Settembre 2003

RADIOGRAFIE DEL “SISTEMA ITALIA”

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Scattato
l’allarme rosso
D.M.B. - Mabel
 
 

 

 

Rispetto
ai concorrenti
di riferimento, siamo un Paese di persone meno istruite che lavorano in imprese meno efficienti, perché di dimensioni
forzatamente
ridotte.

 

C’è voluto poco che il Governatore della Banca d’Italia, Fazio, non intitolasse il paragrafo più inquietante delle sue Considerazioni “La parabola calante del sistema economico italiano”. Ma il senso della sua analisi non dà luogo ad equivoci: dalla metà degli anni Novanta è in atto una progressiva erosione dell’efficienza complessiva del sistema, che sta conducendo a un arretramento “storico”. La quota italiana sull’export mondiale è scesa dal 4,5% del ‘95 al 3,6 del 2002: per ritrovare un livello analogo si deve risalire alla metà degli anni Sessanta. Siamo precipitati all’indietro di ben quarant’anni!
L’origine del declino coincide – e non è un caso – con la fine di quello strategico “ammortizzatore” che era la nostra lira; le svalutazioni a ripetizione consentivano di compensare le lacune, i ritardi, i “differenziali” del sistema Italia. Poi venne l’epoca del cambio forte, preliminare all’adozione dell’euro. E a quel punto cominciarono i guai, con la perdita di quote di mercato, diffusa in tutto il mondo sviluppato: «La composizione delle esportazioni italiane le rende vulnerabili all’andamento dei prezzi di offerta, necessariamente legati ai costi di produzione. E’ scarsa la presenza delle nostre merci nei settori tecnologicamente avanzati; è elevata in quelli dove i prodotti si affermano per il gusto e la qualità della lavorazione». Cioè: esportiamo prodotti esteticamente ottimi, e lavorazioni raffinate; ma non prodotti tecnologicamente avanzati. E il calo della competitività si fa sentire anche sul mercato interno, perché le importazioni di merci straniere diventano sempre più convenienti. Dal 1996 al 2002, l’impatto negativo degli scambi con l’estero sul prodotto interno lordo è valutabile in 2,9 punti percentuali.

Che cosa c’è all’origine del declino? Innanzitutto, il limitato peso della produttività. Il confronto con gli altri Paesi è semplicemente impietoso: nel periodo 1995-2000 gli Stati Uniti hanno fatto registrare incrementi annui della produttività oraria del lavoro del 4,5%, contro il 4,6 della Francia e il 2,4 della Germania, mentre l’Italia non è andata oltre lo 0,9%. E ancora: dal 1998 al 2002 il Pil italiano è aumentato al ritmo medio dell’1,8%, contro il 3% degli Usa e il 2,3% dell’Europa. Negli ultimi cinque anni le nostre esportazioni sono cresciute solo del 16%, contro un aumento del 28% del commercio mondiale: la Francia ha messo a segno un 31% e la Germania un 38%. Un dato di fatto la dice lunga sulle distorsioni di certi comportamenti italiani: nell’ultimo biennio le retribuzioni del settore manifatturiero in Germania sono cresciute a un tasso pari a poco più della metà di quelle italiane, mentre la produttività è aumentata a un ritmo doppio.
Va tenuto conto anche di altri fattori. Rispetto ai concorrenti di riferimento, siamo un Paese di persone meno istruite (il 10% degli adulti possiede un’istruzione terziaria, contro percentuali almeno triple nei Paesi di confronto) che lavorano in imprese meno efficienti, perché di dimensioni forzatamente ridotte. Dimensione delle imprese e scarsa disponibilità di capitale umano di alta qualità concorrono ad ostacolare l’espansione di attività ad alto contenuto tecnologico, rendendo il nostro commercio estero così carente nei nuovi prodotti e così vulnerabile in quelli ad alta intensità di lavoro non particolarmente qualificato.

Sappiamo che il sistema delle imprese si è ingegnato di aggirare i gap in questione. Che le imprese minori fanno più innovazione di quanto non risulti dai conti, perché è fiscalmente conveniente contabilizzarla tra i costi correnti. Che la produttività risulta diminuita recentemente anche perché i primi interventi su un mercato del lavoro forsennatamente ingessato hanno permesso di dare impieghi regolari a centinaia di migliaia di giovani che altrimenti sarebbero finiti nel sommerso. Ma ciò significa, per contro, che decenni di crescita deforme hanno prodotto un sommerso ignoto, la cui bassa produttività non è ancora del tutto contabilizzata e soprattutto che hanno decimato le grandi imprese in grado di investire formalmente grandi risorse in innovazioni di lunga portata, che debbono necessariamente venire capitalizzate.
Dunque: bisogna umilmente rimboccarsi le maniche e accettare che i giovani studino più a lungo e sul serio discipline inerenti alle loro future attività; che le imprese si diano dimensioni ritagliate sulle sfide del mercato, nell’ambito di idonee nuove normative; che ci sia maggiore impegno nella ricerca finalizzata all’innovazione; che si investa in infrastrutture, visto l’attuale basso costo dei capitali, con inflazione in calo e in presenza di un avanzo nei conti con l’estero.

