Settembre 2003

RELAZIONI INTERNAZIONALI: CASELLE VUOTE DEL DOPOGUERRA

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L’atlante rivisitato
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

Sino alle due ultime guerre mondiali
è stata la “vecchia” Europa a scrivere
la storia.
Ora le decisioni
del pianeta
hanno bisogno
del benessere della “giovane” America.

 

Bombe e bomboniere, ultima ricetta dell’Amministrazione Bush per dare stabilità e sicurezza alla comunità internazionale. L’effetto vetrina della rapida operazione irachena è destinato a durare a lungo. Non è necessaria una rassegna della stampa estera per capire quanto forte sia l’ipoteca posta sui fatti interni di ciascun Paese (non solo degli Stati-canaglia).
Noi non viviamo nel paese di Lilliput. Il problema ci interessa da vicino, come potenza economica mondiale, come non belligeranti e ad un tempo amici fedeli degli Stati Uniti (una formula bipartisan, figlia naturale delle sofferte convergenze parallele morotee).
Uno storico o un politologo saprebbe spiegare meglio di me cause ed effetti di una politica estera che si radicalizza, sottoponendo a forte stress ossidativo le istituzioni nazionali e internazionali. Nell’arena internazionale si è elevato il tasso dei ricatti e delle intimidazioni (alle bombe intelligenti che piovono dal cielo si risponde via terra con gli Shahid, con le bombe diligenti innestate su micce umane, alimentando la politica del terrore globale).
Si è creata nella comunità internazionale una palude limacciosa in cui circolano troppe tossine, alimentate da armate visibili e invisibili. Proviamo ad orientarci con una bussola per naviganti.
Indubbiamente l’Amministrazione Bush sta rielaborando un pensiero, una strategia e un indirizzo politico. Il messaggio di una fede democratica infilata nella canna di un fucile gli americani lo hanno sempre usato nelle loro imprese militari, combinando etica e affari in contesti internazionali diversi. E’ chiaro e ruvido nella sua essenzialità. In prima battuta fa pensare ai proclami dei capipopolo dell’800 e ‘900 supportati dal consenso della cultura popolare.
Poi ci si accorge, leggendo in filigrana, che la sua forza di persuasione appare sbiadita per l’America di oggi, ancora permeata dello spirito libertario ed egalitario espresso dalla rivoluzione del 1776, e diventa stridente se si rapporta al forte desiderio di legalità che ha prodotto il quadro attuale, gli strumenti e le organizzazioni utilizzati per dare al mondo ordine e sicurezza dopo la seconda guerra mondiale (Conferenza di Yalta, 1945). Sempre fermamente ancorati a valori, princìpi e metodi riconosciuti da una rete di norme varate con il consenso di una vasta platea di Stati, in buona parte immaginate e supportate dagli stessi Stati Uniti. Privilegiando ora l’azione diretta, senza il consenso internazionale, l’America di fatto mette in discussione se stessa, il suo patrimonio di umanesimo creativo.

