Settembre 2003

CHE MONDO FA

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Se l’Europa si spezza
Henry Kissinger
 
 

Richelieu e Mazarino erano scomparsi nel secolo XVII,
De Gaulle e l’impero francese nel XX.
Alle soglie del terzo millennio, Chirac tenta di resuscitare una grandeur ormai priva di senso storico e politico e pericolosa per l’unità del Vecchio Continente.

 

Ora che l’attenzione si è spostata sulla ricostruzione postbellica dell’Iraq, gli Stati Uniti devono affrontare un problema ancora più grave: gestire il terremoto dentro l’Alleanza atlantica. Due dei maggiori alleati dell’America sul continente europeo – Francia e Germania – si sono mossi sulla scena internazionale contro una politica per la quale il presidente americano è stato disposto a rischiare vite americane. Quello scisma ha indotto la Russia ad affrontare gli Stati Uniti più esplicitamente di quanto non avesse mai fatto dalla fine della Guerra fredda. E questo modello di comportamento si ripete adesso nella controversia – con i medesimi schieramenti – sul ruolo degli Usa nell’Iraq postbellico.

Continuando così, l’Alleanza atlantica, per mezzo secolo pilastro della politica estera americana, subirebbe una progressiva erosione. La fine della Guerra fredda e di una minaccia comune ha minato a poco a poco molte delle premesse che stavano alla base della Nato. Ciò nonostante, per un decennio gli Usa sono rimasti dominanti in forza dell’abitudine e delle circostanze, mentre sotto la superficie molti in Europa covavano rancori per il crescente divario di potenza militare e crescita economica tra le due sponde dell’Atlantico e per l’esibizione di muscoli della nuova Amministrazione americana in difesa dell’interesse nazionale.

Questi risentimenti latenti sono risaliti in superficie nel periodo immediatamente successivo agli attacchi terroristici dell’11 settembre, nel nome dell’unilateralismo contro il multilateralismo. L’iniziale solidarietà all’America in quanto vittima si è affievolita quando gli Usa hanno dato alla sfida un’impronta militare, dichiarando guerra al terrorismo. Ed è sparita con l’elaborazione di una strategia dell’attacco preventivo. Questa strategia – sebbene resa necessaria dalle minacce alla sicurezza lanciate da gruppi privati insensibili alla deterrenza perché privi di territori da difendere e irraggiungibili dalla diplomazia perché in cerca della vittoria totale, con il pericolo che armi di distruzione di massa possano cadere nelle mani di terroristi o di Stati canaglia – va contro i princìpi dello Stato sovrano, che giustificano le guerre solo come resistenza a un’aggressione o a un attacco imminente.

Il piacere con cui Francia e Germania hanno sfidato l’alleanza occidentale ha però cause più profonde. Non aveva precedenti l’annuncio del voto contro gli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, né l’intenso lavorio ai fianchi di capitali remote, ignorando mezzo secolo di tradizionale alleanza e dando l’impressione ai leader dell’Europa dell’Est che la cooperazione in guerra con gli Usa avrebbe potuto complicare il loro ingresso nell’Unione europea. Ed è con un atteggiamento di sfida quasi giuliva che i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno invitato la controparte russa – l’antico avversario della Nato – al loro fianco a Parigi, mentre ripudiavano pubblicamente una politica di massima priorità del loro alleato di mezzo secolo.
Era un gesto che derivava direttamente dal repertorio del Cardinal Richelieu, che nel ‘700 combatteva la potenziale superpotenza dell’epoca – l’Impero absburgico – con una serie di alleanze in continuo mutamento, finché l’Europa civile non fu divisa e la Francia si trovò in posizione dominante. Questo però accadeva prima dell’epoca del terrorismo e delle armi di distruzione di massa, quando la Francia aveva ancora i mezzi per sostenere la sua tattica.
L’irritazione per le decisioni americane non avrebbe però prodotto una rivoluzione diplomatica di tale portata se i tradizionali punti d’appoggio dell’alleanza non fossero stati erosi dalla scomparsa di una minaccia comune, accompagnata dall’arrivo al potere di una nuova generazione, cresciuta durante la Guerra fredda, che dà per scontate le conquiste, non ha partecipato alla liberazione dell’Europa con la seconda guerra mondiale né alla sua ricostruzione col Piano Marshall mentre ricorda le proteste contro la guerra del Vietnam e lo spiegamento dei missili in Europa. In Germania questa generazione è poi frustrata dalla crisi economica e dal processo di riunificazione, che molti dell’ex Ddr sentono come occupazione più che come liberazione.
Il gollismo, che insisteva per un’identità europea definita in contrapposizione con gli Stati Uniti, non è stato sostenuto da alcun Paese europeo importante finché la crisi irachena non ha dato al presidente Chirac l’opportunità di reclutare la Germania – almeno temporaneamente – nella versione gollista dell’Europa. Chirac ha sfruttato i timori di isolamento del cancelliere Schröder dopo la sua campagna elettorale pacifista e antiamericana per attirarlo in un solco evitato dai precedenti cancellieri, che tutti si erano adoperati per comporre le differenze tra Europa e Stati Uniti. Questo terremoto politico ha spaccato in due l’Europa: da una parte gli Stati che cercano un’identità europea attraverso il confronto con l’America, dall’altra quelli che, guidati da Gran Bretagna e Spagna, puntano sulla cooperazione.
Questi scismi multipli hanno prodotto un capovolgimento a Mosca, almeno temporaneo. Giunto al potere quasi simultaneamente a Bush, il presidente Putin ha cercato di governare il catastrofico crollo del rango internazionale russo dopo la Guerra fredda concentrandosi sull’economia interna e appagando quanto restava dell’antico status di Grande Potenza attraverso consultazioni dimostrative con gli Stati Uniti, per lo più su questioni inerenti al fondamentalismo islamico. L’armonia esterna, però, ha occultato agli occhi di alcuni americani la dolorosa esperienza che la Russia stava vivendo: la perdita del suo status di superpotenza e la disintegrazione del suo storico impero.
La Russia non poteva che arrendersi alla sua nuova debolezza, simboleggiata dall’abrogazione del trattato Abm e dall’allargamento della Nato fino ai suoi confini, ma lo ha fatto digrignando i denti. Forse, se le consultazioni con gli Usa fossero state di maggior respiro e meno concentrate sull’agenda americana, la Russia avrebbe potuto trovare un livello di compensazione per il suo rango perduto e sarebbe stata più riluttante a cambiare direzione.
Così stando le cose, invece, l’offerta franco-tedesca di un fronte unito contro gli Stati Uniti sulla questione irachena è piaciuta al nazionalismo russo e gli ha offerto la prospettiva di nuove opzioni non dipendenti dalla buona volontà americana. Sei mesi dopo che l’allargamento della Nato aveva fatto entrare nell’alleanza tre ex repubbliche sovietiche il ministro degli Esteri russo poteva dimostrare alla sua gente l’apparenza insignificante della Nato stando fianco a fianco con Francia e Germania in un gesto che voleva simbolizzare l’emancipazione dalla politica americana.
Se l’attuale tendenza nelle relazioni transatlantiche continuerà, il sistema internazionale sarà alterato alle sue basi: l’Europa si dividerà in due gruppi definiti in base all’atteggiamento verso gli Stati Uniti, la Nato cambierà il suo carattere diventando un veicolo riservato a chi ribadisce la relazione transatlantica, e l’Onu diventerà un forum dove si studiano contrappesi alla “Superpotenza”.

