della Palestina e dei Paesi più poveri del Vicino Oriente, se vorremo evitare che questa parte del mondo continui a non avere una speranza diversa dalla violenza e dalla contrapposizione. In quest’ottica va osservata con molta attenzione la nuova dottrina americana riguardo ai Paesi meno sviluppati.
In un suo intervento, lo scorso anno, il presidente americano enunciò due princìpi che rappresentano anche in questo caso una svolta nella politica di assistenza allo sviluppo. Primo: gli Stati Uniti sono disposti ad offrire nuovi e significativi livelli di assistenza solo ai governi che producono reali cambiamenti politici. Si tratta dei governi che investono sulla giustizia, combattono la corruzione e incoraggiano la libertà economica. Secondo: la scelta non deve essere più quella di misurare l’aiuto allo sviluppo in termini di dollari spesi dai donatori, perché occorre guardare ai risultati ottenuti nella riduzione della povertà. Perciò, occorre utilizzare indicatori quantitativi che mettano in evidenza i risultati dell’intervento di assistenza, in modo che si possa, poi, decidere l’ulteriore spesa. Solo così si otterrà un miglioramento del benessere di quella popolazione.
L’importanza della svolta consiste nel fatto che in Europa discutiamo ancora prevalentemente della percentuale del PIL da destinare ai Paesi in via di sviluppo, anziché della sua efficacia, e ci preoccupiamo poco di interventi per rinforzare le istituzioni di questi Paesi. Ma, soprattutto, sembriamo poco consapevoli di quanto sia radicata nell’attuale amministrazione americana una visione filosofica che parte da punti di vista così differenti dai nostri.

E’ ora che l’Europa si interroghi sul suo ruolo nei confronti non solo della ricostruzione dell’Iraq, ma anche sul modo di accompagnare lo sviluppo dell’intera area mediorientale, tenendo conto dell’esigenza di elaborare una sua propria filosofia. Potrebbe essere, questa, una maniera di riprendere quello spazio nel contesto internazionale che oggi sembra mancarle, anche a ragione dei suoi dissidi interni.

   
   
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