Settembre 2003

IL PIANETA FRANTUMATO

Indietro
Obsoleta Onu
Roberto Abate
 
 

 

 

 

 

Per i burocrati
dell’Onu il voto
dell’India vale
esattamente
quanto quello
di San Marino e il Brasile pesa come una qualsiasi isola dei Caraibi.

 

Secondo gli osservatori, dopo le recenti cronache diplomatiche sembra emergere la convinzione che il futuro delle Nazioni Unite oscilli tra due aggettivi: “centrale”, come vorrebbero gli europei, oppure “vitale”, come invece sostengono gli americani. Spiace dirlo – è stato osservato – ma l’Onu, in queste condizioni, non può essere né centrale né vitale.
Sostiene Sergio Romano: «Per rendersi conto della desolante impotenza delle Nazioni Unite, si provi a immaginare che cosa sarebbe accaduto se il Consiglio di Sicurezza avesse votato la seconda risoluzione con cui la Gran Bretagna, alla vigilia della guerra irachena, cercava di riparare la rottura dei giorni precedenti». I francesi erano pronti a bocciarla con il loro veto, e gli Stati Uniti per un momento accarezzarono la prospettiva di una maggioranza che avrebbe sconfitto moralmente, se non giuridicamente, la linea di Parigi. La situazione sarebbe stata due volte assurda. La Francia avrebbe usato un diritto concessole alla fine del secondo conflitto mondiale, quando era formalmente vincitrice e aveva ancora un impero coloniale.
Gli Stati Uniti avrebbero formato una “maggioranza morale” con tre Paesi africani (Angola, Camerun, Guinea) privi di reali responsabilità internazionali, e con due Stati latino-americani (Cile e Messico) che vivono a parecchie migliaia di chilometri dall’occhio del tifone. A quale dei due fattori avremmo dovuto attribuire maggiore importanza? A un veto anacronistico? Oppure a una maggioranza occasionale, raccogliticcia e dunque per nulla rappresentativa?
In realtà, è da tempo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non rappresenta più l’assemblea dei soci. La sua Carta risale al 1945 e contiene regole che non hanno più alcun rapporto con il mondo attuale. Il Regno Unito e la Francia hanno perduto i rispettivi imperi, il numero dei membri si è quadruplicato, l’Unione Sovietica si è dissolta, l’Unione Europea ha ormai una personalità internazionale e l’India (una democrazia nucleare, con oltre un miliardo di abitanti) non è meno importante della Cina. Ma per i burocrati dell’Onu il voto dell’India vale esattamente quanto quello di San Marino (meno di trentamila abitanti), e il Brasile pesa come una qualsiasi isola dei Caraibi, e l’arma del veto resta saldamente nelle mani di cinque Paesi che vinsero la guerra, sessant’anni fa, con un’alleanza di cui constatammo rapidamente la fragilità. Allora, perché sorprendersi se queste Nazioni Unite non sono in grado di risolvere i problemi del mondo?
Ebbene: è stata proprio la svolta unilateralista americana a rendere l’Organizzazione quanto mai necessaria, anche più di quanto non lo fosse prima della guerra irachena. Gli Usa sostengono che le nuove minacce internazionali (apocalittiche armi di sterminio nelle mani di gruppi terroristici e di Stati canaglia) rendono la guerra preventiva tanto necessaria quanto legittima. E certamente non hanno torto. Ma altrettanto certamente hanno torto quando trascurano un altro problema non meno rilevante: se la guerra preventiva diventa diritto internazionale, non è comunque opportuno che la decisione di agire sia lasciata soltanto allo Stato interessato. Altri Paesi in futuro potrebbero far riferimento all’esempio iracheno per regolare conti con un vicino sgradito. O indocile. O comunque scomodo. L’India potrebbe far guerra preventiva al Pakistan, e viceversa; potrebbe esplodere l’Africa del tribalismo...

