Va considerato che questa fabbrica
planetaria dispone di 700 milioni di operai e che unora
di manodopera costa appena
60 centesimi.
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Nel 1998 i Sette Paesi più industrializzati fecero i complimenti
a Pechino: la sua moneta stabile sul dollaro malgrado la tempesta
finanziaria nellAsia del Sud-Est faceva da cordone sanitario
alla diffusione del contagio. Allora, grandi strette di mano e forte
cordialità. Questanno, invece, allincontro dei
ministri delle Finanze del G7 negli Emirati Arabi, a Dubai, qualcuno
ha ribadito che il cambio fisso fra yuan renminbi e moneta verde
è una iattura. Occorre rivalutare: tutti i Grandi della Terra
ne sono convinti. E arrivato, dunque, il momento delle pressioni
politiche.

Che vanno avanti da un pezzo. E sono tuttaltro che leggere.
Da tempo Washington ne parla pubblicamente, ma anche in via riservata
a Pechino. Anche lEurogruppo dei ministri economici delleuro
ne ha discusso, e tutti sembrano essere daccordo: gli europei
del G7, Italia in testa perché presidente di turno, hanno
sollevato il problema delle monete-pirata dellAsia.
Svalutate con il dollaro nellultimo anno e mezzo, diventano
un micidiale strumento in più per le esportazioni e la conquista
di nuovi mercati. Esattamente quel che vorrebbe ogni Paese. In un
mondo debole, tutti pensano di meritare una moneta debole, ma, come
osservano alla Morgan Stanley, «non tutti possono averla allo
stesso tempo».
Da maggio 2002 leuro si è rivalutato di circa il 30
per cento sul biglietto verde; anche di più, se si pone attenzione
al picco di 1,19 dollari di inizio giugno. E ad eccezione
dellEuropa, lAsia e il mondo intero sembrano diventati
una colossale area del dollaro. Dal 1994 il renminbi
è agganciato a quota 8,3 e non va né su né
giù; anche la Malaysia e Hong Kong praticano il cambio fisso,
mentre il Giappone con lo yen, e lIndia, Taiwan, Singapore,
la Thailandia, la Corea del Sud e persino Londra con la sterlina
tendono a muoversi come ombre lunghe o corte dietro la valuta americana.
Rafforzarsi sul dollaro, per Eurolandia, significa stringere un
cappio al collo del proprio export verso lAmerica e verso
il resto del mondo. Consola poco se la Banca centrale europea ricorda
che la moneta è più o meno «in linea con le
sue medie di lungo periodo». Secondo il Centre for European
Policy Studies, le vendite fuori area portano da sole un quarto
della ricchezza di Eurolandia. Se calano, cala anche quella. Morgan
Stanley calcola che ogni 10 per cento al rialzo delleuro lima
un 3 per cento dai profitti delle aziende del Vecchio Continente.
In un anno, lexport tedesco è caduto del 4,1 per cento,
mentre la Cina lo ha visto esplodere del 35 per cento, con una tendenza
a triplicare nel corso del 1994.
Questa grande pesantezza nelle ali dellEuropa viene piuttosto
da lontano. Nella capitale francese intellettuali ed editorialisti
si lanciano in teorie del complotto: il mini-dollaro sarebbe larma
di Washington per punire i franco-tedeschi dopo la rivolta contro
la guerra in Iraq. Sostiene Paul Volcker, ex presidente della Federal
Reserve: «Non escludo che le grida di dolore per leuro
forte facciano piacere a qualcuno a Washington, ma laccusa
è del tutto priva di senso». Lo è, perché
le ragioni dietro il declino del dollaro sono evidenti a tutti.
La Federal Reserve sottolinea che le partite correnti dellAmerica
verso il mondo (cioè del rapporto fra tutte le importazioni
e tutte le esportazioni) viaggiavano ad inizio 2003 al ritmo di
un deficit mai visto prima, di 544 miliardi di dollari lanno.
Cioè, a un ritmo pari al 5 per cento del prodotto americano.