La crisi delle istituzioni internazionali (Nato, Wto, Onu, Fmi, Banca mondiale) non può essere bypassata. Essa sintetizza la sclerosi di un blocco storico di alleanze, di un modo di interpretare la sovranità, di una logica imperiale del mercato, di un metodo politico fin qui seguito, che ora è incapace di produrre politica.
E’ in crisi la dottrina Kissinger sull’equilibrio bipolare (Usa-Urss): per rafforzare il blocco occidentale giustificava la presenza di regimi dittatoriali “amici” in Asia, Africa e America Latina (male minore).
E’ in crisi il modello nazionalistico comparso sulla scena politica con la Conferenza di Versailles (1919). Sulle macerie degli imperi absburgico e ottomano è stata costruita una galassia di Stati saldamente ancorati al principio della sovranità assoluta. E ora l’analisi sociologica s’interroga sui concetti di classe, di popolo e di moltitudine.
E’ in crisi l’idea di un mercato affidato esclusivamente al principio dell’accumulazione capitalistica. In America e in Europa si è alla ricerca di regole e codici deontologici che diano moralità e trasparenza ai mercati finanziari. La vecchia esortazione leninista “Operai di tutto il mondo unitevi” è ormai sostituita da un’altra esortazione allarmata: “Azionisti di tutto il mondo unitevi”. Le ansie di un profitto difficile risiedono in oggettive anomalie del mercato, ma c’è da mettere in conto anche la cinica voracità del manager (non hanno parametri aziendali di riferimento, i loro guadagni sono fortemente divaricati rispetto agli stipendi dei dipendenti, non è difficile immaginare manovre speculative di Borsa realizzate con i pacchetti azionari da loro posseduti). Oltre che dai comitati di azionisti, segni di rivolta vengono dai sindacati e dai movimenti dei diritti civili e dei consumatori.

La crisi internazionale passa dunque attraverso problematiche complesse, animata dalle ansie e dai bisogni di crescita della democrazia economica e della democrazia istituzionale (va sottolineato che nel mondo islamico non c’è spazio per il dissenso disarmato).
Il processo di globalizzazione implica forme nuove di responsabilità collettiva connesse ad un significato “marginale” delle frontiere. Lo Stato moderno non è più depositario di una sovranità coltivata per scegliere le aree d’influenza con la cultura e le logiche dell’appartenenza. Il fascino della rappresentanza egemone nella ricerca di nuovi equilibri internazionali riporta alla luce un passato reso sempre più sbiadito, anche per il contributo offerto da precedenti amministrazioni americane.
Questa ricetta adesso è stata riesumata dall’Amministrazione Bush ed è l’unica circolante, dal momento che né l’Europa (per divisioni politiche), né l’Asia (per le difficoltà connesse alla conversione all’economia di mercato) hanno autorevolezza e credibilità sufficienti per proporre ricette alternative. Dunque tutto il dibattito attorno al “nuovo” parte dal “vecchio” ed è concentrato obtorto collo sulle prospettive offerte dalla diplomazia americana.

Il pendolo della politica estera americana ha oscillato sempre tra priorità di potenza (ancorate al realismo mitteleuropeo) e priorità di etica (espressione dello spirito puritano e calvinista della società civile). A favore delle prime troviamo Kissinger e il presidente Roosevelt, padre del piano Marshall e dell’Onu attuale, intesa come foro di dialogo e di soluzione delle controversie.
Un forte richiamo all’etica si è avuto invece con il presidente Wilson (1856-1924), con il maccartismo degli anni Sessanta e più recentemente con il presidente Carter (1976-1980), convinti di dover ispirare l’azione politica ai valori più profondi e autentici dell’animo americano.

Attualmente sia i repubblicani sia i democratici sostengono, con accenti diversi, la priorità degli ideali e dei valori morali nell’azione politica (per gli effetti destabilizzanti del terrorismo e per la delegittimazione morale del capitalismo, conseguente agli scandali finanziari).
Una politica estera “etica” è così diventata il fiore all’occhiello dell’Amministrazione Bush. Pensata e affinata soprattutto dagli allievi del filosofo Leo Strauss, docente all’Università di Chicago fino alla sua scomparsa (1973). Ricordiamo Paul Wolfowitz, viceministro della Difesa, Richard Perle, alla guida del Defence policy board, Gary Schmitt, direttore del Progetto per un Nuovo Secolo Americano. Torna alla ribalta l’illusione yankee di cambiare il mondo, coltivando l’orgoglio dell’appartenenza e la memoria nazionalista.
Il pensiero di Strauss, orientato all’affermazione della verità assoluta, rafforza il patrimonio ideale dell’anima conservatrice. La fede nella democrazia deve restare sempre solida e vigile per sconfiggere la tirannide, ovunque si annidi. Se una religione è d’intralcio si utilizzano predicatori, accentuando le differenze tra apostoli e apostati (in Iraq – Paese con il 97% di musulmani – sono stati inviati 800 missionari arruolati nel “mission board” per diffondere il credo della Bibbia protestante. Appartengono in maggioranza alla Convenzione “Southern Baptist” e agli evangelici del “Samaritan’s Purse”, gruppi notoriamente oltranzisti). Dare percorsi politici ad un pensiero filosofico non è mai cosa agevole. Nel caso specifico s’incontrano contraddizioni e trabocchetti connessi alle aspirazioni libertarie delle società moderne. «Attenti ad uccidere mostri, potreste scoprire di essere voi», ammoniva Nietzsche.

