Settembre 2003

SCONTRO SULLE MONETE

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Pericolo giallo
Daniel Ubide
Economista della London City
 
 

Va considerato che questa “fabbrica
planetaria” dispone di 700 milioni di operai e che un’ora di manodopera costa appena
60 centesimi.

 

Nel 1998 i Sette Paesi più industrializzati fecero i complimenti a Pechino: la sua moneta stabile sul dollaro malgrado la tempesta finanziaria nell’Asia del Sud-Est faceva da cordone sanitario alla diffusione del contagio. Allora, grandi strette di mano e forte cordialità. Quest’anno, invece, all’incontro dei ministri delle Finanze del G7 negli Emirati Arabi, a Dubai, qualcuno ha ribadito che il cambio fisso fra yuan renminbi e moneta verde è una iattura. Occorre rivalutare: tutti i Grandi della Terra ne sono convinti. E’ arrivato, dunque, il momento delle pressioni politiche.

Che vanno avanti da un pezzo. E sono tutt’altro che leggere. Da tempo Washington ne parla pubblicamente, ma anche in via riservata a Pechino. Anche l’Eurogruppo dei ministri economici dell’euro ne ha discusso, e tutti sembrano essere d’accordo: gli europei del G7, Italia in testa perché presidente di turno, hanno sollevato il problema delle “monete-pirata” dell’Asia. Svalutate con il dollaro nell’ultimo anno e mezzo, diventano un micidiale strumento in più per le esportazioni e la conquista di nuovi mercati. Esattamente quel che vorrebbe ogni Paese. In un mondo debole, tutti pensano di meritare una moneta debole, ma, come osservano alla Morgan Stanley, «non tutti possono averla allo stesso tempo».
Da maggio 2002 l’euro si è rivalutato di circa il 30 per cento sul biglietto verde; anche di più, se si pone attenzione al “picco” di 1,19 dollari di inizio giugno. E ad eccezione dell’Europa, l’Asia e il mondo intero sembrano diventati una colossale “area del dollaro”. Dal 1994 il renminbi è agganciato a quota 8,3 e non va né su né giù; anche la Malaysia e Hong Kong praticano il cambio fisso, mentre il Giappone con lo yen, e l’India, Taiwan, Singapore, la Thailandia, la Corea del Sud e persino Londra con la sterlina tendono a muoversi come ombre lunghe o corte dietro la valuta americana. Rafforzarsi sul dollaro, per Eurolandia, significa stringere un cappio al collo del proprio export verso l’America e verso il resto del mondo. Consola poco se la Banca centrale europea ricorda che la moneta è più o meno «in linea con le sue medie di lungo periodo». Secondo il Centre for European Policy Studies, le vendite fuori area portano da sole un quarto della ricchezza di Eurolandia. Se calano, cala anche quella. Morgan Stanley calcola che ogni 10 per cento al rialzo dell’euro lima un 3 per cento dai profitti delle aziende del Vecchio Continente. In un anno, l’export tedesco è caduto del 4,1 per cento, mentre la Cina lo ha visto esplodere del 35 per cento, con una tendenza a triplicare nel corso del 1994.

