Rispetto
ai concorrenti
di riferimento, siamo un Paese di persone meno istruite che lavorano
in imprese meno efficienti, perché di dimensioni
forzatamente
ridotte.
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Cè voluto poco che il Governatore della Banca dItalia,
Fazio, non intitolasse il paragrafo più inquietante delle
sue Considerazioni La parabola calante del sistema economico
italiano. Ma il senso della sua analisi non dà luogo
ad equivoci: dalla metà degli anni Novanta è in atto
una progressiva erosione dellefficienza complessiva del sistema,
che sta conducendo a un arretramento storico. La quota
italiana sullexport mondiale è scesa dal 4,5% del 95
al 3,6 del 2002: per ritrovare un livello analogo si deve risalire
alla metà degli anni Sessanta. Siamo precipitati allindietro
di ben quarantanni!
Lorigine del declino coincide e non è un caso
con la fine di quello strategico ammortizzatore
che era la nostra lira; le svalutazioni a ripetizione consentivano
di compensare le lacune, i ritardi, i differenziali
del sistema Italia. Poi venne lepoca del cambio forte, preliminare
alladozione delleuro. E a quel punto cominciarono i
guai, con la perdita di quote di mercato, diffusa in tutto il mondo
sviluppato: «La composizione delle esportazioni italiane le
rende vulnerabili allandamento dei prezzi di offerta, necessariamente
legati ai costi di produzione. E scarsa la presenza delle
nostre merci nei settori tecnologicamente avanzati; è elevata
in quelli dove i prodotti si affermano per il gusto e la qualità
della lavorazione». Cioè: esportiamo prodotti esteticamente
ottimi, e lavorazioni raffinate; ma non prodotti tecnologicamente
avanzati. E il calo della competitività si fa sentire anche
sul mercato interno, perché le importazioni di merci straniere
diventano sempre più convenienti. Dal 1996 al 2002, limpatto
negativo degli scambi con lestero sul prodotto interno lordo
è valutabile in 2,9 punti percentuali.

Che cosa cè allorigine del declino? Innanzitutto,
il limitato peso della produttività. Il confronto con gli
altri Paesi è semplicemente impietoso: nel periodo 1995-2000
gli Stati Uniti hanno fatto registrare incrementi annui della produttività
oraria del lavoro del 4,5%, contro il 4,6 della Francia e il 2,4
della Germania, mentre lItalia non è andata oltre lo
0,9%. E ancora: dal 1998 al 2002 il Pil italiano è aumentato
al ritmo medio dell1,8%, contro il 3% degli Usa e il 2,3%
dellEuropa. Negli ultimi cinque anni le nostre esportazioni
sono cresciute solo del 16%, contro un aumento del 28% del commercio
mondiale: la Francia ha messo a segno un 31% e la Germania un 38%.
Un dato di fatto la dice lunga sulle distorsioni di certi comportamenti
italiani: nellultimo biennio le retribuzioni del settore manifatturiero
in Germania sono cresciute a un tasso pari a poco più della
metà di quelle italiane, mentre la produttività è
aumentata a un ritmo doppio.
Va tenuto conto anche di altri fattori. Rispetto ai concorrenti
di riferimento, siamo un Paese di persone meno istruite (il 10%
degli adulti possiede unistruzione terziaria, contro percentuali
almeno triple nei Paesi di confronto) che lavorano in imprese meno
efficienti, perché di dimensioni forzatamente ridotte. Dimensione
delle imprese e scarsa disponibilità di capitale umano di
alta qualità concorrono ad ostacolare lespansione di
attività ad alto contenuto tecnologico, rendendo il nostro
commercio estero così carente nei nuovi prodotti e così
vulnerabile in quelli ad alta intensità di lavoro non particolarmente
qualificato.
Sappiamo che il sistema delle imprese si è ingegnato di
aggirare i gap in questione. Che le imprese minori fanno più
innovazione di quanto non risulti dai conti, perché è
fiscalmente conveniente contabilizzarla tra i costi correnti. Che
la produttività risulta diminuita recentemente anche perché
i primi interventi su un mercato del lavoro forsennatamente ingessato
hanno permesso di dare impieghi regolari a centinaia di migliaia
di giovani che altrimenti sarebbero finiti nel sommerso. Ma ciò
significa, per contro, che decenni di crescita deforme hanno prodotto
un sommerso ignoto, la cui bassa produttività non è
ancora del tutto contabilizzata e soprattutto che hanno decimato
le grandi imprese in grado di investire formalmente grandi risorse
in innovazioni di lunga portata, che debbono necessariamente venire
capitalizzate.
Dunque: bisogna umilmente rimboccarsi le maniche e accettare che
i giovani studino più a lungo e sul serio discipline inerenti
alle loro future attività; che le imprese si diano dimensioni
ritagliate sulle sfide del mercato, nellambito di idonee nuove
normative; che ci sia maggiore impegno nella ricerca finalizzata
allinnovazione; che si investa in infrastrutture, visto lattuale
basso costo dei capitali, con inflazione in calo e in presenza di
un avanzo nei conti con lestero.