Ciò che caratterizza una democrazia (anche quella americana) è la tutela del pluralismo e delle diversità, non la virtù dell’osservanza e l’affermazione di percorsi di omologazione del consenso. Ne consegue la necessità di cercare gli equilibri socio-politici attraverso la dialettica del dialogo piuttosto che con l’uso dello scontro conflittuale, dimostrando disponibilità verso una graduale destrutturazione del monopolio del sapere e del potere, per accrescere il patrimonio delle conoscenze collettive.
Se ci può essere consenso e condivisione sulla necessità di un disegno che dia più democrazia, ordine, sicurezza e sviluppo alla comunità internazionale, forti dubbi e dissensi restano sul metodo. E’ il caso di ricordare che l’ampliamento dell’area della democrazia rappresentativa è una tendenza già in atto. Secondo i dati ultimi forniti da “Freedom House”, un’organizzazione di New York che monitorizza i movimenti democratici e il grado di tutela dei diritti umani, dei 192 Paesi in cui è frazionato il mondo, ben 121 avrebbero democrazie elettorali, mentre nel 1991 erano soltanto 76 (ovviamente le elezioni non garantiscono una democrazia liberale).

Le difficili condizioni di dialogo hanno spiegazioni già ricordate: l’eccesso di potere americano cui fa riscontro il deficit di potere europeo e asiatico (qualcuno già parla di scisma occidentale pensando alla conflittualità Usa-Europa). Questo limite dovrebbe rendere più pragmatici e circospetti i responsabili della politica estera americana. Invece la convinzione di dover assolvere ad una missione storica di pulizia e di ordine, conseguenziale all’impostazione etica prescelta, pone l’Amministrazione Bush nel limbo di un isolamento illuminato. Con il rischio di vedere aumentare le ragioni della diffidenza. Offre democrazia ai Paesi musulmani e sostiene il generale Pervez Musharraf in Pakistan. Annienta il feroce potere assoluto di Saddam Hussein in Iraq, ma non chiede per lui il giudizio della Corte Penale Internazionale (cosa impossibile per il mancato riconoscimento di questa giurisdizione da parte americana). Con immagini contraddittorie si rende più difficile l’attuazione di una politica gravata di responsabilità planetarie. E si assiste ad una politica estera che produce convulsioni e immobilismo (non si può ridurre tutto ad un no, ad un sì e a randellate per Paesi-terzini poco diligenti), senza tenere conto di una gestione dell’esistente caratterizzata da molti fattori imposti dalla globalizzazione: «Puoi portare un cavallo all’acqua, ma non è detto che beva», recita un vecchio proverbio inglese.
Il riconoscimento della diversità e la salvaguardia dei diritti umani acquistano più forza e valore nelle aspettative di una società globalizzata che va verso l’omogeneizzazione dei consumi. La forte accelerazione impressa al commercio internazionale provoca inoltre un effetto rimpicciolito della sovranità che rende ogni giorno più difficile la coabitazione tra libertà economica e monopolio politico. Un altro effetto della globalizzazione è la competizione tra sistemi territoriali che fanno rete, cui si collega l’importanza dell’uso strategico delle public utilities (aziende erogatrici di servizi di pubblica utilità). Questo tema diventa di largo interesse internazionale in vista dei futuri progetti di sviluppo. Smaltimento dei rifiuti, uso dell’acqua e delle fonti energetiche, tutela dell’ambiente e della biodiversità obbediscono ormai a logiche di gestione planetaria e costituiscono un nucleo consistente di interessi universali (global services). La finanza di Buffalo Bill non può supplire ad una gestione internazionale delle risorse, che implica responsabilità collettive (rientra in questo capitolo anche la questione petrolio).
Esiste una lunga tabella di “emergenze” che richiede l’intervento strategico delle organizzazioni internazionali. E’ di grande attualità la gestione del recupero dei crediti nei confronti dell’Iraq. La Omni Whittimgton, una società olandese specializzata in questa settore, ha in portafoglio circa 200 milioni di dollari da recuperare. Si tratta di una somma minuscola su una consistenza debitoria di Baghdad che si aggira sui 383 miliardi di dollari, una cifra che spegne sul nascere tutti i buoni propositi di rinascita. Questo problema richiede decisioni urgenti di politica internazionale. E se la storia ha un senso, il ruolo assolto nel 1919 dalla Banca dei regolamenti internazionali per il debito estero tedesco oggi, per la questione irachena, dovrebbe spettare alla Commissione per le compensazioni dell’Onu.
La crisi in cui si dibattono le organizzazioni internazionali non può diventare “utile” paralisi, assegnando loro un low profile, fino a farne gusci brillanti di conchiglie vuote. Deve costituire stimolo per una radicale riqualificazione (se l’Europa c’è, batta un colpo in questa direzione).