Questa grande pesantezza nelle ali dell’Europa viene piuttosto da lontano. Nella capitale francese intellettuali ed editorialisti si lanciano in teorie del complotto: il mini-dollaro sarebbe l’arma di Washington per punire i franco-tedeschi dopo la rivolta contro la guerra in Iraq. Sostiene Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve: «Non escludo che le grida di dolore per l’euro forte facciano piacere a qualcuno a Washington, ma l’accusa è del tutto priva di senso». Lo è, perché le ragioni dietro il declino del dollaro sono evidenti a tutti. La Federal Reserve sottolinea che le partite correnti dell’America verso il mondo (cioè del rapporto fra tutte le importazioni e tutte le esportazioni) viaggiavano ad inizio 2003 al ritmo di un deficit mai visto prima, di 544 miliardi di dollari l’anno. Cioè, a un ritmo pari al 5 per cento del prodotto americano. Un passivo cresciuto con il boom degli anni Novanta, quando tutto il pianeta cercava fortuna a Wall Street, mentre gli americani spendevano in moda italiana, in vino francese, in elettronica giapponese o in giocattoli cinesi i loro guadagni azionari. Poi Wall Street è crollata, e adesso il risparmio delle famiglie negli Stati Uniti è quasi a zero, ma il Paese importa ancora quasi il doppio di quanto esporti. In altri termini, continua a vivere al di sopra dei propri mezzi. Un riequilibrio prima o poi sarà inevitabile, e i mercati lo hanno anticipato nell’ultimo anno, abbandonando il dollaro, a favore della moneta europea. E, quindi, rafforzando l’euro. Sostiene Volcker: «Gli americani devono imparare a risparmiare di più, se vogliono stabilizzare il cambio».
Ma, per ora, non sembra che lo vogliano. Sono deboli e ritengono di meritare una moneta debole. Presumono che la politica è, sì, quella del “dollaro forte”, ma anche che il miglior modo per fissarne il valore sia di lasciarlo fare al mercato. Con quel disavanzo con l’estero e un altro quasi uguale nel bilancio pubblico, è come se dicessero: «Il biglietto verde deve andare giù e l’euro su». E i risultati si vedono. Il passivo commerciale americano ha iniziato a ridursi (4,7 per cento in meno) grazie alle vendite di qualche computer in più all’Europa.
Ed è qui che entra in gioco il fattore cinese. Perché la quota più rilevante del passivo commerciale degli Stati Uniti non è con l’area dell’euro. E’ con l’“Impero di mezzo”. L’economia della Repubblica Popolare vale complessivamente più o meno come quella italiana, ma da sola pesa ormai come un quarto del deficit commerciale americano: dieci volte più dell’Italia e di tutta Eurolandia messa insieme. Il suo avanzo nelle partite correnti con l’America è pari a 110 miliardi di dollari, e continua a salire. Di qui, le richieste americane e dell’Unione europea perché il renminbi, ma anche lo yen e le altre monete asiatiche, seguano l’euro al rialzo.
Non succederà né presto né facilmente. Infatti, nessun privato investe più in biglietti verdi, ma le Banche centrali di Pechino, di Hong Kong o di Tokyo lo fanno a ritmo forsennato per tenere le proprie monete agganciate al dollaro debole, e sostenere in questo modo le proprie esportazioni verso l’America. Alla City londinese si rileva che nel 2002 metà del mega-buco americano con l’estero è stato finanziato da loro. Le biciclette di Shanghai giungono nei cortili di San Francisco in cambio di carta americana, per la massima parte buoni del Tesoro statunitensi che si accumulano nelle riserve dell’Istituto di emissione di Pechino.
Va tenuto anche conto del fatto che il 65 per cento dell’export della Cina beneficia imprese estere che vi hanno investito, come la tedesca Bayer (farmaceutica), l’americana General Motors (auto), la giapponese Sharp (elettronica), o le italiane calzaturiere, tessili, dei giocattoli, con prodotti che (anche falsificando marchi di pregio) stanno invadendo il mondo intero.
Si aggiunga che questa “fabbrica planetaria” dispone di 700 milioni di operai e che un’ora di manodopera costa appena 60 centesimi. In più, non si tratta di artigianato o di industria in qualche modo superata, ma di personale con ottima preparazione tecnologica, che in parecchi casi ha poco o nulla da invidiare alle migliori imprese occidentali.
Il problema dei problemi? Trovare la quadratura del cerchio. In un equilibrio definito di volta in volta instabile, precario, patologico, i governi asiatici finanziano la “way of life” di americani «intossicati dalla voglia di spesa», mentre Eurolandia sa vivere soltanto con un euro la cui debolezza sembra essere ormai fuori portata. Con quali costi, in prospettiva, per le nostre produzioni, per le esportazioni, per l’occupazione? La parola alla Sibilla cumana.

   
   
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