Settembre 2003

UN COLLASSO ANNUNCIATO (4 SECOLI FA)

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Tragico Seicento
Filippo Cardona
 
 

 

 

 

 

 

Gli imprenditori
genovesi si resero conto che non
esistevano
in Genova marinai capaci di manovrare quel tipo di navi nelle difficili
traversate
oceaniche.

 

Mentre i Paesi Bassi sviluppavano la loro politica commerciale planetaria, l’Italia prendeva tra il 1494 e il 1555 una gran mazzata, divenendo tragico teatro di battaglia tra Francesi e Spagnoli. Ma si era ripresa abbastanza bene e la seconda metà del Cinquecento può ragionevolmente essere definita una sorta di estate di San Martino dell’economia italiana.
Col Seicento, però, sopraggiunse il cataclisma definitivo. Ai primi di quel secolo, l’Italia settentrionale era ancora una delle aree più sviluppate d’Europa. Tre generazioni più tardi, l’intera Penisola era una terra sottosviluppata, prevalentemente agricola, importatrice di manufatti ed esportatrice di prodotti agricoli, dominata da una casta di potenti proprietari agrari che avevano ricacciato in secondo piano gli operatori mercantili, manifatturieri e finanziari. Col Seicento si chiude così un ciclo che aveva avuto inizio nel secolo X, aveva raggiunto il picco nel secolo XIII, aveva visto il Paese mantenere buone posizioni nei secoli successivi, e poi precipitare, appunto, nel secolo XVII.

Come spiegare questo collasso italiano? Tradizionalmente, gli italiani riversavano la colpa delle loro sventure sugli altri. Si citavano gli effetti dello spostamento delle linee di traffico dal Mediterraneo all’Atlantico per via della scoperta delle Americhe e dei traffici con il Lontano Oriente, o alternativamente imputavano la caduta agli effetti della dominazione spagnola e ai modi di vita spagnoleschi assorbiti dalla società dell’epoca. Questo tentativo di scaricare sulle spalle altrui la responsabilità delle proprie disgrazie non regge. Anzitutto, si può provare che lo spostamento delle vie di traffico fu fenomeno più tardo: ancora per quasi tutto il XVII secolo i prosperi Paesi del Nord trafficavano più con le aree del Mediterraneo che con le Indie Orientali e Occidentali. Quanto agli effetti della dominazione spagnola, l’argomento potrebbe valere per Milano, ma non tiene per Venezia e per Firenze, che non furono mai occupate dalla Spagna. E allora?

Il fatto fondamentale di cui bisogna soprattutto tener conto è che la prosperità e il benessere italiani si basavano sull’esportazione di beni e servizi (bancari, assicurativi e di trasporto marittimo). L’Italia è sempre stata povera di materie prime. Se voleva vivere con un buon tenore di vita, era costretta ad esportare.
E ancora ai primi del Seicento prodotti e servizi italiani trovavano largo esito sui mercati d’Europa, d’Africa e del Vicino Oriente. Venezia esportava nei Paesi mediorientali circa 25 mila pannilana all’anno. Genova esportava tessuti serici per oltre due milioni di lire genovesi del tempo. Firenze esportava tessuti di lana, tessuti auroserici in Spagna, nel Nordafrica e nel Vicino Oriente, e Milano esportava tessuti di lana, tessuti auroserici, armi e armature in Germania. Però, a partire dalla fine del Cinquecento Firenze, e a partire dal 1620 circa Milano, Genova e Venezia videro le proprie esportazioni crollare. Genova alla fine del XVII secolo esportava panni serici per meno di mezzo milione di lire all’anno. Venezia alla stessa epoca non riusciva più ad esportare nel Vicino Oriente che un centinaio di pannilana all’anno. Che cos’era accaduto?