Riecheggiando le parole del Governatore in tema di competitività, di concorrenza, di innovazione, (e Fazio è tornato sull’argomento, sostenendo che le nostre imprese sono colpevoli di essere nella tecnologia «in ritardo di dieci anni rispetto agli altri Paesi europei»), il presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, più nota come Antitrust, Giuseppe Tesauro, ha elencato le “zavorre” che rendono vischiosa la competitività del nostro sistema industriale. Ne ha indicato sei, le principali, tutte poco propense all’export e poco concorrenziali, “problematiche” per la competitività: l’energia, i servizi professionali, il commercio all’ingrosso, i servizi finanziari e assicurativi, i trasporti, le telecomunicazioni. E ha denunciato le numerose intese di cartello per la spartizione dei mercati, che coinvolgono specialmente Pubblica Amministrazione e imprese, dove si verificano «gravi e odiose collusioni» per alterare i prezzi. Sotto accusa, comunque, Enel ed Eni. E sulle telecomunicazioni, dal 1995 al 2000, l’Antitrust ha svolto più istruttorie che su qualunque altro settore.
Ma anche in questo caso quello dell’innovazione è il tema predominante. E qui ci sono note dolenti espresse dalle classifiche internazionali di competitività che le imprese italiane riescono a scalare verso i livelli alti quando si tratta dei fattori di competitività interna alle stesse, ma che poi sono costrette a ridiscendere quando si tratta di fattori di competitività esterna alle imprese.

Da tre indagini sulla competitività dei sistemi Paese, l’Italia emerge come 18a su 18 Paesi considerati da Merryl Lynch, 32a su 49 Paesi considerati da Imd, 39a su 80 Paesi considerati da World Economic Forum.
I fattori di inefficienza che emergono come più evidenti sono quelli delle infrastrutture, dove siamo sotto la media europea per strade, autostrade e ferrovie, mentre non vanno dimenticate le “vie del mare” che sono soltanto potenzialmente forti in Italia; della formazione e della ricerca scientifico-tecnologica, dove la Commissione europea nel suo recente Rapporto (Verso un’area europea di ricerca. Scienza, tecnologia e innovazione) ci colloca quasi sempre nelle ultime tre posizioni; della pubblica amministrazione e dell’ambiente normativo, dove si segnalano le lentezze della burocrazia e la sua modesta competenza; del mercato del lavoro, dove abbiamo tassi di occupazione decisamente sotto la media europea; del ruolo della Borsa e degli investitori istituzionali, che è ancora troppo debole. Ancora una volta tutto questo chiarisce perché nel nostro Paese ci sono poche grandi imprese, se si tolgono i settori delle telecomunicazioni e dell’energia, che comunque dovrebbero rafforzarsi ulteriormente. Per capacità innovativa ci sono invece varie piccole e medie imprese italiane che potrebbero crescere ed evolvere in medie e in grandi imprese se i fattori di sistema lo consentissero. Allora avremmo quella compresenza di “Pilastri” e di “Distretti” che farebbe della nostra economia una delle più forti su scala mondiale, come si è dimostrato in un recente convegno organizzato dall’Accademia dei Lincei e dalla Fondazione Edison. Da tutto quanto detto, risaltano tre consapevolezze:

1) Se un sistema produttivo non cresce, anche il sistema Paese non si sviluppa, l’uno e l’altro essendo interdipendenti. In un sistema dinamico che intenda rimaner tale vanno prodotti simultaneamente beni pubblici, beni sociali e beni economici, ma non si può pensare che l’impresa e il mercato svolgano una funzione di supplenza quando i beni pubblici e quelli sociali sono prodotti in modo inefficiente.

2) L’Italia è e deve restare in Europa come grande Paese, nella consapevolezza che il semestre italiano di presidenza dell’Ue sarà per tutti una sfida. Lo sarà per le istituzioni (Governo e Parlamento nei suoi partiti di maggioranza e di opposizione, che dovrebbero abbassare i toni della conflittualità), per le imprese, ma anche per altri soggetti, come le università e gli enti di ricerca. Tutti dovrebbero farsi grandi sostenitori anche di un’economia della conoscenza. Da tempo si parla di escludere dal calcolo del deficit sui Prodotti interni lordi le spese per le infrastrutture e per la ricerca scientifico-tecnologica. E’ un’ipotesi interessante, ma non basta poter spendere di più per essere più efficienti.

3) E’ necessario disporre di una progettazione e avere una convinzione poliennale coerente che spetta al governo elaborare e attuare, una volta superata la durissima congiuntura internazionale dei due anni passati, con alcune grandi riforme del sistema Paese, in linea con le richieste della Commissione europea.

   
   
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