Settembre 2003

RIPERCORSI STORICI

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Quest’Europa disegnata
dai trattati di pace
William H. Horney
 
 

Dai trattati di
Versailles e dintorni venivano fuori
incongruenze e anche ingiustizie, destinate a perpetuare vento
e tempesta là dove
si pretendevano
ordine e stabilità.

 

I trattati di pace che conclusero la prima guerra mondiale, e in particolare quello di Versailles, non ebbero una buona fama. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale diventò un luogo comune che fu un grande “errore” provocare la dissoluzione della duplice monarchia austro-ungarica; e il mito absburgico ha raggiunto il vertice, prospettando il regime di Vienna come un altissimo modello di amministrazione, di vita civile, di convivenza tra popoli diversi, e via glorificando. E oggi si leggono le sanguinose vicende jugoslave come una prova di più che le sistemazioni date oltre ottant’anni fa all’area danubiana erano prive di senso.

I trattati del 1919 e quelli che li seguirono furono sicuramente lontanissimi dall’essere ispirati ad una serena larghezza di vedute. Quello che restaurò l’indipendenza della Polonia costruì uno Stato che sembrava disegnato apposta per mantenere acceso il fuoco delle contrapposizioni nazionali nella sua area e al suo interno. Il “corridoio polacco”, che divideva in due parti la Germania, era una cosa orrenda, oltre che una permanente provocazione. Le mutilazioni inferte all’Ungheria furono feroci. Gli ingrandimenti rumeni e la formazione di uno Stato che non era mai esistito, come la Jugoslavia, furono operati essenzialmente nell’interesse di una politica francese dall’apparenza realistica e storica molto pretenziosa e saccente, ma in realtà poco saggia.
La classe di governo francese era ferma nell’idea che bisognasse ricostituire dal Baltico all’Adriatico una linea di alleanze orientali che stringesse nel mezzo le potenze dell’Europa centrale e assicurasse a Parigi il vantaggio di obbligarle a dividere le loro forze su due fronti. Nel passato, Svezia, Polonia e Russia avevano svolto questa funzione per la Francia contro l’Austria, e poi anche contro la Germania. Poi la Svezia da molto tempo non era più una grande potenza; e la Russia era stata trasformata in un Paese antesignano della rivoluzione proletaria, ossia della massima minaccia fino ad allora delineatasi per le liberaldemocrazie occidentali, e, per di più, a causa delle lotte interne, della sconfitta subita ad opera della Germania, e di altri fattori, appariva ridotta nel suo peso internazionale, oltre che poco affidabile.
Unanime, sia che fosse al governo sia che fosse all’opposizione, la classe politica francese si fondava ora su una restaurata “grande Polonia”, sugli Stati sorti sulla rovina dell’impero austro-ungarico, come la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, e su una Romania anch’essa molto ingrandita, per contrapporre un nuovo forte “fronte orientale” non soltanto alla eventualità di rivincita dei Paesi sconfitti (Germania, Austria, Ungheria), ma anche alle eventuali tentazioni italiane di una grande politica, soprattutto nelle aree balcanica e danubiana.
L’incremento di potenza italiano fu, infatti, fin da principio una preoccupazione francese quasi non minore di quella del revanscismo tedesco. Per la verità, non era un incremento che derivava da una vera e propria crescita italiana. Esso derivava molto, molto di più dall’eclisse delle grandi potenze dell’Europa centrale e orientale (Germania, Austria-Ungheria e Russia). Era la forza di una presenza notevole in uno spazio che era diventato relativamente vuoto. Per una quindicina di anni ad oriente della Francia non vi fu una forza militare maggiore di quella italiana. Nella visione tradizionale della politica di potenza questo era un dato di fatto che non poteva essere ignorato. Ma è un fatto pure che sia in Italia sia in Francia la nuova circostanza così determinata dal corso della politica europea venisse valutata molto largamente al di sopra delle sue effettive dimensioni.

Fin dal suo formarsi nel 1861, l’Italia era stata compresa per convenzione nel gruppo delle grandi potenze europee, ma sempre, tacitamente, come l’ultima di esse, in base a un calcolo delle sue forze e delle sue condizioni che dava alla posizione una sostanza minore dell’apparenza: un po’ come accade oggi per i rapporti fra la stessa Italia e il club dei Paesi più industrializzati. In ogni caso, se un periodo vi fu in cui l’Italia a più giusto titolo poté considerarsi di fatto una “grande potenza”, come pretendeva, esso certamente fu quello degli anni tra il 1918 e il 1933 o 1934. Il deprezzamento fascista della vittoria nella prima guerra mondiale (la “vittoria mutilata”) divenne funzionale all’astrazione del nuovo “Impero romano”, invece di curare il solido dato di fatto dell’accresciuto peso italiano nell’eclisse altrui e di trarne gli sviluppi più effettivi e duraturi possibili.