La nuova concezione politica americana richiede dunque un nuovo Consiglio di Sicurezza, e una riforma generale. Occorrerà sopprimere i vecchi veti, e nello stesso tempo scrivere regole che rispecchino le responsabilità internazionali di tutti i membri. Sarà necessario evitare che un solo Paese possa opporsi alla volontà degli altri, ma introdurre maggioranze ponderate che tengano conto delle reali gerarchie. Forse si potrà ottenere un risultato calcolando il peso demografico, il prodotto interno lordo, l’impegno assistenziale per i Paesi poveri, il livello culturale e scientifico, la quota di partecipazione al commercio mondiale. Ci sono parametri infiniti, sicché nulla sarà semplice e saranno necessari magari molti anni, prima di venirne a capo. Ma di qui ad allora non c’è da farsi eccessive illusioni: l’Onu non sarà né centrale né vitale. Sarà sempre più obsoleta.

Da tempo c’era qualcosa nell’aria, se è vero, com’è vero, che nella primavera del 1933 il Segretario generale dell’Onu aveva inviato a tutti i Paesi membri un questionario su quali modifiche si potessero apportare alla Carta. Tutto allora sembrava convergere sull’ipotesi americana – il quick fix – di un semplice allargamento della membership permanente a Germania e Giappone, cioè a due delle tre potenze dell’asse Roma-Berlino-Tokyo che avevano perso la guerra ma erano diventate col tempo Paesi ad alta propulsione economica e membri del G7, o del G7+1. In pratica, veniva esclusa l’Italia, con la proiezione inespressa ma intuibile di un’immagine di inaffidabilità decisamente immeritata e sicuramente offensiva.
Per questa ragione, in un sabato pomeriggio, venne messo a punto a Bologna un progetto alternativo di riforma, basato sulla creazione di una categoria ad hoc di membri semipermanenti, sulla falsariga di un emendamento già introdotto dalla Società delle Nazioni negli anni Venti. Ai cinque membri con diritto di veto, e a cinque Paesi eletti dall’Assemblea generale, si sarebbero affiancati cinque seggi a rapida rotazione tra un gruppo di 20-22 Paesi che per dimensione, rilevanza e impegno avrebbero allargato la base di rappresentanza del Consiglio di Sicurezza. Un ulteriore requisito, nella proposta originaria, era la presenza di un libero mercato dell’informazione, a rafforzare la natura liberale dell’Onu e a sottolineare il ruolo fondamentale dell’opinione pubblica mondiale.
Con la proposta italiana di riforma sarebbero stati rappresentati nel Consiglio, tra membri permanenti e semipermanenti, più dei quattro quinti della popolazione planetaria. Da un lato, questa proposta avrebbe potuto raccogliere un consenso più ampio del quick fix, visto che coinvolgeva tutte le principali nazioni. Dall’altro, attribuendo maggiori responsabilità ai Paesi più importanti, si sarebbe resa possibile una più efficace azione collettiva. Dopo una dura campagna, condotta in gran parte dal nostro ambasciatore, si arrivò a un voto, ma soltanto nel 1998, quando sia la proposta americana sia quella italiana mancarono il quorum necessario.
Una riflessione, per riprendere il discorso della riforma dell’Onu. Per avere migliori possibilità, anche alla luce del panorama molto cambiato, la proposta italiana forse potrebbe essere abbinata anche a una riforma degli strumenti multilaterali. Parte delle divisioni durante la crisi irachena sono state causate dall’eccessiva distanza tra le misure previste dall’articolo 41 (sanzioni economiche) e quelle dell’articolo 42 (sanzioni militari).
Il caso dell’Iraq ha dimostrato che, nell’eventualità di gravi minacce alla stabilità internazionale non previste dalla Carta – quali quelle poste dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa – l’articolo 41 è insufficiente, mentre l’articolo 42 può trovare il necessario consenso. Sarebbe probabilmente utile suggerire l’adozione di misure innovative – alcune delle quali sono circolate negli ultimi tempi in ambienti europei – più robuste delle semplici sanzioni economiche, ma al di sotto della soglia di un intervento militare, quali ad esempio un sistema di ispezioni rafforzate e accompagnate da missioni dei Caschi Blu. Una sorta di articolo 41 bis avrebbe il pregio di poter affrontare le altre situazioni di proliferazione, prime fra tutte quella coreana e forse anche iraniana, senza necessariamente precipitare di nuovo il mondo in una scelta tra misure inefficaci e una guerra. Ciò potrebbe, in ultima analisi, rappresentare un primo passo per trovare una convergenza a Bruxelles e a New York.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2003