Riecheggiando le parole del Governatore in tema di competitività,
di concorrenza, di innovazione, (e Fazio è tornato sullargomento,
sostenendo che le nostre imprese sono colpevoli di essere nella
tecnologia «in ritardo di dieci anni rispetto agli altri Paesi
europei»), il presidente dellAutorità garante
della concorrenza e del mercato, più nota come Antitrust,
Giuseppe Tesauro, ha elencato le zavorre che rendono
vischiosa la competitività del nostro sistema industriale.
Ne ha indicato sei, le principali, tutte poco propense allexport
e poco concorrenziali, problematiche per la competitività:
lenergia, i servizi professionali, il commercio allingrosso,
i servizi finanziari e assicurativi, i trasporti, le telecomunicazioni.
E ha denunciato le numerose intese di cartello per la spartizione
dei mercati, che coinvolgono specialmente Pubblica Amministrazione
e imprese, dove si verificano «gravi e odiose collusioni»
per alterare i prezzi. Sotto accusa, comunque, Enel ed Eni. E sulle
telecomunicazioni, dal 1995 al 2000, lAntitrust ha svolto
più istruttorie che su qualunque altro settore.
Ma anche in questo caso quello dellinnovazione è il
tema predominante. E qui ci sono note dolenti espresse dalle classifiche
internazionali di competitività che le imprese italiane riescono
a scalare verso i livelli alti quando si tratta dei fattori di competitività
interna alle stesse, ma che poi sono costrette a ridiscendere quando
si tratta di fattori di competitività esterna alle imprese.
Da tre indagini sulla competitività dei sistemi Paese, lItalia
emerge come 18a su 18 Paesi considerati da Merryl Lynch, 32a su
49 Paesi considerati da Imd, 39a su 80 Paesi considerati da World
Economic Forum.
I fattori di inefficienza che emergono come più evidenti
sono quelli delle infrastrutture, dove siamo sotto la media europea
per strade, autostrade e ferrovie, mentre non vanno dimenticate
le vie del mare che sono soltanto potenzialmente forti
in Italia; della formazione e della ricerca scientifico-tecnologica,
dove la Commissione europea nel suo recente Rapporto (Verso unarea
europea di ricerca. Scienza, tecnologia e innovazione) ci colloca
quasi sempre nelle ultime tre posizioni; della pubblica amministrazione
e dellambiente normativo, dove si segnalano le lentezze della
burocrazia e la sua modesta competenza; del mercato del lavoro,
dove abbiamo tassi di occupazione decisamente sotto la media europea;
del ruolo della Borsa e degli investitori istituzionali, che è
ancora troppo debole. Ancora una volta tutto questo chiarisce perché
nel nostro Paese ci sono poche grandi imprese, se si tolgono i settori
delle telecomunicazioni e dellenergia, che comunque dovrebbero
rafforzarsi ulteriormente. Per capacità innovativa ci sono
invece varie piccole e medie imprese italiane che potrebbero crescere
ed evolvere in medie e in grandi imprese se i fattori di sistema
lo consentissero. Allora avremmo quella compresenza di Pilastri
e di Distretti che farebbe della nostra economia una
delle più forti su scala mondiale, come si è dimostrato
in un recente convegno organizzato dallAccademia dei Lincei
e dalla Fondazione Edison. Da tutto quanto detto, risaltano tre
consapevolezze:
1) Se un sistema produttivo non cresce, anche il sistema Paese
non si sviluppa, luno e laltro essendo interdipendenti.
In un sistema dinamico che intenda rimaner tale vanno prodotti simultaneamente
beni pubblici, beni sociali e beni economici, ma non si può
pensare che limpresa e il mercato svolgano una funzione di
supplenza quando i beni pubblici e quelli sociali sono prodotti
in modo inefficiente.
2) LItalia è e deve restare in Europa come grande
Paese, nella consapevolezza che il semestre italiano di presidenza
dellUe sarà per tutti una sfida. Lo sarà per
le istituzioni (Governo e Parlamento nei suoi partiti di maggioranza
e di opposizione, che dovrebbero abbassare i toni della conflittualità),
per le imprese, ma anche per altri soggetti, come le università
e gli enti di ricerca. Tutti dovrebbero farsi grandi sostenitori
anche di uneconomia della conoscenza. Da tempo si parla di
escludere dal calcolo del deficit sui Prodotti interni lordi le
spese per le infrastrutture e per la ricerca scientifico-tecnologica.
E unipotesi interessante, ma non basta poter spendere
di più per essere più efficienti.
3) E necessario disporre di una progettazione e avere una
convinzione poliennale coerente che spetta al governo elaborare
e attuare, una volta superata la durissima congiuntura internazionale
dei due anni passati, con alcune grandi riforme del sistema Paese,
in linea con le richieste della Commissione europea.
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