Il risultato è che
leconomia europea
deperisce per carenza
di domanda privata,
che la difesa dei princìpi monetari
si oppone a una
supplenza della
domanda pubblica.
|
|
Cè da chiedersi il motivo per cui linazione
dellEuropa, lUnione europea e i governi che ne fanno
parte, contro la stagnazione economica nella quale si è impantanata
non provochi una sollevazione, o una critica ragionata e sistematica,
o almeno un tema di analisi politica per recuperare una capacità
di governo dellandamento delleconomia quando questo
prende pieghe indesiderate. Eppure la logica dellintegrazione
monetaria era chiara e convincente: ai benefici che avrebbe determinato
sul piano economico e monetario si sarebbe unito quello, nientaffatto
secondario, di sollecitare unintegrazione politica, quasi
rendendola a quel punto indispensabile.
Il ragionamento era lineare: i governi si sarebbero opposti ancora
per chissà quanto tempo alla delega di sovranità politica
in favore di unistituzione comune; ma una moneta comune e
una comune politica monetaria, senza un corrispondente potere politico
comune, avrebbero invece determinato inconvenienti tali da indurre
il superamento delle opposizioni e delle resistenze alla tappa finale,
quella politica appunto, del processo dintegrazione dellEuropa.
Quando le cose si fossero messe male, se non altro per la fisiologica
alternanza di espansioni e stagnazioni propria del regime capitalistico,
sarebbe risultato evidente che i vincoli determinati dalla moneta
unica e lassenza di unautorità politica corrispondente
avrebbero determinato limpossibilità di governare leconomia,
col risultato, in definitiva, di stagnazioni più lunghe e
più incancrenite di quelle del passato, (esclusa quella degli
anni Trenta, che non fu fisiologica, ma patologica).
La moneta unica è una realtà da più di quattro
anni, i vincoli resi necessari dalla sua genesi lo sono da almeno
sei, e sono circa tre anni che si pone il problema di fare qualcosa
di fronte ad un ritmo di crescita del tutto insoddisfacente. Ma
nulla di quanto appariva logico e lineare è accaduto: sul
piano dellintegrazione politica lEuropa ha fatto semmai
passi indietro; in avanti certamente non ne ha fatti. Per questo
motivo, i vincoli al governo delleconomia, che erano giustificati
nel processo di armonizzazione necessario perché i Paesi
che vi hanno partecipato potessero rinunciare alla loro sovranità
monetaria, si sono protratti anche dopo la realizzazione della moneta
unica, quando la moneta e la politica monetaria avrebbero dovuto
ritirarsi dal protagonismo che la portata storica del processo aveva
loro attribuito per tornare ad essere strumenti di un ben più
ampio governo delleconomia volto al progresso del benessere
delle popolazioni e alla perequazione distributiva. E come
se lUnione, diventata adulta, rimanesse imbrigliata nella
rete di tutele della quale aveva bisogno per venire alla luce e
per muovere i primi passi.
E così il governo comune continua ad esaurirsi nellimposizione
di regole formali di finanza pubblica tagliate sulle esigenze del
processo formativo e delle quali non cè riscontro nella
condotta di Paesi nei quali vi sia corrispondenza e complementarietà
tra il potere monetario e il potere politico. Tutti i Paesi che
ora fanno parte dellUnione monetaria hanno usato in passato
la finanza pubblica per contrastare stagnazioni e recessioni, e
si sarebbe ritenuto irragionevole aver fatto diversamente. E anche
oggi gli Stati Uniti hanno attuato una politica di intervento sulleconomia
che avrà pure portato il disavanzo federale al 5 per cento
del Prodotto interno lordo e avrà pure favorito gruppi finanziari
e lobbies che hanno finanziato la campagna elettorale del presidente
americano, ma dopo dieci anni di continua crescita, e con qualcosa
di mezzo come l11 settembre, ha evitato una recessione ritenuta
da tutti probabile e ha difeso il tasso di crescita delleconomia
ad un livello addirittura superiore a quello dellEuropa.
Un ordinamento zoppo che prevede un potere monetario senza un corrispondente
potere economico affida di fatto il governo delleconomia allautorità
monetaria, il cui mestiere è diverso, come è diverso
quello di una magistratura da quello di chi fa le leggi. Il risultato
è che leconomia europea deperisce per carenza di domanda
privata, che la difesa dei princìpi monetari si oppone a
una supplenza della domanda pubblica; così facendo si creano
le premesse per un consolidamento della stagnazione che rende sempre
più problematico il rispetto di quegli stessi princìpi
monetari, si spreca il risparmio che in Europa continua a formarsi,
ma deve emigrare per trovare un impiego produttivo, si sollecitano
iniziative dei governi le riforme della fiscalità,
della previdenza, del mercato del lavoro che acuendo la precarizzazione
e lincertezza determinerebbero unulteriore contrazione
della domanda, quindi dellattività produttiva, quindi
degli investimenti.
