Settembre 2003

SENZA INTEGRAZIONE POLITICA

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Economia europea
al palo
Furio Beltrami
 
 

 

 

Il risultato è che
l’economia europea
deperisce per carenza
di domanda privata,
che la difesa dei princìpi monetari
si oppone a una
supplenza della
domanda pubblica.

 

C’è da chiedersi il motivo per cui l’inazione dell’Europa, l’Unione europea e i governi che ne fanno parte, contro la stagnazione economica nella quale si è impantanata non provochi una sollevazione, o una critica ragionata e sistematica, o almeno un tema di analisi politica per recuperare una capacità di governo dell’andamento dell’economia quando questo prende pieghe indesiderate. Eppure la logica dell’integrazione monetaria era chiara e convincente: ai benefici che avrebbe determinato sul piano economico e monetario si sarebbe unito quello, nient’affatto secondario, di sollecitare un’integrazione politica, quasi rendendola a quel punto indispensabile.
Il ragionamento era lineare: i governi si sarebbero opposti ancora per chissà quanto tempo alla delega di sovranità politica in favore di un’istituzione comune; ma una moneta comune e una comune politica monetaria, senza un corrispondente potere politico comune, avrebbero invece determinato inconvenienti tali da indurre il superamento delle opposizioni e delle resistenze alla tappa finale, quella politica appunto, del processo d’integrazione dell’Europa. Quando le cose si fossero messe male, se non altro per la fisiologica alternanza di espansioni e stagnazioni propria del regime capitalistico, sarebbe risultato evidente che i vincoli determinati dalla moneta unica e l’assenza di un’autorità politica corrispondente avrebbero determinato l’impossibilità di governare l’economia, col risultato, in definitiva, di stagnazioni più lunghe e più incancrenite di quelle del passato, (esclusa quella degli anni Trenta, che non fu fisiologica, ma patologica).
La moneta unica è una realtà da più di quattro anni, i vincoli resi necessari dalla sua genesi lo sono da almeno sei, e sono circa tre anni che si pone il problema di fare qualcosa di fronte ad un ritmo di crescita del tutto insoddisfacente. Ma nulla di quanto appariva logico e lineare è accaduto: sul piano dell’integrazione politica l’Europa ha fatto semmai passi indietro; in avanti certamente non ne ha fatti. Per questo motivo, i vincoli al governo dell’economia, che erano giustificati nel processo di armonizzazione necessario perché i Paesi che vi hanno partecipato potessero rinunciare alla loro sovranità monetaria, si sono protratti anche dopo la realizzazione della moneta unica, quando la moneta e la politica monetaria avrebbero dovuto ritirarsi dal protagonismo che la portata storica del processo aveva loro attribuito per tornare ad essere strumenti di un ben più ampio governo dell’economia volto al progresso del benessere delle popolazioni e alla perequazione distributiva. E’ come se l’Unione, diventata adulta, rimanesse imbrigliata nella rete di tutele della quale aveva bisogno per venire alla luce e per muovere i primi passi.
E così il governo comune continua ad esaurirsi nell’imposizione di regole formali di finanza pubblica tagliate sulle esigenze del processo formativo e delle quali non c’è riscontro nella condotta di Paesi nei quali vi sia corrispondenza e complementarietà tra il potere monetario e il potere politico. Tutti i Paesi che ora fanno parte dell’Unione monetaria hanno usato in passato la finanza pubblica per contrastare stagnazioni e recessioni, e si sarebbe ritenuto irragionevole aver fatto diversamente. E anche oggi gli Stati Uniti hanno attuato una politica di intervento sull’economia che avrà pure portato il disavanzo federale al 5 per cento del Prodotto interno lordo e avrà pure favorito gruppi finanziari e lobbies che hanno finanziato la campagna elettorale del presidente americano, ma dopo dieci anni di continua crescita, e con qualcosa di mezzo come l’11 settembre, ha evitato una recessione ritenuta da tutti probabile e ha difeso il tasso di crescita dell’economia ad un livello addirittura superiore a quello dell’Europa.
Un ordinamento zoppo che prevede un potere monetario senza un corrispondente potere economico affida di fatto il governo dell’economia all’autorità monetaria, il cui mestiere è diverso, come è diverso quello di una magistratura da quello di chi fa le leggi. Il risultato è che l’economia europea deperisce per carenza di domanda privata, che la difesa dei princìpi monetari si oppone a una supplenza della domanda pubblica; così facendo si creano le premesse per un consolidamento della stagnazione che rende sempre più problematico il rispetto di quegli stessi princìpi monetari, si spreca il risparmio che in Europa continua a formarsi, ma deve emigrare per trovare un impiego produttivo, si sollecitano iniziative dei governi – le riforme della fiscalità, della previdenza, del mercato del lavoro – che acuendo la precarizzazione e l’incertezza determinerebbero un’ulteriore contrazione della domanda, quindi dell’attività produttiva, quindi degli investimenti.
I governi nazionali stanno dando di loro stessi l’immagine rassegnata di chi, impotente, si dedica alla continua revisione al ribasso di stime precedentemente formulate. Sta diventando rischioso affidare alla scarsa cognizione di tutto questo il consenso popolare che deve confortare l’integrazione economica dell’Europa e la moneta comune.