Bisogna raffreddare con il cuore e con la ragione l’attuale clima di scontro, remando contro il vento delle tentazioni giacobine. Il fondamentalismo occidentale contrapposto al fondamentalismo islamico non erode l’area del consenso al terrorismo, non elimina il precariato urbano, la frustrazione di avvertire storici soprusi, l’orgoglio di coltivare sentimenti di rivalsa.
Si deve impressionare il mondo con atti di liberalismo costituzionale. Ripristinando la legalità internazionale e la centralità dell’Onu, ripensando il sistema delle alleanze, sostituendo le logiche della sovranità con quelle della reciprocità, riducendo gli abusi delle maggioranze, rendendo interdisciplinari i percorsi della scienza, della filosofia, della religione e dello sviluppo.
Sino alle due ultime guerre mondiali è stata la “vecchia” Europa a scrivere la storia. Ora le decisioni del pianeta hanno bisogno del Washington consensus, del benestare della “giovane” America. Nel mezzo c’è stato un lungo cammino che ha allargato l’area della democrazia liberale, del pluralismo e della tolleranza, rafforzando il ruolo d’intermediazione del diritto internazionale (in molti casi valutazioni pre-giuridiche gli conferiscono ancora connotati di classe). L’esigenza di un “foro” terzo avvertita dalle società moderne si identifica con l’efficienza di un’Amministrazione e di una Giustizia internazionali con un grappolo di poteri gestiti super partes.
Se si boicotta la fiera delle ipocrisie si vedrà che la comunità internazionale merita un negoziato serio per un “lodo di rifondazione” delle istituzioni. Potrebbe essere avviato in apposite Conferenze pensate per rendere più distaccato dall’eroismo degli interessi il dialogo riformatore (la centralità dell’Onu potrebbe essere rilanciata con un negoziato condotto fuori dall’Onu).
L’attuale stato di paura e d’incertezza crea solo la Società della sorveglianza che non è l’Eldorado per nessuna Società civile. Iniettato a dosi elevate può essere fatale, anche sotto il cielo americano, che non può restare perennemente blindato. Dal gioco crudele del Risiko planetario non si esce con politiche e strategie che producono una modernità imposta... e subita.

   
   
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