Il dibattito sull’amministrazione postbellica dell’Iraq è un esempio di questi pericoli. Dopo un periodo dedicato a ripristinare la sicurezza, è nell’interesse dell’America non insistere su un suo ruolo esclusivo in una regione nel cuore del mondo islamico, ma invitare altre nazioni a condividere il ruolo di governo, inizialmente i partner della coalizione, poi altri Paesi, poi l’Onu, soprattutto le sue Agenzie tecniche e umanitarie.
Ma la proposta del ministro degli Esteri francese, tacitamente appoggiata a Berlino, di considerare priva di legittimità la presenza americana in Iraq finché non sarà appoggiata da processi diplomatici simili a quelli che hanno preceduto la guerra, amplierebbe le crepe esistenti. La ricostruzione dell’Iraq dovrà riconoscere l’importanza di un’ampia base internazionale, ma anche l’imprudenza di usare il multilateralismo come slogan e le Nazioni Unite come un mezzo per isolare gli Stati Uniti.
Troppe cose però sono successe perché si possa tornare indietro. Urge una rivitalizzazione della relazione atlantica, se le istituzioni mondiali devono funzionare veramente e se il mondo deve evitare un ritorno alle politiche di potenza del XIX secolo. Quella rivitalizzazione deve basarsi sul senso di un destino comune, piuttosto che sul tentativo di trasformare l’alleanza in una rete di sicurezza à la carte. Se non si può trovare un terreno comune – se la diplomazia prebellica diventa un modello – gli Stati Uniti saranno spinti a costruire coalizioni ad hoc insieme al nocciolo della Nato che resta devoto a una relazione atlantica. Sarebbe una triste fine per un’alleanza durata mezzo secolo.
E’ arrivato il momento di metter fine al dibattito unilateralismo-multilateralismo e di concentrarsi sulla sostanza. I nostri avversari europei nelle recenti controversie dovrebbero smetterla di incoraggiare la tendenza dei loro media a descrivere l’Amministrazione americana come un’accolita di Rambo assetati di guerra e gli Stati Uniti come un ostacolo ai progetti europei anziché un partner di obiettivi comuni.
Da parte sua, la politica americana ha bisogno di chiudere il fosso tra la filosofia globale espressa a livello presidenziale e le tattiche a breve termine della diplomazia. Occorrono più consultazioni con i partner, soprattutto sugli obiettivi a medio termine. C’è un elenco di cose che ci attendono: ridurre la proliferazione delle armi di distruzione di massa, affrontare le implicazioni politiche della globalizzazione, affrettare la ricostruzione del Medio Oriente. E poi c’è la discussione su princìpi che riconoscano la necessità occasionale dell’attacco preventivo, senza che ogni singola nazione debba definire la propria posizione.
Questi compiti richiedono una base che va al di là della zona atlantica. L’asse franco-tedesco-russo si rivelerà probabilmente transitorio. I calcoli che hanno portato Putin a cercare una relazione stretta con l’America resteranno, mentre la crisi irachena verrà considerata una tentazione occasionale rispetto al più solido interesse per una cooperazione russo-americana. La sfida sarà quella di dare a questi convincimenti un carattere reciproco meno dipendente da consultazioni ad hoc. Deve svilupparsi un dialogo sistematico su temi globali: l’incontro con Putin del consigliere per la sicurezza Condoleeza Rice è stato un primo passo in questa direzione.
Il predominio militare americano è un dato di fatto. Politiche di riequilibrio del potere attraverso le alleanze non possono cambiare questa realtà. Ma l’America può provare a tradurre il suo predominio in una ricerca sistematica di consenso internazionale. Se gli alleati europei vanno incontro agli Stati Uniti con lo stesso spirito, si potrà evitare che i dibattiti su unilateralismo e multilateralismo si trasformino in profezie che si realizzano proprio perché annunciate.

   
   
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