Settembre 2003

CONFRONTI

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Le tasse dell’Italietta
Fabio Corvino
 
 

 

 

 

In frangenti
così tempestosi
la forza compatta della Destra
storica fu quella di porre il pareggio di bilancio in vetta a tutti gli obiettivi.

 

«Quanto alla questione di popolarità, capisco anch’io questa facile teoria: che quando si aboliscono le tasse si diventa popolari. Ma questo è un sistema il quale a breve andare conduce a rovina e rende necessari, poco dopo, oneri e sacrifici più gravi che non sarebbero occorsi se non si fossero attraversati quei periodi di disorganizzazione. Questa popolarità è un effimero vanto, il quale non produce altro che il dissesto delle finanze e il male del Paese».

Non fosse per una certa ridondanza del linguaggio, questa citazione dagli atti del Parlamento italiano potrebbe trarre in inganno il lettore e fargli credere che queste espressioni siano state formulate da qualche esponente dell’opposizione nel corso di un dibattito in sede di Commissione, oppure in aula, a Montecitorio oppure a Palazzo Madama, appena qualche settimana o qualche mese fa. E invece, se non i concetti, perlomeno la forma espressiva denuncia esplicitamente l’anagrafe ottocentesca del passo citato.
Ma proprio qui sopraggiunge la sorpresa più interessante: quelle severe parole di richiamo alla necessità di tassare i cittadini senza illuderli con promesse demagogiche vennero fuori, nella seduta del 3 giugno 1863, dalla bocca di Marco Minghetti, uno dei più eminenti rappresentanti della Destra storica, che una superficiale cultura di sinistra ha così a lungo dipinto come il più cinico governo della “classe borghese” nella storia moderna del nostro Paese.
Certo è un fatto che nell’immaginario collettivo di parecchie generazioni di italiani – anche per merito di sussidiari scolastici scritti con mano probabilmente più incompetente che faziosa – il nome di Minghetti, e con il suo anche quelli di Quintino Sella e di Silvio Spaventa, rimangono tuttora collegati all’aborrita imposta sul macinato, l’odiosa tassa sul pane assurta a simbolo del classismo fiscale e politico dei primi governi dell’Italia unita. Ma davvero la tassa sul macinato fu questo, e solamente questo? Davvero l’intera esperienza della Destra storica merita di essere liquidata e sepolta nel segno di questo strumento tributario impopolare?
Già alcuni storici – come Salvemini, Chabod e Spadolini – avevano offerto giudizi più particolari e positivi sul peso e sul significato dell’opera di uomini come Minghetti e Sella. Oggi – in una fase nella quale i conti della finanza statale hanno toccato punte di drammaticità non dissimili da quelle che agitarono i sonni dei primi governanti dell’Italia unita – i tempi sembrano maturi per una rilettura complessiva e più ragionata di un’esperienza politica che (sebbene a costo di una tassazione implacabile, che colpì in modo particolare le aree del Sud del Paese) riuscì a compiere in pochi lustri lo straordinario miracolo del pareggio del bilancio.

Costituiscono un impeccabile contributo in questa direzione gli studi di Gianni Marongiu, docente di Diritto tributario all’università di Genova e alla Bocconi di Milano. Non si tratta di studi a tesi, anche se lo storico non rinuncia ad esprimere i propri giudizi. Il fatto è che, prima di esprimersi o sentenziare, l’autore fa intelligentemente parlare i fatti. Ne emerge un affresco dettagliato di quell’epoca, che risulta di grande interesse per il lettore di oggi. La Destra storica assume il governo della prima Italia unita (il Veneto e Roma si aggiungeranno in corso d’opera) in condizioni politiche e fiscali estremamente precarie: da un lato, per la renitenza di molti governi europei a riconoscere il nuovo Stato, e, dall’altro, per un saldo di bilancio nel quale le entrate coprono a malapena la metà delle spese.
La conquista della credibilità esterna diventa in questo modo un imperativo categorico a fini anche di fiducia finanziaria, e, insieme, un vincolo a una politica economica interna ispirata al più severo rigore. Come si intuisce – fatte le debite proporzioni – una situazione non tanto dissimile da quella in cui versa l’Italia presente nei confronti dell’Unione europea. Ebbene: in frangenti così tempestosi la forza compatta della Destra storica fu quella di porre il pareggio di bilancio in vetta a tutti gli obiettivi. Ma la sua grandezza fu quella di perseguire questa meta chiamando – per prime – a contribuire quelle classi agiate, quella borghesia proprietaria da cui gli stessi Sella e Minghetti provenivano e da cui attingevano il mandato elettorale.