Una delle ragioni del crollo delle esportazioni fu che alcuni dei Paesi tradizionali importatori di prodotti italiani entrarono in crisi per ragioni varie e di conseguenza il loro potere d’acquisto diminuì. Vaste province della Germania vennero devastate dalla Guerra dei Trent’anni (1618-1648). La Spagna entrò in una tragica fase di declino economico. Il mercato turco sprofondò in un ciclo di involuzione e di dissesto. Tutto questo non era colpa degli italiani.
Ma il crollo delle esportazioni italiane dipendeva largamente anche da altri fattori, di cui gli italiani portavano piena responsabilità.
La ragione prima del crollo delle esportazioni italiane consisteva nel fatto che le merci e i servizi italiani non erano più competitivi sul mercato internazionale per quanto riguardava i loro prezzi. In altre parole, le merci e i servizi italiani si vendevano a prezzi troppo elevati. Perché?
Anzitutto, gli italiani continuarono a produrre merci di ottima qualità, ma costosi e superati dalla moda. Olandesi e Inglesi che si erano resi conto dell’emergere di ceti nuovi avevano invaso il mercato con prodotti di massa; cioè pannilana più leggeri, dai colori sgargianti, e soprattutto che costavano molto meno dei prodotti tradizionali, destinati soprattutto ai ceti elevati.
Il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccò i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera. In secondo luogo, in Italia i salari erano più elevati che all’estero e non erano compensati da una maggiore produttività del lavoro. Infine, il carico fiscale sopportato dalle aziende italiane pare sia stato molto più elevato del corrispondente carico che pesava sulle aziende straniere.

Prodotti eccellenti ma démodé, alti salari ed elevata pressione fiscale significavano costi di produzione elevati, che a loro volta significavano prezzi più elevati, che a loro volta significavano perdita di competitività sul mercato internazionale. Così le esportazioni di manufatti crollarono. D’altra parte, ci fu uno spostamento della domanda estera che richiese sempre meno manufatti italiani e volle sempre più prodotti agricoli, soprattutto olio e vino.
Sotto la pressione della mutata domanda estera l’Italia, da Paese trasformatore di materia prima ed esportatore di manufatti e servizi, divenne un Paese eminentemente agricolo di baroni e contadini che esportava soprattutto prodotti del settore primario. Si salvò in parte il settore serico: lo sviluppo delle manifatture di seta a Lione e in Inghilterra bloccò le esportazioni di tessuto di seta italiani, ma gonfiò la domanda di filati di seta italiani. Le filande di seta rappresentarono un punto di resistenza dell’economia italiana, che si manterrà pressoché inalterato fino a tutto l’Ottocento.

C’è comunque un episodio significativo che vale la pena di raccontare in questa triste storia. Nel corso del Cinque e Seicento ebbero gran voga e fortuna le grosse compagnie commerciali, che ottennero dai rispettivi governi il monopolio dei traffici con una determinata area geopolitica. Tra questi colossi, primeggiarono la “Compagnia inglese delle Indie Orientali”, autorizzata nel dicembre 1600 dalla regina Elisabetta col nome “The Governor and Merchants of London trading into the East Indies”, e la “Compagnia olandese”, la VOC, nata nel 1602. Abbagliati dagli enormi profitti conseguiti da questi due colossi, gruppi di imprenditori costituirono analoghe compagnie in altri Paesi d’Europa: nacquero così, tra le altre, la “Compagnie française des Indes” e la “Compagnia danese delle Indie”.

In Italia, alcuni imprenditori genovesi tentarono la stessa impresa. Nel 1647 veniva creata a Genova la “Compagnia genovese delle Indie Orientali”, con un capitale di 100 mila scudi. Costituita la società sulla carta, gli imprenditori si scontrarono con una realtà locale sottosviluppata che non poteva reggere al gioco. Anzitutto, non si trovarono a Genova cantieri che sapessero costruire le navi adatte alla navigazione oceanica del tipo usato dalle compagnie inglese e olandese. I genovesi dovettero quindi ordinare due navi ai cantieri di Texel, in Olanda. L’ordinativo dovette esser fatto in tutta segretezza, perché in Olanda era proibito costruire navi di tipo olandese per potenze straniere. Comunque, ottenute le due unità, gli imprenditori genovesi si resero conto che non esistevano in Genova marinai capaci di manovrare quel tipo di navi nelle difficili traversate oceaniche. Furono costretti quindi a far ricorso all’ingaggio di un equipaggio olandese.

Sciolti questi nodi, che dimostravano ormai quanto l’Italia fosse arretrata rispetto alle maggiori potenze europee, le navi salparono da Porto Ligure il 3 marzo 1648, ma portoghesi e olandesi, di norma nemici acerrimi, si accordarono per eliminare sul nascere un possibile concorrente, e il 26 aprile 1649 una piccola flotta olandese catturò le navi genovesi e le condusse come preda a Batavia.

   
   
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