Un passivo cresciuto con il boom degli anni Novanta, quando tutto
il pianeta cercava fortuna a Wall Street, mentre gli americani spendevano
in moda italiana, in vino francese, in elettronica giapponese o
in giocattoli cinesi i loro guadagni azionari. Poi Wall Street è
crollata, e adesso il risparmio delle famiglie negli Stati Uniti
è quasi a zero, ma il Paese importa ancora quasi il doppio
di quanto esporti. In altri termini, continua a vivere al di sopra
dei propri mezzi. Un riequilibrio prima o poi sarà inevitabile,
e i mercati lo hanno anticipato nellultimo anno, abbandonando
il dollaro, a favore della moneta europea. E, quindi, rafforzando
leuro. Sostiene Volcker: «Gli americani devono imparare
a risparmiare di più, se vogliono stabilizzare il cambio».
Ma, per ora, non sembra che lo vogliano. Sono deboli e ritengono
di meritare una moneta debole. Presumono che la politica è,
sì, quella del dollaro forte, ma anche che il
miglior modo per fissarne il valore sia di lasciarlo fare al mercato.
Con quel disavanzo con lestero e un altro quasi uguale nel
bilancio pubblico, è come se dicessero: «Il biglietto
verde deve andare giù e leuro su». E i risultati
si vedono. Il passivo commerciale americano ha iniziato a ridursi
(4,7 per cento in meno) grazie alle vendite di qualche computer
in più allEuropa.
Ed è qui che entra in gioco il fattore cinese. Perché
la quota più rilevante del passivo commerciale degli Stati
Uniti non è con larea delleuro. E con lImpero
di mezzo. Leconomia della Repubblica Popolare vale complessivamente
più o meno come quella italiana, ma da sola pesa ormai come
un quarto del deficit commerciale americano: dieci volte più
dellItalia e di tutta Eurolandia messa insieme. Il suo avanzo
nelle partite correnti con lAmerica è pari a 110 miliardi
di dollari, e continua a salire. Di qui, le richieste americane
e dellUnione europea perché il renminbi, ma anche lo
yen e le altre monete asiatiche, seguano leuro al rialzo.
Non succederà né presto né facilmente. Infatti,
nessun privato investe più in biglietti verdi, ma le Banche
centrali di Pechino, di Hong Kong o di Tokyo lo fanno a ritmo forsennato
per tenere le proprie monete agganciate al dollaro debole, e sostenere
in questo modo le proprie esportazioni verso lAmerica. Alla
City londinese si rileva che nel 2002 metà del mega-buco
americano con lestero è stato finanziato da loro. Le
biciclette di Shanghai giungono nei cortili di San Francisco in
cambio di carta americana, per la massima parte buoni del Tesoro
statunitensi che si accumulano nelle riserve dellIstituto
di emissione di Pechino.
Va tenuto anche conto del fatto che il 65 per cento dellexport
della Cina beneficia imprese estere che vi hanno investito, come
la tedesca Bayer (farmaceutica), lamericana General Motors
(auto), la giapponese Sharp (elettronica), o le italiane calzaturiere,
tessili, dei giocattoli, con prodotti che (anche falsificando marchi
di pregio) stanno invadendo il mondo intero.
Si aggiunga che questa fabbrica planetaria dispone di
700 milioni di operai e che unora di manodopera costa appena
60 centesimi. In più, non si tratta di artigianato o di industria
in qualche modo superata, ma di personale con ottima preparazione
tecnologica, che in parecchi casi ha poco o nulla da invidiare alle
migliori imprese occidentali.
Il problema dei problemi? Trovare la quadratura del cerchio. In
un equilibrio definito di volta in volta instabile, precario, patologico,
i governi asiatici finanziano la way of life di americani
«intossicati dalla voglia di spesa», mentre Eurolandia
sa vivere soltanto con un euro la cui debolezza sembra essere ormai
fuori portata. Con quali costi, in prospettiva, per le nostre produzioni,
per le esportazioni, per loccupazione? La parola alla Sibilla
cumana.
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