Nelle sue dettagliate ricerche, Marongiu ricorda che la vituperata e “classista” tassa sul macinato arrivò soltanto nel 1868, a compimento di un’azione fiscale che fra il ‘62 e il ‘64 aveva esteso a tutto il Paese dapprima un’imposta sui terreni, poi un’altra imposta sugli stabili, e infine aveva introdotto la novità assoluta dell’imposta di ricchezza mobile.
Ma non basta. Nello stesso anno in cui venne istituita la tassa sul macinato, si applicò una ritenuta sui titoli del debito pubblico, si aggravò il prelievo sui patrimoni, si introdusse l’imposta di famiglia e si ridussero drasticamente le spese, in particolare quelle militari, che pure stavano molto a cuore alla corte regia e alla potente casta dello Stato Maggiore e dei fornitori dell’esercito e della marina. Politica impopolare, dunque, ma che si farebbe davvero fatica a definire anche antipopolare. Del resto, si deve proprio a questa severa politica della lesina se l’Italia della fine dell’Ottocento riuscì a non perdere il treno della prima rivoluzione industriale che stava attraversando da qualche tempo l’intera Europa.

Per gli uomini della Destra storica il pareggio del bilancio non era un totem, un feticcio ragionieristico. Fin dal 1862, in un discorso alla Camera, Quintino Sella aveva ammonito: «Come volete che si trovino capitali per l’industria, allorquando è aperto un mezzo di collocare con garanzia dello Stato capitali che danno cotanto profitto?». In altre parole, come si direbbe attualmente, la riduzione del debito pubblico fu concepita e fu perseguita al precipuo fine di liberare risorse a vantaggio di nuove attività produttive e della crescita dell’occupazione. Che poi risorse, attività produttive e occupazione interessarono quasi esclusivamente il Piemonte, la Lombardia e, in parte minore, la Liguria, vale a dire quello che in seguito sarebbe stato chiamato il triangolo industriale della Penisola, è altro discorso; che comunque portò alle sollevazioni dell’Italia estromessa, e per tanta parte saccheggiata di capitali baronali e di imprese produttive, dal tessile al meccanico, al navale, al manifatturiero. Problema complesso e complessivo, questo, che si sarebbe riproposto negli anni a venire con prepotente urgenza, e che ancora oggi è lontano dall’essere stato risolto.
Si consiglia la rilettura di tutte le vicende d’allora ai tanti profeti disarmati che ancora stentano a liberarsi della nefasta eredità di una storiografia faziosamente classista sulle vicende dello Stato unitario. Ma ancor più vivamente si consiglia a quegli esponenti della sedicente destra attuale a caccia di facile popolarità con demagogiche campagne e affabulanti promesse di riduzioni del prelievo fiscale, che comprendono immancabilmente il ricorso alle una tantum, senza riforme strutturali e quello a politiche che continuano a penalizzare lo sviluppo dell’Italia esclusa, in nome dell’avanzamento di quella privilegiata, localistica, pretenziosamente isolazionista.
Fossero redivivi, uomini come Minghetti, Sella, Spaventa, non giudicherebbero i nostri contemporanei come pronipoti «che sbagliano», discendenti degeneri. Tutt’al più, li considererebbero come “altro da sé”.

   
   
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