Non sembra
che la questione
della competitività
sia avvertita
in tutte le sue
implicazioni,
nonostante
la sua evidente
e drammatica
urgenza.
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Un Rapporto della Commissione di Bruxelles ha aumentato l’allarme
sulla perdita di competitività: in Europa si è ridotta
del 14 per cento in un anno, ma Francia e Germania migliorano, Italia
e Spagna peggiorano. L’apprezzamento dell’euro ha comportato
un peggioramento dei costi per i produttori pari a circa il 3,5
per cento nel secondo trimestre del 2003. Questo spiega sia le preoccupazioni
delle imprese sul fronte delle esportazioni sia l’insistente
richiesta tedesca alla Banca centrale europea di ridurre i tassi
sull’euro. Il deterioramento relativo dell’Italia corrisponde
a un tasso d’inflazione sempre più elevato della media
europea, fonte addizionale di perdita di competitività. Un
aspetto che continuiamo a trascurare con beata incoscienza.
Per darne soltanto un esempio fra molti, anche più gravi
nel ragionamento (se così si può dire), proprio di
recente i sindacati hanno chiesto di riferire il “tasso programmato
di inflazione” – qualcosa che si dovrebbe comunque eliminare
– non più a quella italiana, bensì a quella europea.
Così perderemmo ancora di più. Ma lo stesso allarme
che ci viene da Bruxelles sembra riflettere, su scala europea, un
concetto di (pretesi) ricuperi di competitività in termini
puramente monetari, mediante svalutazioni o, in questo caso, rivalutazioni
frenate. Precisamente l’esperienza alla quale l’Italia
ha fatto tanto illusorio e negativo ricorso nel passato, con effetti
strutturali devastanti sulla produttività e sulla crescita.
Un’ottica che, anche per altri disordinati aspetti, sembra
oggi destare inquietanti nostalgie.

Quello della competitività è un tema di gravità
estrema, che pervade l’insieme delle nostre prospettive economiche
e sociali. Da un arresto o meno del suo preoccupante declino dipenderanno
la ripresa a breve o medio termine, il rilancio della crescita,
i livelli di occupazione e le stesse possibilità di protezione
sociale. Gli effetti saranno alla lunga irreversibili. Ma non sembra
che la questione sia avvertita in tutte le sue implicazioni, nonostante
la sua evidente (e dovremmo dire drammatica) urgenza.
Ciò che soprattutto preoccupa è la contraddittoria
confusione di idee, di princìpi e di interessi che dominano
la scena: in mancanza, peraltro, di un autentico, serio e responsabile
dibattito. In termini generali, ma pressanti e “reali”,
(non “monetari”), il problema della nostra competitività
è stato posto ultimamente sotto angolazioni diverse dal ministro
Tremonti, dal governatore Fazio e dal presidente della Confindustria,
D’Amato, sullo spartiacque di un «declino industriale
ed economico» del nostro Paese. Tremonti lo nega, e non gliene
mancano gli argomenti (sia per l’ottimismo della volontà
che per il pessimismo della ragione). La vitalità di tante
nostre imprese, in certi settori e in molti “distretti”,
è un dato di fatto, ma soprattutto è un patrimonio
di risorse da accrescere, mobilitare e sostenere.
La competitività richiede il presidio di regole nel commercio
che, dalla Cina all’Est europeo, faticano a costituirsi: per
non parlare del costo del lavoro e delle reti di protezione sociale.
Dalla proprietà intellettuale ai marchi, dall’elettronica
al tessile, dai vini ai prosciutti e ai formaggi (celebri o meno),
l’Europa del mercato unico ma delle difese esterne deve mettere
le carte in tavola. Fazio e D’Amato differiscono invece sul
ritmo del declino legato alla perdita di competitività, premesso
che in tutte le classifiche dei Paesi sviluppati ci troviamo agli
ultimi posti e perdiamo posizioni.

In termini geologici, al lento ma continuo “bradisismo”
rilevato dal primo risponde il rischio di un “crac” improvviso
evocato dal secondo. Ma le antitesi non sono così nette:
il “primum vivere” di Tremonti e le sue condizioni non
ignorano certo la minaccia, così come i terremoti cronici
di San Francisco non esorcizzano l’incubo del “big one”.
Forse perché abbiamo almeno la fortuna di non stare proprio
seduti sulla faglia di San Andreas, la nostra frattura ce la scaviamo
da noi, al limite di due “zolle” in inesorabile collisione.
Preoccupano, a livello politico, le ricorrenti tentazioni protezionistiche
e statalistiche: aggraverebbero irreparabilmente il declino, accelererebbero
la perdita di competitività, impoverirebbero il Paese. L’unica
via di salvezza è quella delle riforme, delle liberalizzazioni
e delle autentiche privatizzazioni.
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