I governi nazionali stanno dando di loro stessi limmagine
rassegnata di chi, impotente, si dedica alla continua revisione
al ribasso di stime precedentemente formulate. Sta diventando rischioso
affidare alla scarsa cognizione di tutto questo il consenso popolare
che deve confortare lintegrazione economica dellEuropa
e la moneta comune.
Aspetto complementare. Se il mercato del lavoro europeo riuscisse
a convergere verso gli standard di competitività di quello
degli Stati Uniti, la disoccupazione allinterno di Eurolandia
diminuirebbe del 3 per cento. E la tesi contenuta in un capitolo
delloutlook del Fondo monetario internazionale, dedicato allimpatto
potenziale delle riforme di struttura sulloccupazione.
Secondo gli esperti che hanno condotto lindagine, leffetto
benefico delladozione di un mercato del lavoro allamericana
non sarebbe limitato alla sola discesa della disoccupazione: nel
medio termine, infatti, il Pil europeo, nonché il livello
dei consumi e quello degli investimenti aumenterebbero di oltre
il 5 per cento. E se poi, accanto alla flessibilità e alla
competitività del mercato del lavoro, si riuscisse a ottenere
anche una maggiore concorrenzialità del mercato dei prodotti,
il guadagno in termini di maggior prodotto potrebbe arrivare fino
al 10 per cento.
Gli esperti arrivano a formulare queste stime utilizzando due diverse
metodologie, che portano a risultati convergenti. La prima si basa
su dati relativi alle istituzioni del mercato del lavoro che riguardano
20 Paesi dellOcse nellarco di quarantanni e analizzano
una serie di indicatori: il tasso di sostituzione dellindennità
di disoccupazione (in percentuale del reddito da lavoro in precedenza
percepito), un indice di protezione delloccupazione, laliquota
fiscale sul lavoro (inclusiva di contributi sociali, imposte sul
reddito e imposte indirette); lentità delle adesioni
al sindacato e la natura della contrattazione (accentrata o decentrata).
La seconda metodologia basa i suoi calcoli sul nuovo modello econometrico
del Fmi (Global economy model).
I dati consentono anche di fare confronti fra le due sponde dellAtlantico.
E, secondo gli esperti, le cifre evidenziano, ad esempio, che le
indennità di disoccupazione e laliquota fiscale marginale
sono mediamente in Europa a livelli doppi di quelli vigenti negli
Stati Uniti. Soltanto alcuni Paesi europei hanno fatto in anni recenti
qualche aggiustamento sul terreno dei sussidi, rendendo un po
più selettivi i criteri per la concessione, mentre il dato
di fatto che resta inalterato è che il lavoro continua ad
essere pesantemente tassato nel Vecchio Continente. Nella fattispecie,
Austria, Belgio, Francia, Italia e Paesi del Nord Europa, in particolare,
applicano aliquote fiscali molto al di sopra della media Ocse. Per
contro, solo lIrlanda, il Portogallo e il Regno Unito dispongono
di unaliquota media effettiva uguale a quella degli Stati
Uniti. In media, comunque, un così elevato cuneo fiscale,
pari circa a 15 punti percentuali in più rispetto a quello
riscontrato negli Usa, rispecchia in larga parte gli elevati livelli
di spesa pubblica, ma anche limportante ruolo giocato dal
sistema dei contributi salariali nel finanziamento del sistema di
protezione sociale.
Ma perché una maggiore flessibilità del mercato del
lavoro e più concorrenza in quello dei prodotti dovrebbero
provocare un accrescimento del Pil? Perché la competizione
più forte ridurrebbe il potere di mercato di imprese e lavoratori,
chiarisce il rapporto; e in questo modo ridurrebbe anche la loro
possibilità di restringere lofferta.
Ma ci sono altri due potenziali effetti positivi per leconomia.
Il primo sarebbe una maggiore libertà di manovra per la politica
monetaria. Unaumentata competizione sul mercato del lavoro,
infatti, renderebbe più semplice la lotta contro linflazione.
In secondo luogo, il forte aumento di consumi e di investimenti
implicato dalla maggiore concorrenzialità del sistema economico
contribuirebbe anche a ridurre il saldo della bilancia dei pagamenti
di parte corrente, e per questa via, diminuirebbe la dipendenza
dellEuropa dagli Stati Uniti come motore della crescita.
|