Aspetto complementare. Se il mercato del lavoro europeo riuscisse a convergere verso gli standard di competitività di quello degli Stati Uniti, la disoccupazione all’interno di Eurolandia diminuirebbe del 3 per cento. E’ la tesi contenuta in un capitolo dell’outlook del Fondo monetario internazionale, dedicato all’impatto potenziale delle riforme di struttura sull’occupazione.
Secondo gli esperti che hanno condotto l’indagine, l’effetto benefico dell’adozione di un mercato del lavoro all’americana non sarebbe limitato alla sola discesa della disoccupazione: nel medio termine, infatti, il Pil europeo, nonché il livello dei consumi e quello degli investimenti aumenterebbero di oltre il 5 per cento. E se poi, accanto alla flessibilità e alla competitività del mercato del lavoro, si riuscisse a ottenere anche una maggiore concorrenzialità del mercato dei prodotti, il guadagno in termini di maggior prodotto potrebbe arrivare fino al 10 per cento.

Gli esperti arrivano a formulare queste stime utilizzando due diverse metodologie, che portano a risultati convergenti. La prima si basa su dati relativi alle istituzioni del mercato del lavoro che riguardano 20 Paesi dell’Ocse nell’arco di quarant’anni e analizzano una serie di indicatori: il tasso di sostituzione dell’indennità di disoccupazione (in percentuale del reddito da lavoro in precedenza percepito), un indice di protezione dell’occupazione, l’aliquota fiscale sul lavoro (inclusiva di contributi sociali, imposte sul reddito e imposte indirette); l’entità delle adesioni al sindacato e la natura della contrattazione (accentrata o decentrata). La seconda metodologia basa i suoi calcoli sul nuovo modello econometrico del Fmi (Global economy model).
I dati consentono anche di fare confronti fra le due sponde dell’Atlantico. E, secondo gli esperti, le cifre evidenziano, ad esempio, che le indennità di disoccupazione e l’aliquota fiscale marginale sono mediamente in Europa a livelli doppi di quelli vigenti negli Stati Uniti. Soltanto alcuni Paesi europei hanno fatto in anni recenti qualche aggiustamento sul terreno dei sussidi, rendendo un po’ più selettivi i criteri per la concessione, mentre il dato di fatto che resta inalterato è che il lavoro continua ad essere pesantemente tassato nel Vecchio Continente. Nella fattispecie, Austria, Belgio, Francia, Italia e Paesi del Nord Europa, in particolare, applicano aliquote fiscali molto al di sopra della media Ocse. Per contro, solo l’Irlanda, il Portogallo e il Regno Unito dispongono di un’aliquota media effettiva uguale a quella degli Stati Uniti. In media, comunque, un così elevato “cuneo fiscale”, pari circa a 15 punti percentuali in più rispetto a quello riscontrato negli Usa, rispecchia in larga parte gli elevati livelli di spesa pubblica, ma anche l’importante ruolo giocato dal sistema dei contributi salariali nel finanziamento del sistema di protezione sociale.
Ma perché una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e più concorrenza in quello dei prodotti dovrebbero provocare un accrescimento del Pil? Perché la competizione più forte ridurrebbe il potere di mercato di imprese e lavoratori, chiarisce il rapporto; e in questo modo ridurrebbe anche la loro possibilità di restringere l’offerta.
Ma ci sono altri due potenziali effetti positivi per l’economia. Il primo sarebbe una maggiore libertà di manovra per la politica monetaria. Un’aumentata competizione sul mercato del lavoro, infatti, renderebbe più semplice la lotta contro l’inflazione. In secondo luogo, il forte aumento di consumi e di investimenti implicato dalla maggiore concorrenzialità del sistema economico contribuirebbe anche a ridurre il saldo della bilancia dei pagamenti di parte corrente, e per questa via, diminuirebbe la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti come motore della crescita.

   
   
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