Di conseguenza, si può molto facilmente convenire che dai trattati di Versailles e dintorni venissero fuori incongruenze, irragionevolezze, e anche ingiustizie, destinate a perpetuare vento e tempesta là dove si pretendeva di determinare ordine e stabilità. E altrettanto si può convenire che in quelle paci sia possibile vedere largamente il seme, e non soltanto il pretesto, di gran parte dei travagli europei nel ventennio successivo, e soprattutto, della tragedia del secondo conflitto mondiale in cui essi finirono per culminare. Che, però, le sistemazioni di quei trattati fossero sostanzialmente del tutto negative e sbagliate, non sempre si può affermare. Sembra in alcuni casi e sotto certi profili, anzi, esse abbiano anticipato o comunque influenzato qualche evento attuale.
E l’essenziale è questo: fra gli altri valori in nome dei quali fu combattuta la prima guerra mondiale, quello della nazionalità occupò un luogo dominante; ed esso ebbe nei trattati di pace un riconoscimento, se non assoluto, almeno così ampio da aver dato origine ad una sistemazione che in buona parte dura ancora oggi. Le nazioni che allora raggiunsero l’unità o l’indipendenza, o che furono comunque definite in una nuova autonomia statale (Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, la Cecoslovacchia che in tempi recenti si è divisa in Cechia o Boemia e Slovacchia, la Romania, l’Ungheria, l’Austria, la Jugoslavia voluta da Parigi anche, se non soprattutto, in funzione antitaliana e da poco rifrantumatasi, l’Albania e la Bulgaria) sono ancora oggi in gran parte le nazioni alle quali si fa riferimento in Europa e senza le quali neppure si immaginerebbe di poter parlare nel Vecchio Continente di libertà dei popoli. Anzi, quante tensioni di oggi non sono riportabili al fatto che le sistemazioni della prima guerra mondiale appaiono violate?

Così è per l’indipendenza dei Paesi baltici e della Moldavia, poi assorbite indebitamente e illiberalmente, dopo il 1945, dall’Unione Sovietica, che sono state una delle maggiori ragioni di rischio per la stessa Mosca. Così è stato per il più artificiale Paese europeo, la Jugoslavia, che si è cancellata come entità unitaria e ha dato luogo a vari Stati autonomi. Ma, in realtà, c’è chi continua ad essere convinto che anche in questo Versailles e gli altri trattati furono più saggi di quanto non sembri. L’unità statale dei due gruppi slavi intorno a Praga e intorno a Belgrado impediva una polverizzazione che aveva pure le sue ragioni (soprattutto in Jugoslavia), ma minori di quelle che potevano avere sia l’unità jugoslavia che quella cecoslovacca. Nella politica nazifascista, la Boemia divenne un protettorato tedesco e la Slovacchia uno Stato a sé; la Slovenia venne annessa all’Italia, la Croazia fu resa indipendente e la Serbia fu destinata ad una sorte più o meno analoga a quella della Boemia. Inoltre, l’Ungheria e la Bulgaria furono ingrandite a spese della Romania, a sua volta compensata con territori sovietici; l’Albania ebbe il Kosovo e avrebbe dovuto avere, come la Bulgaria, altre terre in Grecia. Anche qui c’era qualche ragione: soprattutto per la presenza ungherese in Transilvania e per quella albanese nel Kosovo. Ma chi si sentirebbe di dire che quella sistemazione sconvolgesse davvero dalle fondamenta le sistemazioni del 1919 o che essa assicurasse meglio l’ordine, la stabilità e la giustizia?
Comunque, in un clima europeo di progressiva liberalizzazione, democratizzazione e (diciamolo pure) occidentalizzazione, ogni problema sembra finalmente risolvibile, e anche senza grandi difficoltà. O con difficoltà che l’Europa degli Stati potrà superare mutando pelle, trasformandosi cioè in Europa dei popoli. Allora non potrà più esserci un patto Ribbentrop-Molotov per la spartizione di una Polonia, né uno Hitler-Stalin, per la fine dell’indipendenza dei Paesi baltici.

   
   
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